
L’articolo è stato realizzato da Arianna Colaiuta, Sabina De Silva, Martina Matarrelli, Olga Vannimartini e Neila Zannier che collaborano con il Centro Studi nell’ambito dell’Area Africa Subsahariana.
Il colpo di Stato in Mali
Lo scorso agosto un colpo di Stato, anticipato da un’ondata di proteste, ha posto fine alla presidenza di Ibrahim Boubacar Keïta in Mali. A subentrargli è stata una giunta militare, il Comité National pour le Salut du Peuple (CNSP). Nell’immediato il golpe è stato condannato dalle principali organizzazioni regionali, causando l’irrogazione di sanzioni economiche e politiche ai danni del paese. Tuttavia, a settembre, dopo le negoziazioni tra il CNSP e la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale, la nomina di un presidente ad interim ha dato il via ad una fase di transizione di diciotto mesi che dovrà riportare al governo le autorità democraticamente designate dai cittadini. La massima carica del governo transitorio è stata attribuita all’ex ministro della difesa Bah N’Daw, militare di carriera ora in pensione. A lui si affianca nel ruolo di vice il giovane colonnello Assimi Goïta, già carismatica figura chiave del CNSP. In attesa dei prossimi fondamentali appuntamenti elettorali, attesi per il 2022, l’attenzione della comunità internazionale rimane comunque concentrata sul Mali. Il Paese è infatti ancora alle prese con le conseguenze della più recente insurrezione tuareg, scoppiata otto anni fa nelle regioni settentrionali, nel contesto della quale hanno potuto trovare facili opportunità di espansione i gruppi jihadisti attivi nel Sahel. È proprio con l’obiettivo di contrastare il terrorismo islamista che in Mali si trovano ad operare numerose forze straniere ed internazionali, in primis i francesi con l’operazione Barkhane e gli Stati membri della Task Force G5 Sahel, confermando con la loro presenza il ruolo chiave di questo territorio per gli equilibri geopolitici dell’intera regione.
Proteste in Nigeria #endSARS
Ad ottobre 2020 sono scoppiate in Nigeria le proteste contro la Special Anti-Robbery Squad (SARS), un’unità speciale della polizia accusata di atti violenti e abuso di potere. La popolazione nigeriana è insorta a seguito alla pubblicazione di un video in cui si mostra un agente della SARS aggredire e uccidere un uomo, con l’intento di rubargli la macchina. La registrazione è diventata virale in poco tempo e l’hashtag #endSARS è finito in tendenza mondiale su Twitter, mentre diverse proteste spontanee insorgevano in tutte le principali città della Nigeria. La portata delle manifestazioni ha spinto il presidente nigeriano Muhammadu Buhari a ordinare la dissoluzione del corpo speciale di polizia con effetto immediato. Nonostante la posizione assunta dal governo, le proteste sono continuate in un’escalation di violenza che ha portato all’uccisione di civili disarmati nella città di Lagos. Le richieste avanzate dai manifestanti riguardano un adeguato risarcimento economico per le vittime di violenza e l’istituzione di un corpo indipendente che apra un’inchiesta sugli abusi compiuti, analizzando le denunce a carico degli agenti. La protesta #endSARS ha trovato nuovo vigore nel 2020 ma nasce nel 2017. Il paese, infatti, è vittima ormai da tempo di un radicato problema di brutalità della polizia. In particolar modo la SARS gode di una pessima reputazione dal 1992, anno della sua creazione, in quanto è ciclicamente accusata di rimanere impunita nonostante i continui abusi di potere sulla popolazione. Stando al rapporto di Amnesty International, che da anni monitora la situazione nel Paese, solo tra gennaio 2017 e maggio 2020 almeno 82 persone detenute nei centri SARS hanno subito torture e sevizie di vario genere. Le proteste di ottobre aprono, però, uno spiraglio di speranza per la società civile nigeriana che si è riscoperta attiva e determinata. I manifestanti sono stati per lo più giovani e giovanissimi, che hanno usato in maniera strategica i social media per amplificare il loro messaggio e organizzare le manifestazioni.
Conflitto in Etiopia
In un crescendo di tensioni tra il Fronte di Liberazione del Tigrè (TPLF) e il governo federale etiope, gli scontri in Etiopia si sono rapidamente trasformati in un vero e proprio conflitto all’inizio di novembre, determinando un momento significativo nel 2020 dell’Africa Sub-Sahariana. A solo un anno di distanza dal premio Nobel per la pace, il premier etiope Abiy Ahmed è oggi coinvolto in una guerra civile e una pericolosa crisi umanitaria. Con l’attacco da parte del governo etiope contro il governo locale del Tigrè, il 4 novembre ha avuto inizio l’offensiva militare che è continuata incessantemente fino al 28 novembre, giorno in cui il governo etiope ha preso il controllo di Mekelle, la capitale regionale del Tigrè. L’inizio delle tensioni può essere ricondotto a due anni fa, a seguito dell’elezione di Abiy Ahmed di etnia Oromo: la minoranza tigrina aveva mantenuto un saldo controllo delle istituzioni etiopi fino a quel momento, riuscendo a marginalizzare l’etnia maggioritaria degli Oromo. Da una parte il TPLF rivendica il diritto all’autodeterminazione e dall’altra il premier intende ricostruire l’unità nazionale. Lo scontro militare, che continua a causare migliaia di morti, viene visto da entrambe le parti come l’unica soluzione per affrontare le divergenze e la possibilità di una mediazione è ancora lontana. L’Unione Africana e le Nazioni Unite hanno provato ad intervenire contro possibili crimini di guerra ma il governo federale ha rifiutato con forza ogni tipo di interferenza internazionale. I primi aiuti umanitari, infatti, sono entrati a Mekelle solo il 12 dicembre dopo la firma di un accordo tra il premier etiope e l’ONU. L’instabilità del paese si sta riverberando nella regione, mettendo a rischio il già precario equilibrio del Corno d’Africa: Asmara, capitale dell’Eritrea, è stata attaccata più volte e 50.000 persone, in fuga dalle violenze nel Tigrè, si sono riversate in Sudan. La situazione è critica e sta allarmando la comunità internazionale, gli aiuti non sono sufficienti e i centri di accoglienza sovraffollati. Per contenere il flusso migratorio, il governo etiope ha schierato l’esercito nei punti nevralgici del confine, obbligando le persone a tornare indietro. Mentre le violenze continuano, Abiy Ahmed ha annunciato che le elezioni, posticipate a causa del COVID-19, si terranno il 5 giugno 2021.