Nell’anno che si sta per chiudere, malgrado l’esplosione della pandemia, che ha colpito la regione in modo relativamente meno intenso rispetto all’Europa, la competizione tra le grandi potenze mediorientali non ha dato segni di cedimento. Fin dai primi giorni dell’anno, la regione è stata scossa dall’uccisione da parte statunitense del Generale Qasem Soleimani, Comandante della Brigata Quds e personificazione dell’azione politico-militare iraniana in tutto il Medio Oriente. Malgrado i proclami di vendetta da parte iraniana, l’inasprimento delle relazioni tra Teheran e Washington non è sfociato in un conflitto aperto come molti prevedevano, bensì in una paradossale stabilizzazione della situazione sul campo. Il fronte libico ha visto un progressivo rallentamento delle operazioni militari, dopo la rottura dell’assedio di Tripoli da parte delle forze del Governo di unità nazionale guidato da Fayez al-Sarraj con il supporto di Qatar e, soprattutto, della Turchia, che è diventata un attore determinante, insieme alla Russia sul fronte di Haftar, del processo di pace libico. Da ultimo, la politica statunitense perseguita in prima persona dall’Amministrazione Trump ha raggiunto importanti traguardi nel processo di stabilizzazione dei rapporti tra Israele e i paesi arabi. Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco hanno infatti avviato il processo di normalizzazione delle rispettive relazioni con lo Stato Ebraico, un risultato storico se valutato nel più ampio contesto della regione che vedeva un solo paese, l’Egitto, avere relazioni ufficiali con Tel Aviv.
L’articolo è stato curato da Thomas Bastianelli, Pietro Baldelli, Mario Savina e Lorenzo Zacchi che collaborano nell’ambito dell’Area Medio Oriente e Nord Africa del Centro Studi.
Uccisione di Soleimani

Il 3 gennaio del 2020, a seguito di un raid statunitense, viene ucciso in Iraq il Generale Qasem Soleimani, Comandante delle Niru-ye Qods (Brigata Quds), considerata la “sezione estera” dei Pasdaran iraniani. Una notizia che apre l’anno geopolitico, e che per diversi giorni viene commentata e analizzata da tutti i network mondiali, per il timore di una forte escalation tra gli Stati Uniti e l’Iran. Andiamo per punti: nella notte tra il 2 e il 3 gennaio il generale Soleimani è rimasto ucciso in un raid aereo presso l’aeroporto internazionale di Baghdad, in Iraq. Per la precisione l’operazione è stata condotta tramite 4 missili lanciati da un drone MQ-9, che hanno distrutto la macchina sulla quale viaggiava il generale. Con lui morirà anche il capo delle Forze di Mobilitazione Popolare sciite irachene Abu Mahdi al-Muhandi.
Tale operazione è stata ordinata dal Presidente statunitense Donald Trump che, subito dopo il raid, ha pubblicato simbolicamente sul suo profilo Twitter la bandiera degli Stati Uniti d’America. In seguito, Trump ha dichiarato che Soleimani aveva “ucciso o ferito migliaia di americani in un lungo periodo di tempo e stava pianificando di ucciderne molti altri”. Quel che è certo è che il generale iraniano era da tempo nel mirino di Washington perché considerato responsabile di molti attacchi contro obiettivi americani organizzati in tutto il Medio Oriente, ma soprattutto rappresentava una figura imprescindibile per lo sviluppo della dottrina militare asimmetrica dell’Iran, grazie al suo ruolo di coordinamento tra le diverse milizie sparse nei vari scenari regionali e vicine a Teheran. In questo articolo sul nostro sito abbiamo cercato di spiegare, partendo dalla sua biografia, l’importanza di Soleimani per la politica estera e militare dell’Iran.
Dopo il raid, diversi esponenti delle istituzioni iraniane hanno promesso una forte vendetta nei confronti dell’azione degli Stati Uniti: tale operazione militare si è consumata nella notte tra l’8 e il 9 gennaio, quando l’Iran ha lanciato circa 30 missili balistici a corto raggio contro basi militari americane in Iraq, precisamente nella base aerea di Ayn al-Asad e Erbil. Immediatamente la propaganda dei Pasdaran, tramite agenzie semi ufficiali, ha annunciato la morte di oltre 60 militari statunitensi. Notizia immediatamente smentita da Trump, che in conferenza stampa ha dichiarato che nessuno dei soldati era rimasto ferito. In realtà, poche settimane dopo, fonti ufficiali del Pentagono dichiareranno che diverse decine di soldati di stanza nelle due basi prima citate avevano riportato alcune ferite a causa dell’attacco missilistico iraniano.
