La Federazione Russa esprime qualcosa in più della mera potenza regionale. Al di là della guerra in Ucraina, il Cremlino maneggia una pletora di strumenti per reagire alle sanzioni occidentali. L’estroflessione geopolitica dell’ultimo ventennio ha messo nelle mani di Mosca mezzi per alleggerire la pressione sanzionatoria ed eludere la ritrovata compattezza euro-atlantica. Data la nostra contiguità alle zone di interesse russe, un’eventuale risposta potrebbe trovarci spiazzati, impreparati a gestire la controffensiva asimmetrica.
Al di là della guerra in Ucraina e dell’efficacia con la quale Mosca prosegue i suoi sforzi, la Russia si estrinseca nel contesto internazionale come una potenza che eccede la mera regionalità, come avrebbe voluto l’ex Presidente degli Stati Uniti Barack Obama.
Gli anni novanta ci restituirono una Russia alienata dagli effetti del crollo dell’Unione Sovietica, con gravi ricadute economico-finanziarie e sconvolgimenti interni che minarono l’unità stessa della Federazione a causa dell’emersione di quinte colonne interne incline alla secessione. Tuttavia dai primi anni duemila, conosciuti anche come “il decennio della crescita” (2000-2008), emblematici per i primi due mandati di Putin, il Cremlino ha ricominciato a maneggiare gli strumenti geopolitici, con spinte in avanti parallele all’esacerbazione dei rapporti con l’Occidente. Alla fine della prima grande crescita economica russa – in corrispondenza dell’innalzamento dei prezzi delle materie prime, colonna portante della sua economia – il Cremlino ha attuato riforme militari e programmi di modernizzazione, rispettivamente nel 2008 e nel 2011. In corrispondenza della crisi Ucraina del 2014 la forza militare era divenuta a tutti gli effetti uno strumento di potenza nazionale.
Mosca negli anni della crescita si è riattivata per ricostruire una rete diplomatica – spesso rivitalizzando sedimenti geopolitici dell’Unione Sovietica – che le consentisse di avere più margini di manovra nel perseguimento della sua Grand Strategy. La rete pianificata dal Cremlino lambisce le nostre coste; in termini geografici – anzitutto il contesto libico – e per questioni derivanti dagli effetti indiretti delle politiche avanzate nel contesto del “Mediterraneo allargato”.
Dalla Siria alle “Libie”
Il caso più importante, per vicinanza geografica e per conseguenze dirette su Roma, è la Libia. Dopo la morte del Generale Gheddafi e il caos interno che ne derivò per via dell’inconciliabilità dei due versanti libici, la Tripolitania e la Cirenaica, l’Italia non ha saputo giocare un ruolo attivo nell’ex colonia. Per la grave crisi economica che la attraversava; per la crisi reputazionale della dirigenza politica; per il tendente disinteresse ad occuparci di quanto accade nel nostro estero vicino.
In geopolitica il vuoto creatosi, viene inequivocabilmente colmato da altri attori; nel caso libico: la Federazione Russa e la Turchia. Prima del 2015 il Cremlino era decisamente un attore meno influente rispetto ad oggi nelle dinamiche del Medio Oriente e dell’Africa Settentrionale, ma da lì in poi ha iniziato a giocare un ruolo più assertivo. Nello stesso anno infatti ha portato avanti una campagna militare funzionale al mantenimento del regime di Bashar al-Assad in Siria, con la quale la Russia aveva legami dai tempi dell’Unione Sovietica. L’iniziale capacità di Mosca a muoversi nelle complesse dinamiche mediorientali, l’hanno qualificata quale attore affidabile nella regione, aumentandone il prestigio e gli stessi interessi, generando un’espansione della sua rete di relazioni e della sua sfera di interesse verso il contesto euro-mediterraneo.
