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TematicheCina e Indo-PacificoI tre documenti strategici di Tokyo: quali novità nella...

I tre documenti strategici di Tokyo:
quali novità nella strategia di difesa del Giappone?

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La scorsa settimana, il governo Kishida ha approvato tre documenti strategici: la nuova National Security Strategy (NSS), che va a sostituire quella del 2013 emessa sotto Abe, la National Defense Strategy (NDS) (precedentemente nota come National Defense Program Guidelines) e il Defense Buildup Program (DBP) (l’ex Medium-Term Defense Program). I tre documenti marcano un importante punto di svolta nella politica di difesa e sicurezza del paese. La notizia ha catturato l’attenzione della comunità internazionale, suscitando l’approvazione di molti e le critiche di alcuni.

I due punti salienti

I nuovi documenti strategici riflettono le preoccupazioni di un paese che vuole adeguarsi a un panorama internazionale sempre più incerto. Seppur introducendo una serie di importanti cambiamenti, i documenti sono in continuità con il graduale processo di “normalizzazione” del paese già avviato sotto Abe da più di un decennio. I due elementi chiave che più hanno catturato l’attenzione degli osservatori internazionali riguardano l’incremento del budget di difesa, e l’introduzione di capacità di contrattacco. 

Secondo quanto previsto dal DBP, entro il 2027 Tokyo destinerà circa 43 mila miliardi di yen al settore difensivo, una somma che porterebbe il bilancio di difesa al 2% del PIL. Si tratterebbe di una deviazione significativa dall’autoimposto limite dell’1%, a cui Tokyo si è tradizionalmente attenuta. Sebbene si tratti, sulla carta, di un incremento significativo, le ramificazioni pratiche di tale cambio di rotta potrebbero, però, essere più limitate di quanto riportato. 

Su Twitter, il Professor Adam Liff, esperto osservatore di Giappone, offre infatti un’interpretazione più sobria del “raddoppiamento” del budget. Come Liff sottolinea, il target del 2% va a incorporare allocazioni già esistenti, ma attualmente non conteggiate all’interno del bilancio di difesa. Ciò significa che la spesa militare effettiva sarà certamente incrementata, ma non necessariamente raddoppiata, in quanto il bilancio totale include voci già attualmente previste ma al di fuori dei confini del budget di difesa. Altrettanto importanti sono le modalità di allocazione delle risorse disponibili. Come ci ricorda infine Liff, a ciò andrebbero aggiunte considerazioni relative all’impatto dell’attuale deprezzamento dello yen.

Le modalità per finanziare l’incremento del bilancio rimangono, inoltre, un dilemma da risolvere. Kishida spinge per un aumento progressivo della tassazione. Tale proposta ha incontrato forti opposizioni e critiche, non solo tra la popolazione, ma anche all’interno dello stesso partito di governo, specialmente tra i membri della fazione fino a luglio guidata da Abe, che preferirebbero ricorrere all’emissione di titoli di Stato. Se i cittadini giapponesi sembrano sempre più consapevoli della necessità di rafforzare le capacità difensive del paese, una buona maggioranza è meno propensa a finanziare le spese militari di tasca propria. Non sorprende quindi, che, in un sondaggio dell’Asahi Shimbun, il tasso di approvazione del governo Kishida abbia raggiunto un minimo record del 31%.

L’altra questione saliente riguarda l’acquisizione di capacità di “contrattacco”. Tale dibattito, riemerso nell’estate del 2020, dopo che l’allora ministro della difesa Kōno annunciò la sospensione del sistema antimissile Aegis Ashore, è in realtà stato affrontato dalla leadership giapponese in svariate occasioni. Se in passato la linea a prevalere è stata quella secondo cui tali capacità non erano percepite come necessarie, le circostanze contemporanee, in particolare la guerra in Ucraina, la caduta di missili balistici cinesi nella zona economica esclusiva di Tokyo durante la recente crisi dello stretto di Taiwan, e l’intensificarsi dei test missilistici di Pyongyang, hanno sicuramente facilitato il cambio di rotta.

Seppur dotandosi di tali capacità, queste sono comunque da intendersi in chiave deterrente. Il loro utilizzo rimane confinato entro i limiti di uno scenario di auto-difesa, ovvero solo nel caso in cui esistano rischi concreti e imminenti per la sicurezza del paese. Difatti, la NSS sottolinea come le capacità di contrattacco rimangano subordinate alle tre condizioni per l’uso della forza definite all’interno del pacchetto di leggi sulla sicurezza approvate nel 2015. Pertanto, viene apertamente esclusa la legalità di attacchi preventivi. Tale approccio non andrebbe, quindi, ad alterare la tradizionale postura esclusivamente orientata alla difesa del paese. 

Tra continuità e novità

Oltre ai due temi sopra menzionati, vi sono una serie di altre importanti considerazioni.

In primis, l’eredità di Abe rimane preponderante. La nuova strategia per la sicurezza nazionale ripropone la Proactive Contribution to Peace Policy ideata proprio da Abe e va a istituzionalizzare formalmente la visione FOIP, anche questa gioiello dell’ex premier, all’interno dell’approccio strategico giapponese. Il Giappone, sottolinea il documento, si impegnerà infatti a universalizzare quest’ultima nella comunità internazionale. La NSS dà, inoltre, particolare enfasi alla collaborazione non solo con gli USA, ma anche con partner like-minded, tra cui il Quad.

