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I risultati delle elezioni municipali bosniache: quale quadro ne emerge per la comunità internazionale?

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Per la Bosnia e Erzegovina, il 2020 non ha rappresentato unicamente l’anno della sfida nei confronti dell’emergenza sanitaria. Un altro evento che ha segnato un periodo storico così già compromesso sono state le elezioni municipali svoltesi verso la fine dell’anno. Per quale motivo è da considerarsi un evento così rilevante sia per la politica interna che quella estera?

Data la forte eterogeneità etnico-religiosa del Paese, con la ratifica dell’Accordo di Dayton, la Bosnia e Erzegovina ha siglato la nascita di una Repubblica fondata su precisi stratagemmi di consociativismo. Attraverso l’istituzione di entità federali, una presidenza tripartitica e poteri di veto, viene garantito un ruolo di grande rilevanza politica alle tre comunità principali del Paese. Così, croati-cattolici, bosgnacchi-musulmani e serbi-ortodossi hanno la possibilità di influenzare ed intervenire direttamente nei processi di policy-making su tutti i livelli e assicurare la presa a carico dei bisogni delle rispettive comunità.

Se su carta il sistema stabilito dopo le guerre dimostra di essere particolarmente all’avanguardia e ambizioso nel trattare forti segregazioni sociali, nella realtà non ne aiuta il suo superamento. Il Paese rimane ancora fortemente segnato da profonda ostilità, che non si manifesta soltanto sul piano sociale come ad esempio nella sfera scolastica, il mondo del lavoro e le disparità economiche. L’ostilità tra comunità si presenta anche sul piano politico.

In piena pandemia, la Bosnia e Erzegovina ha dovuto nuovamente affrontare le sue due ricorrenti fratture: l’interpretazione degli eventi accaduti durante la guerra e un senso di insicurezza e diffidenza nei confronti delle comunità avversarie. Così, quando il mondo si è trovato a lottare contro un nemico invisibile che non conosce differenze etnico-religiose, i bosniaci si sono ritrovati in campagna elettorale a supportare ancora una volta a piena voce gli interessi delle singole comunità vicendevolmente in contrasto.

La campagna elettorale e le sue incongruenze

Pur con sei settimane di ritardo dovuto a questioni di budget, le elezioni municipali si sono tenute a metà novembre. Nonostante il timore di un’emergenza sanitaria incontenibile, il Paese è riuscito ad andare al voto, ad eccezione della città di Mostar. A prescindere dalle questioni economiche, l’amministrazione locale necessitava di ulteriore tempo per ultimare gli emendamenti ai regolamenti elettorali necessari per permettere almeno questa volta, dopo dodici anni di stallo, l’esercizio del potere democratico del voto.

Nonostante i preziosi passi in avanti, la via non si è presentata senza intoppi. Già alcuni mesi prima delle elezioni, l’Agenzia per la Protezione dei Dati Personali bosniaca aveva emesso un’ammonizione nei confronti della Commissione Centrale per le Elezioni a causa della pubblicazione online di dati dei cittadini registrati per la votazione all’estero. Un’altra nota stonata è stata l’indagine portata avanti dai media locali sulle irregolarità dei seggi elettorali. Queste si sono manifestate come registrazioni erronee e furti di identità: varie persone hanno trovato i loro dati associati ad indirizzi situati in Paesi come la Serbia, la Croazia o l’Austria in cui non si sono mai recati e le identità di persone decedute risultavano ancora godenti il diritto di voto. Altre ricerche hanno invece portato a scoprire una mancata corrispondenza tra il numero degli aventi diritto di voto e l’effettivo numero dei maggiorenni residenti nel Paese.

Neanche il giorno delle elezioni è stato risparmiato da eventi controversi. Nella città di Banja Luka, agli osservatori elettorali è stato negato l’accesso al sito giustificando tale azione come misura di contenimento per la propagazione del Covid-19. In altre aree del Paese, i seggi non sono stati aperti puntualmente rimanendo chiusi per alcune ore prima di essere disponibili. A Doboj il PDP (Partito del Progresso Democratico), di ruolo come osservatori, sono stati impossibilitati ad accedere a 68 seggi. A venticinque anni dal massacro, a Srebrenica tre persone sono state incriminate per la manomissione del processo elettorale e l’uso illegale dei dati personali. Anche la procedura di voto dall’estero non è risultata particolarmente di successo: in Grecia la documentazione per permettere ai cittadini bosniaci il voto a distanza non è mai arrivata.