Le dinamiche sopracitate portarono in sostanza la Russia a ergersi a soggetto potenzialmente in grado a dipanare il complesso dossier libico, estendendo ulteriormente la sua sfera di influenza. Nel 2011 Mosca era contraria a un’interferenza negli affari interni libici e quindi alla destituzione del Colonnello Gheddafi; tuttavia, si astenne al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, non senza rancore. Nel 2015 vide in Haftar l’uomo attraverso il quale poter ristabilire in Libia l’ordine perso dall’uccisione del Rais, sperando di ricavarne profitti geopolitici qualora la missione avesse avuto successo.
Ad oggi le operazioni hanno portato ad uno stato delle cose che avvantaggia parzialmente la Turchia, intervenuta sul campo per arrestare il fronte Haftar sostenuto tra l’altro da attori ostili ad Ankara come Egitto ed Emirati Arabi Uniti. Tuttavia la Russia, con un suo contingente mantiene capacità di influire sulle dinamiche interne libiche. La presenza russa si manifesta attraverso i mercenari della Wagner, compagnia privata dell’ex Colonnello delle Forze Speciali Spetznaz Dimitriy Utkin. Mosca più volte nelle sue campagne militari all’estero si è avvalsa di tali mercenari che avrebbero la funzione principale di mascherare la sua azione e i suoi obiettivi, negando diretti legami con la milizia.
Ciò nonostante, il gruppo è attivo in Libia dal 2016 a supporto delle forze fedeli al generale Khalifa Haftar. Si pensa che fino a 1.000 mercenari Wagner abbiano preso parte all’avanzata di Haftar sul governo ufficiale a Tripoli nel 2019. Secondo alcune fonti, fino al conflitto in Ucraina c’erano almeno 2.200 unità della Wagner presenti sul territorio libico, di queste circa 1.300 sono state trasportate in Ucraina per rafforzare il contingente russo.
Oltre ai fattori immateriali, quali l’accrescimento del prestigio internazionale, l’operazione in Libia ha una validità profondamente tattica. Dato l’incrinarsi dei rapporti con la Nato, l’installazione, seppur porosa, di milizie sul suo fronte sud significherebbe aggirare l’Alleanza, aprendo a Mosca nuovi margini di manovra. Il contesto descritto potrebbe nel futuro concretizzarsi in una maggiore capacità russa di determinare i processi interni di un paese rilevante per la sicurezza strategica ed energetica del fronte sud dell’Alleanza Atlantica.
Per quanto riguarda l’aspetto energetico, l’Italia e l’Unione Europea sembrano decise ormai a provvedere alla diversificazione energetica rendendosi meno dipendenti da Mosca. Per Roma sembrerebbe naturale guardare agli attori mediterranei tra i quali appunto Tripoli. Ma dalla crisi del 2011 il fronte sud non sembra rassicurare molto, il che giustifica la netta diminuzione dell’import energetico soprattutto da Tripoli.
Oggi le importazioni gasiere dell’Italia dipendono per la gran parte dalla Russia per un valore approssimativo del 40%, mentre dalla Libia importiamo circa il 6% del nostro fabbisogno gasiero, trasportato attraverso il greenstream che congiunge Melliath a Gela.
Il Ministro Cingolani ha dichiarato che il nostro paese sarebbe pronto a svincolarsi completamente dalla dipendenza russa tra i 24 e i 36 mesi. Tale dinamica ha condotto Roma a stringere nuovi accordi con tre importanti fornitori: Libia, Algeria, Azerbaigian. Secondo il Ministro l’Italia riceverà ulteriori 10 miliardi di metri cubi di gas dai tre esportatori, che raggiungeranno un totale di 24 miliardi di metri cubi entro il 2024.