Cosa ci ha dimostrato questo evento?1) La linea rossa dell’amministrazione Trump. L’ordine sull’esecuzione di Soleimani arriva dopo due episodi specifici che avevano messo a rischio direttamente gli interessi americani nella regione: l’attacco di milizie sciite alla base aerea K-1 di Kirkuk il 27 dicembre 2019 e all’attacco all’ambasciata statunitense a Baghdad del 31 dicembre dello stesso anno. 3 giorni dopo arriva il raid contro Soleimani. Nel corso del 2019 ci sono stati diversi momenti di alta tensione in Medio Oriente (attacchi alle petroliere nello stretto di Hormouz, raid contro installazioni energetiche saudite), e in diversi casi si era ipotizzata un’azione di forza degli Stati Uniti, mai avvenuta. Washington ha invece agito una volta visto un rischio di escalation che avrebbe coinvolti direttamente installazioni militari o diplomatiche statunitensi. Un evento che quindi ben sintetizza l’approccio strategico che l’amministrazione Trump ha tenuto nell’area mediorientale. 2) La volontà statunitense di impedire la nascita di un attore egemone nella regione. Soleimani, nel corso degli ultimi anni, dato il suo ruolo attivo nella lotta allo Stato Islamico, si muoveva alla luce del sole in tutti gli scenari di guerra del Medio Oriente. In quel momento per Washington anche l’Iran rappresentava un aiuto sul piano tattico nella lotta all’Isis: una volta terminata la minaccia territoriale dello Stato Islamico, al contrario, l’amministrazione statunitense ha eliminato quella che considerava una vera e propria minaccia per la propria sicurezza, a causa del grande ruolo giocato da Soleimani nelle volontà di proiezione di potenza e influenza iraniane.
Libia: un 2020 di tregua

Siamo agli inizi del mese di giugno quando Khalifa Haftar e il suo esercito arretrano dopo oltre un anno di assedio lanciato alla capitale libica nell’aprile del 2019. A Tripoli si canta vittoria e allo stesso tempo si rifiutano le proposte di cessate il fuoco avanzate dall’Egitto – alleato del feldmaresciallo – dopo le pesanti sconfitte subite sul campo dall’uomo forte della Cirenaica. La fine dell’assedio di Tripoli è coincisa con la ripresa della produzione petrolifera di uno dei più grandi campi di estrazione del paese nordafricano bloccato dalle milizie proHaftar dal gennaio scorso: quello di El Sharara nella regione del Fezzan; e con lo spostamento della linea del fronte, dopo le vittorie del Governo di accordo nazionale (Gna), che da Tripoli si è spostata verso Sirte, considerata la porta di accesso alla cosiddetta mezzaluna petrolifera e chiave fondamentale per il controllo del Paese. La città di Gheddafi per molti mesi è stata considerata la “linea rossa” da non oltrepassare per entrambi i contendenti. Punto di svolta del conflitto è stata la riconquista della città di Tarhuna da parte degli uomini di Fayez al-Serraj, base strategica da dove Haftar e i suoi alleati – Egitto, Emirati Arabi Uniti e Russia – guidavano la campagna per la conquista della capitale. Il sostegno della Turchia (e del Qatar) a favore del Gna per l’inversione delle sorti del conflitto è stato fondamentale; non è un caso che l’annuncio della liberazione di Tripoli dall’assedio del feldmaresciallo sia stato annunciato da al-Serraj in una conferenza stampa ad Ankara al fianco del presidente turco Recep Tayyep Erdogan.
Qualche mese dopo, precisamente ad agosto, arriva l’annuncio a sorpresa di un accordo raggiunto dal capo del Governo di Tripoli e dal Presidente della Camera dei rappresentanti di Tobruk, Aguila Saleh, per un cessate il fuoco immediato vista anche l’emergenza sanitaria causata dalla pandemia di coronavirus. Totale unità di intenti sembrava esserci anche sulla ripresa totale della produzione petrolifera in tutto il paese ma non, invece, sul processo politico per la definizione delle elezioni da svolgersi nel 2021. Grazie all’accordo del 19 settembre mediato dal vice di al-Serraj, Ahmed Maiteeq, con la controparte orientale, guidata dal figlio di Haftar, le produzioni dei vari giacimenti petroliferi sono ripartite, permettendo un afflusso di risorse necessarie alla stabilizzazione economica del paese. Si ricorderà che l’accordo Maiteeq-Haftar prevedeva la ripresa della produzione ed esportazione di petrolio dai giacimenti petroliferi orientali sotto il controllo militare di Haftar, a condizione che le entrate petrolifere fossero congelate in un conto fino a quando non fosse stato raggiunto un accordo politico dalle parti che hanno iniziato a negoziare nell’ambito del Libyan Political Dialogue Forum (Lpdf), mediato dall’Unsmil. La stessa Missione Onu in Libia aveva annunciato il 23 ottobre a Ginevra che le due parti in conflitto nel paese nordafricano, rappresentate dai membri della Commissione militare mista (5+5), avevano raggiunto un’intesa sulla cessazione permanente delle ostilità. Il Lpdf che si è svolto a Tunisi in presenza dal 9 al 16 novembre (e successivamente con incontri virtuali) ha assunto delle decisioni importanti, soprattutto per quanto riguarda la definizione di una roadmap “per la fase preparatoria di una soluzione complessiva” alla crisi e la creazione di una nuova autorità esecutiva, rappresentativa di tutte le regioni del paese e incaricata di organizzare le elezioni parlamentari e presidenziali entro il 24 dicembre 2021. Nonostante ciò, molti sono i punti in cui le due parti sono ancora distanti: su tutti, la spartizione delle entrate petrolifere e i futuri componenti del nuovo Consiglio presidenziale. Il percorso per condurre a buon fine la transizione libica resta lungo e impegnativo.