I risultati

Nonostante le turbolenze, sulla base dei dati emersi, nel Paese si è visto un leggero incremento dei voti verso liste indipendenti e partiti slegati a questioni etniche. Caso emblematico è la perdita da parte dei partiti nazionalisti del centro di Sarajevo: con ben due terzi dei voti, Naša Stranka ha guadagnato un gran numero di seggi. Riguardo invece all’amministrazione del cantone, si è vista una riformulazione della coalizione dopo alcuni anni di prevalenza SDA, ovvero il Partito d’Azione Democratica di matrice nazionalista bosgnacco-musulmana. Altre aree invece hanno riscontrato dei trend più abitudinari: Jasmin Imamović (Partito Socialdemocratico) inizia il suo sesto mandato consecutivo come sindaco di Tuzla, Fikred Abdić e Miroslav Kraljević, entrambi incriminati per crimini di guerra, vengono rieletti rispettivamente in Velika Kladuša e Vlasenica.

Mostar, una tra le città che desta maggior interesse sia a causa dei suoi trascorsi di guerra quanto anche per il suo persistente blocco politico, nelle ultime elezioni è riuscita in qualche modo a ridimensionare lo stallo. Seppur con irregolarità, lo spoglio dei voti ha decretato la preferenza dei cittadini nei confronti dei partiti nazionalisti con un leggerissimo vantaggio di HDZ, l’Unione Democratica Croata. Ad oggi non risulta ancora chiaro il proseguo: il partito croato detiene un solo seggio in più rispetto a SDA. Ciò potrebbe comportare rinnovati blocchi ed inefficienze nel processo di decision-making.

Come emerge dal quadro politico, i traumi della guerra sono ancora molto persistenti nel tessuto sociale del Paese. Le diverse comunità risentono ancora dell’ostilità pregressa e dimostrano maggior senso di sicurezza nell’affidarsi ai leader con la propria origine etnica, che garantiscono la realizzazione degli interessi specifici della propria comunità. Quello che emerge, oltre al continuato senso di insicurezza nei confronti delle altre comunità, è anche una forte presenza di corruzione in tutti i livelli istituzionali. Ovviamente da ciò non ne scaturisce un alto grado di trasparenza inficiando così in quello potrebbe essere un normale andamento democratico.

Conclusioni

Quello che per Freedom House è di fatto un regime ibrido, ovvero un’entità con valori democratici sui generis concepibilmente tendenti ad una deriva autoritaria, è un Paese di enorme importanza geostrategica sia per la regione balcanica che per l’Unione Europea. Con la sua posizione centrale nell’area dei Balcani Occidentali, rappresenta un punto di snodo fondamentale tra l’est Europa e la parte centro-occidentale dell’Unione. Importante è anche la sua notevole affinità con il vicino oriente: oltre all’aspetto puramente culturale e religioso, la Bosnia e Erzegovina rappresenta il primo punto di approdo per l’accesso all’Unione Europea da parte dei migranti e richiedenti asilo provenienti dall’Asia Centrale e dal Medio Oriente. Quello che ne emerge però è un quadro tutt’altro che rassicurante: le problematicità in materia di efficienza e credibilità istituzionale, come gli aspetti più profondi di segregazione sociale, comportano dei rischi notevoli di instabilità regionale. Il Paese rimane grande sorvegliato dalla comunità internazionale, in primis dall’Unione Europea ma anche dall’OSCE e all’ONU. Oltre ad incarichi di monitoraggio, la comunità contribuisce con fondi economici mirati ad uno sviluppo economico sostenibile oltre che all’implementazione di programmi che favoriscano un senso di coesistenza sociale pacifica.

Angelica Vascotto,
Geopolitica.info

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