La diversificazione dovrebbe insomma aver esito veloce. Eppure non disponiamo attualmente in Libia della capacità concreta funzionale ad influire sui processi interni di un paese che non gode di una struttura statale solida, facilmente condizionabile quindi da attori geopolitici presenti militarmente sul campo. Stiamo improvvisamente avvertendo le gravi distrazioni degli anni precedenti in termini di politica estera. L’attuale contesto che vede inasprire i rapporti tra Russia e Occidente potrebbe radicalizzare il conflitto in contesti, come quello libico, nel quale siamo attualmente impreparati e dal quale vorremmo dipendere energeticamente. La maggior parte dei siti estrattivi libici peraltro si trovano in Cirenaica, zona parzialmente controllata dalla milizia Wagner, quindi da Mosca.
Negli Ultimi anni abbiamo riscoperto inoltre l’utilizzo tattico-politico dei migranti (vedi Turchia e Bielorussia). Lo stazionamento dei mercenari potrebbe, qualora arrivassero a controllare il flusso dei migranti, riaprire la triste crisi migratoria, strumento attraverso il quale Mosca sottoporrebbe a pressioni materiali e psicologiche il fronte europeo, il quale su tale dossier tende costantemente a dividersi. La crisi alimentare nell’area MENA, generata dalla guerra in Ucraina, parrebbe enfatizzare l’ipotesi di una nuova escalation migratoria.
Algeri e Mosca
L’Algeria ha una struttura statale sicuramente più solida e resiliente rispetto a quella libica, ma in tal caso le preoccupazioni deriverebbero da altri fattori. Algeri intende estendere la sua profondità strategica in africa settentrionale, frastornata dalla crisi regionale apertasi dalle Primavere Arabe e dalle ingerenze occidentali. È in aperto contenzioso con il vicino Marocco per la questione del Western Sahara, che è stato riconosciuto dall’amministrazione Trump quale territorio sotto la sovranità di Rabat, incrinando ulteriormente i rapporti con Algeri. La guerra per la decolonizzazione e quindi per l’indipendenza algerina ha aperto una ferita con l’Occidente che non è mai stata del tutto chiusa, tanto che Algeri ha deciso nel corso degli anni di scegliere l’Unione Sovietica – ed oggi la Federazione Russa – quale attore decisivo per l’approvvigionamento di armi e quindi per la sicurezza del paese. Nonostante ciò ha sempre ostentato il suo non allineamento durante il periodo del bipolarismo. Negli ultimi anni si è ulteriormente assistito ad un avvicinamento russo-algerino. L’Algeria è un cliente importante per Mosca nello scacchiere mediterraneo funzionale a consolidare la sua posizione in Nord Africa. Algeri acquista circa l’80% del suo arsenale militare da Mosca. Le forze armate algerine, dopo quello egiziane, sono tra le più sviluppate di tutta l’Africa ed hanno una notevole influenza sulle vicende politiche del paese fin dalla sua indipendenza da Parigi. Il Pouvoir continua inoltre tuttora a ostacolare qualsiasi cambiamento che metta in discussione l’egemonia della sua élite. Anche su questo dossier in sostanza, l’Italia dovrebbe fare i conti con la relativa influenza russa. Dovremmo saper gestire tale influenza e fare pressioni per allontanare Algeri dal suo partner più importante. La dinamica russo-algerina preoccupa anche Washington che vede in essa la possibile estroflessione russa nel Mediterraneo, area sulla quale il disimpegno strategico americano ha allettato medie potenze che potrebbero pregiudicarne la stabilità in un momento in cui gli Stati Uniti vorrebbero concentrarsi specialmente sull’Indo-Pacifico. Area sulla quale si decideranno le sorti della rivalità sino-statunitense.
La Russia dispone di ulteriori strumenti tattici in Africa e qui sta continuando ad espandere la sua influenza come dimostra l’ultimo attivismo in Burkina Faso, da aggiungersi a Libia, Centrafrica, Mali, Mozambico e Sudan.
La Radicalizzazione dello scontro con Mosca lambisce in sostanza le nostre coste. Il Cremlino potrebbe concentrare l’attenzione in un’area sensibile per la sicurezza di Italia, Nato e Unione Europea. Qualora attivasse gli strumenti nordafricani, potremmo riscoprire le lacune nel nostro estero vicino.