Nel 1994 Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale festeggiarono, a Bretton Woods, i loro primi cinquanta anni dalla fondazione mentre una nuova istituzione, l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), controparte commerciale delle due istituzioni finanziarie, prendeva forma sulla base dell’Uruguay Round sancendo la definitiva trasformazione del GATT da accordo generale a organismo internazionale permanente.
Le celebrazioni non riuscirono tuttavia a mascherare la crisi di identità che, alla luce dei fallimenti delle politiche del Washington Consensus nei Paesi in via di sviluppo ancora fortemente indebitati, aveva investito proprio FMI e WB. Tra le file della destra economica si alzarono voci contro l’inefficienza delle stesse istituzioni nel tentativo estremo di salvaguardare l’impianto ideologico del laissez-faire; mentre le critiche nell’ambiente accademico degli studi sullo sviluppo si concentrarono sulle drammatiche conseguenze causate dalle politiche di aggiustamento strutturale e dalla cancellazione dello Stato nelle dinamiche di sviluppo dei singoli Paesi.
Per comprendere, tuttavia, il passaggio che condusse le strategie di sviluppo oltre il cosiddetto Washington Consensus verso una fase di Post-Washington Consensus, dobbiamo in primo luogo far riferimento al contributo di Joseph Stiglitz, economista insignito del Premio Nobel nel 2001 e tra i principali protagonisti – alla fine degli anni ’90 – del processo di definizione della nuova agenda economico-politica mondiale. In qualità di Senior Vice President e Chief Economist alla Banca Mondiale dichiarò che, alla luce degli evidenti fallimenti conseguiti nei Pvs, le preoccupazioni del Washington Consensus non avrebbero più potuto concentrarsi sul solo obiettivo del contenimento dell’inflazione; da quel momento in poi sarebbe stato necessario riconsiderare, nelle “regole del gioco” politico-economico globale, anche il ruolo regolatore dello Stato soprattutto in settori chiave e particolarmente delicati quali quello dell’educazione e della salute, delle politiche economiche, industriali e di welfare. In sintesi Stato e Mercato non avrebbero più dovuto essere considerati come due entità autonome, indipendenti ed in reciproca contrapposizione; bensì l’uno complementare all’altro.
La proposta di un cosiddetto Post-Washington Consensus fu dunque incentrata sulla necessità di riconoscere, e correggere, le imperfezioni del mercato attraverso interventi meno dogmatici rispetto a quelli applicati nel corso degli anni Ottanta.
La storia dell’ultimo decennio può tuttavia essere interpretata seguendo due percorsi distinti a seconda che si riconosca un’effettiva presa di distanze del Post-Washington Consensus dal Washington Consensus, o che si ravvisi nel paradigma degli anni ‘90 una forma riveduta e corretta – edulcorata da un linguaggio positivo ed accattivante – delle stesse strategie di sviluppo degli anni ’80; paradossalmente, infatti, anche nel Post-Washington Consensus l’influenza del riduzionismo economico non ha permesso quell’autentica ridefinizione delle sfere economica e sociale che avrebbe facilitato un passo in avanti rispetto al passato. Inoltre, la nozione di Good Governance cominciò a farsi spazio nei documenti ufficiali delle organizzazioni internazionali e nelle riflessioni accademiche. Lavorando su “come” il governo avrebbe dovuto essere realmente esercitato, si tentò infatti di stabilire un collegamento tra la dimensione politico-istituzionale e quella amministrativo-gestionale. La Good Governance, comprensiva dei principi della partecipazione, dell’inclusione e del capitale sociale, divenne presto lo strumento per eccellenza, nel gioco della sostenibilità dei processi di sviluppo, per definire l’ “idoneità” di un Paese piuttosto che di un altro a ricevere aiuto economico o infrastrutturale. Anch’essa, come lo strumento della condizionalità, finì per essere impiegata all’interno di strategie volte ad appoggiare riforme istituzionali disegnate dall’alto e fu così svuotata del suo originario significato politico. La dimensione gestionale dell’efficacia, incorniciata nel contesto privilegiato del libero mercato, fu evocata soprattutto dalla Banca Mondiale ed associata ad una Good Governance in chiave tecnica e finanziaria. Il fine, non diversamente dai decenni precedenti, era certo quello di rafforzare istituzioni favorevoli ai mercati migliorandone la performance e riducendone l’impianto burocratico, sulla base del cosiddetto New Public Management, in gran voga nella decade riformista degli anni Ottanta.