Gli Accordi di Abramo

Il principale successo diplomatico raggiunto dall’amministrazione Trump in Medio Oriente nel 2020 è rappresentato dai cosiddetti Accordi di Abramo. Con tale locuzione ci si riferisce a una serie di accordi di varia natura firmati da Israele e da alcuni Paesi arabi per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche. Al momento sono quattro gli Stati arabi che hanno aderito a tale formato. In ordine cronologico: Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco. La principale novità apportata dall’amministrazione Trump concerne il metodo, ovvero la volontà di inaugurare un nuovo paradigma negoziale che, nei mesi futuri, potrebbe anche vedere l’adesione di un numero maggiore di Stati arabi. Questo consisterebbe nello smembramento del Middle East Peace Process in due dossier separati che, al contrario, fino a quel momento erano stati considerati come un’unica questione. Da una parte, la relazione tra Israele e i Paesi arabi; dall’altra, la risoluzione del conflitto israelo-palestinese. In definitiva, quindi, il paradigma degli Accordi di Abramo ha fatto decadere il così detto ‘veto palestinese’: la risoluzione del conflitto israelo-palestinese non rappresenta più la conditio sine qua non richiesta dagli Stati arabi al fine di accogliere Israele come un attore legittimo del teatro mediorientale.
Gli Emirati Arabi Uniti sono l’attore che si è mosso per primo e con maggiore decisione. Il 13 agosto EAU e Israele hanno firmato un primo Joint Statement in cui dichiaravano la volontà di normalizzare le proprie relazioni. Il 15 settembre successivo, alla Casa Bianca si è concretizzata tale volontà, con la cerimonia ufficiale per la firma del Treaty of Peace, Diplomatic Relations and full normalization. Durante la medesima cerimonia anche il Bahrein – che solo l’11 settembre aveva deciso di firmare una dichiarazione congiunta preparatoria – ha fatto il suo ingresso negli Accordi di Abramo, firmando una Declaration of Peace, Cooperation, and Constructive diplomatic and friendly relations. Non un trattato internazionale come quello tra Israele ed EAU, quindi, ma una dichiarazione di intenti bilaterale. Ad ogni modo, entrambi i Paesi hanno già iniziato a lavorare per l’apertura delle rispettive ambasciate a Tel Aviv.
Il 23 ottobre, il Sudan è diventato il terzo paese arabo a prendere parte al framework negoziale degli Accordi di Abramo ed accettare di normalizzare le relazioni con Israele, subito dopo che la Casa Bianca ha notificato al Congresso l’intenzione di rimuovere Khartoum dalla lista degli Stati che supportano il terrorismo. L’amministrazione Trump aveva promesso di rimuovere le sanzioni economiche al Sudan se il governo di transizione avesse pagato 335 milioni di dollari di risarcimento alle vittime degli attacchi terroristici compiuti da al-Qaeda alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania nel 1998 e dell’USS Cole nel 2000, dato che in quel lasso di tempo il governo di Omar al-Bashir ospitava Osama Bin Laden. La normalizzazione è avvenuta tramite un Joint Statement del Presidente del Consiglio di Sovranità sudanese al-Buhran e del Primo Ministro israeliano Netanyahu.
L’ultima riconciliazione è giunta il 10 dicembre, quando il Presidente Trump ha annunciato il raggiungimento di un accordo di normalizzazione tra Marocco e Israele. In relazione a questa mossa normalizzatrice, gli Stati Uniti hanno riconosciuto la sovranità marocchina sul Sahara Occidentale, sostenendo che la soluzione fornita dal Regno alla disputa territoriale sia credibile e realistica.
Nonostante Marocco e Sudan siano effettivamente rientrati all’interno della cornice degli Accordi di Abramo, sembra evidente che le modalità di bargaining siano diverse dai precedenti accordi. Infatti, gli Emirati Arabi Uniti sono l’unico paese ad aver effettivamente firmato un trattato internazionale, mentre per il Sudan si parla soltanto di un comunicato congiunto e nel caso marocchino non si parla di aprire una vera e propria ambasciata israeliana ma soltanto di un ufficio diplomatico. Inoltre, se per i due Paesi del Golfo la volontà di normalizzare con Israele è partita dalle intenzioni dei propri leader, nel caso sudanese e marocchino è evidente che si è assistiti ad un classico do ut des fra le parti, con gli Stati Uniti che hanno utilizzato la loro influenza per ottenere concessioni, cancellando il Sudan dagli Stati che sponsorizzano il terrorismo e riconoscendo la sovranità marocchina sul Sahara Occidentale in cambio delle normalizzazioni. In conclusione, anche se gli Accordi di Abramo sono stati utilizzati come un grande contenitore negoziale per raggruppare diversi paesi, ogni trattativa ha in realtà avuto peculiarità diverse e anche risultati differenti.