La Cina rimane una seria preoccupazione e una sfida strategica, senza però essere apertamente descritta come un pericolo per la sicurezza del paese. Quest’ultima etichetta sarebbe stata favorita da alcuni esponenti del Partito Liberal Democratico. L’ex ministro della difesa Onodera, in un intervento al CSIS, aveva infatti preannunciato l’utilizzo dell’espressione, jyūdai na kyōi (grave pericolo) in riferimento a Pechino. Alla fine, però ad averla spuntata sembra essere l’approccio più moderato del Komeito.

La nuova NSS riflette anche la sempre maggiore inscindibilità tra economia e sicurezza. Difatti, il documento include la promozione di politiche per la sicurezza economica tra le modalità di intervento strategico a disposizione di Tokyo. Da notare è il riferimento alla resilienza delle catene del valore e alla volontà di ridurre l’eccessiva dipendenza da paesi specifici, due temi che sono riconducibili al dibattito sul decoupling dalla Cina.

Tornando a questioni di carattere militare, una delle priorità che emergono dalla NDS è quella di istituire un comando congiunto che permetta un coordinamento più efficiente delle forze aeree, navali e terrestri del paese. Un’altra importante priorità riguarda questioni logistiche relative all’immagazzinamento e fornitura di munizioni, e all’accesso a, e utilizzo di strutture civili in caso di crisi, ad esempio, aeroporti e porti.

Degno di nota è, infine, a mio parere, il riconoscimento della necessità di rafforzare la componente umana delle forze giapponesi, ovvero il personale delle SDF. La NSS afferma che Tokyo “si impegnerà per garantire l’arruolamento di personale SDF di talento e dal background diversificato. Inoltre, il Giappone creerà un ambiente organizzativo di tolleranza zero per le molestie e promuoverà un ambiente in cui le donne possano svolgere un ruolo più attivo”. L’inclusione di tale passaggio è di particolare importanza soprattutto alla luce della recente inchiesta del Ministero della Difesa che ha rivelato oltre 100 casi di molestie subite dal personale femminile delle SDF da parte di colleghi. 

Sfatare il mito di un “Giappone neo-militarista”

Tokyo abbandona la postura pacifista del dopo-guerra”. Così i titoli di numerose testate giornalistiche annunciano la fine di un’era, quella pacifista. In realtà, una lettura più sobria del contesto storico-politico del Giappone dal dopoguerra ad oggi consente di andare oltre i titoli da clickbait.

Un addio al Giappone pacifista non può che evocare l’idea di una “rimilitarizzazione” del paese. Tuttavia, rimilitarizzazione e riarmo non vanno di pari passo. Il primo sottende il ritorno di un’ideologia militarista, ovvero quella per cui uno stato “è portato a dare preponderanza, negli ordinamenti interni, alla classe militare e a considerare prioritarie le esigenze di questa, orientando anche le proprie relazioni esterne con altri popoli, nazioni o stati secondo una linea e uno spirito di aggressività”. Il secondo presuppone invece il potenziamento delle capacità militari di uno stato per far fronte alle esigenze del contesto securitario che questo si trova ad affrontare. 

Proclamare un allontanamento assoluto dalla Costituzione pacifista del dopoguerra (secondo cui il Giappone rinuncia alla guerra quale mezzo per risolvere le dispute internazionali) allude quindi all’idea che Tokyo si stia convertendo a un approccio assertivo che prevede il ricorso alla forza, anche quella preventiva, e l’abbandono della tradizionale postura strategica esclusivamente difensiva. Un’attenta lettura dei documenti strategici rivela un quadro differente. Tokyo continua, infatti, a identificarsi come una nazione improntata alla pace e ha rassicurato che continuerà a aderire alla politica unicamente orientata alla difesa, senza trasformarsi in una potenza militare che vuole minacciare altri paesi.

La continuità nella postura esclusivamente difensiva di Tokyo è evidente se ripensiamo alla questione delle capacità di contrattacco, il cui ricorso, come sottolineato in precedenza, rimane doverosamente legato alla sola auto-difesa del paese. Più che di un abbandono del pacifismo, si dovrebbe quindi parlare di una progressiva reinterpretazione da parte del governo giapponese di questo stesso concetto. Le trasformazioni dell’ultimo decennio, quelle avviate da Abe e portate avanti prima da Suga e ora da Kishida, trovano infatti le basi nella transizione dal “pacifismo passivo” del dopoguerra all’interpretazione proattiva del post-Guerra fredda.

Se durante la Guerra fredda, il concetto di pacifismo era interpretato in funzione della stabilità del solo territorio nazionale, limitando il ruolo internazionale del Giappone ad un contributo strettamente diplomatico, il crollo del muro di Berlino innescò a Tokyo un dibattito sulla necessità che il Paese del Sol Levante partecipasse proattivamente a mantenere la pace e sicurezza sia propria che della comunità internazionale attraverso tutti i mezzi a propria disposizione, incluso lo strumento militare. Come già evidenziato dal Professor Kamiya Matake, della National Defense Academy of Japan, “non si tratta di abbandonare il pacifismo del dopoguerra, ma di cercare di mantenerne le virtù correggendone i difetti per adeguarsi all’accresciuta potenza nazionale del Giappone e ai drastici cambiamenti avvenuti nella società internazionale dopo la fine della Guerra fredda”.

Se, pertanto, è vero che il paese sta estendendo le proprie capacità militari, acquisendo armamenti per i quali esiste una linea sottile tra difesa e offesa, tale riarmo non è assolutamente sinonimo di rimilitarizzazione. È, piuttosto, il prodotto di un bilanciato e progressivo ripensamento di come rispondere ai rischi posti da un contesto internazionale sempre più complesso, e va inquadrato nel contesto della transizione da “pacifismo passivo” a “pacifismo proattivo”.

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