E’ evidente quanto la flessibilità e l’ambiguità che accompagnano, ancora oggi, non solo la nozione di Good Governance ma l’intero nuovo linguaggio dello sviluppo (ad es. i termini partecipazione, sviluppo umano, sviluppo sostenibile, approccio bottom up) siano finalizzate a far convergere e mescolare principi della mainstream dello sviluppo con soluzioni vagamente innovative ed alternative. Più che di una debolezza concettuale sembra si sia trattato di un disegno minuzioso di veicolazione del consenso, rispondente all’esigenza generalizzata di giustizia e di trasparenza.
Dato ancor più rilevante, FMI e WB hanno tentato, ieri come oggi, di incorporare governi e realtà nazionali nel processo stesso di formulazione delle politiche di aggiustamento strutturale al fine di presentarle come il frutto della contrattazione democratica e della partecipazione locale della società civile. Al contrario, questi piani di programmazione economico-finanziaria non tennero nella dovuta considerazione la diversità delle culture dei popoli, l’adattabilità di questi ultimi a nuove tipologie di organizzazione economica, il grado di istruzione delle comunità e i costi dell’impatto sociale che avrebbero indotto. Per tutti fu una ricetta eguale e severa che, a detta dei dirigenti della BM e del FMI, avrebbe causato “un breve male per un bene duraturo”.
Inoltre, il rapporto tra i Piani di Aggiustamento Strutturale (PAS), dell’era del Washington Consensus, e i Documenti Strategici per la Riduzione della Povertà (PRSPs) elaborati nella fase Post è tutt’altro che casuale. Questi ultimi hanno infatti lo scopo di rimediare agli errori irrisolti dai PAS lasciando maggiore libertà ai governi indebitati nell’elaborazione delle strategie. Eppure le condizionalità richieste nell’ambito dei PRSPs non si distinguono da quelle imposte nell’ambito dei PAS e, ugualmente, l’approvazione degli organismi finanziari internazionali risulta fondamentale per l’erogazione stessa dell’aiuto anche nell’ambito dell’iniziativa a favore della riduzione del debito dei HIPC (Heavily Indebted Poor Countries). Verso la metà degli anni Novanta, l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) ha formulato una lista di obiettivi, gli International Development Targets (IDT), ripresi poi nel 2000 dalle Nazioni Unite con la denominazione di Millennium Development Goals (MDG) che, in sintesi, hanno avanzato la riduzione della povertà e lo sradicamento della fame estrema; la garanzia dell’ istruzione primaria; l’attuazione di politiche per le pari opportunità tra uomini e donne; la riduzione della mortalità infantile e delle madri al momento del parto; la lotta contro gravi virus quali l’HIV e la malaria; la promozione della sostenibilità ambientale; lo sviluppo di una partnership globale per lo sviluppo.
La conferenza, chiusa a New York nel settembre del 2000, ha sintetizzato e ribadito, conformemente alle prescrizioni del Post-Washington Consensus, i principi e le conclusioni delle conferenze precedenti e ad essa collegati, proponendoli come obiettivi del prossimo secolo. Tuttavia, i temi più dibattuti, come quello della riduzione del debito estero, dell’accesso ai mercati, della definizione di un sistema di tassazione delle transazioni finanziarie o del rapporto tra investimenti diretti esteri (IDE) e processi di sviluppo, sono tuttavia rimasti fuori dall’agenda politica o sono stati risolti con timidi compromessi. E la situazione – all’indomani della devastante crisi economico-finanziaria che ha investito il globo nel 2009 – non sembra essere mutata.
Anche i recenti rapporti dell’UNDP (United Nations Development Programme) su “Lo sviluppo umano” hanno evidenziato come, nonostante il consenso sui principi collegialmente espressi ed approvati nelle occasioni internazionali, importanti differenze continuano ad esistere nelle strategie di intervento allo sviluppo. L’UNDP, da parte sua, ha posto alla base del Patto di Sviluppo del Millennio la condivisione delle responsabilità e delle tendenze della globalizzazione e dello sviluppo tra i paesi ricchi ed i paesi poveri, così come tra agenzie internazionali, governi locali, società civile ed attori economici.