Un’analisi di scala globale, a ormai nove mesi dall’inizio della vicenda epidemica, potrebbe essere utile per capire l’efficacia delle misure contenitive che sono state prese dal nostro paese e da altri. In particolare, nel dibattito pubblico italiano e non solo, in pochi sembrano porsi una domanda di base, che pure dovrebbe emergere naturalmente dall’analisi di ciò che è avvenuto nel resto del mondo: quanto ha pagato la linea dura attuata dal governo italiano in risposta alla minaccia del Coronavirus? Tali misure sono valse ad avere risultati convincenti, da febbraio ad oggi, in termini di mortalità?
Proviamo a tracciare di seguito un sommario profilo di alcuni paesi che hanno adottato una linea diversa dal nostro, mostrando la curva dei morti e il posizionamento nella classifica mondiale dei morti per milione di abitanti, sulla base delle politiche adottate, basando tale analisi sulla comparazione tra paesi che hanno applicato il lockdown e quelli che hanno garantito le libertà essenziali di movimento, di lavoro e di studio in presenza.
È interessante notare come l’Italia sia il quarto paese peggiore al mondo, dopo Belgio, Perù e Spagna per numero di morti sul milione di abitanti (985), nonostante abbia adottato politiche per tentare di contenere contagi e morti tra le più restrittive al mondo, con una chiusura scolastica tra le più lunghe, con limitazioni mai conosciute prima in termini di libertà personali e con ripercussioni straordinarie dal punto di vista economico, sociale, formativo e psicologico.

L’Argentina ha invece avuto un lockdown di oltre 220 giorni (sebbene con sporadiche interruzioni) e, nonostante la prolungata chiusura – la più lunga al mondo – risulta ad oggi 8° nella classifica dei peggiori paesi per conteggio dei morti (873 su 1 milione), con una curva dei casi giornalieri che ha seguito un andamento crescente fino alla seconda metà di ottobre, senza l’interruzione tra la prima e la seconda ondata che si è verificata in molti altri casi.

La Svizzera, che ha adottato misure contenitive molto soft (bar e ristoranti chiusi, solo dal 29 ottobre, dalle 23, discoteche chiuse e didattica a distanza per le università), senza mai aver imposto un lockdown generalizzato e lasciando ai cantoni libera scelta se imporre azioni più stringenti, ha registrato una curva meno intensa e numeri inferiori rispetto al nostro e a molti altri paesi. È, nella classifica mondiale, venticinquesimo con 616 morti sul milione di abitanti.

La Svezia, caso tra i più dibattuti in questi mesi, non ha mai chiuso i propri cittadini in casa, non ha mai imposto l’obbligo di mascherine e ha fornito solo poche raccomandazioni, di assoluto buon senso, per lo più per la popolazione anziana, ed è 22° nella classifica mondiale, con 698 morti sul milione di abitanti. I casi rispetto allo stesso numero sono comunque inferiori rispetto all’Italia (27.500 contro 28.600, rispettivamente 26° contro il 40° posto dell’Italia). La strategia è stata quella del tentare di arrivare all’immunità di gregge prima degli altri, senza sacrificare la normale attività lavorativa, economica e sociale. E a poco valgono le tesi di chi sostiene che la Svezia abbia meno abitanti (tali classifiche sono sul rapporto al milione di abitanti) o una densità abitativa inferiore (Stoccolma ha 5 129,47 ab./km², il doppio di Napoli, più del doppio di Milano, sei volte quella di Roma – caso comunque particolare, avendo un territorio comunale molto esteso –, una volta e mezzo quella di Palermo).

In Olanda si è garantita la scuola in presenza, non vi è mai stato un vero lockdown, nessuna imposizione di mascherine se non nei luoghi chiusi (e solo di recente, dal 14 ottobre), si è raccomanda la distanza interpersonale di 1,5 metri come misura generale e soltanto dalla stessa metà di ottobre sono stati chiusi bar e ristoranti, che verosimilmente verranno riaperti a gennaio. I bambini sotto ai 12 non devono portare mascherine e nel resto delle scuole è solo raccomandata la distanza tra gli studenti. Non si fanno tamponi di massa e non vengono fatti ai bambini, ma solo nei casi di adulti con evidenza sintomatica. Con 565 morti sul milioni di abitanti, il paese è 30° (registrando oltretutto un numero di casi sul milione un poco superiore all’Italia).

La Norvegia ha adottato simili misure, molto soft e per nulla invasive delle libertà individuali, con l’obbligo di mascherine solo nei trasporti pubblici, nei luoghi chiusi aperti al pubblico dove non sia possibile mantenere la distanza (e a partire da fine ottobre), con le chiusure dei bar solo dalle 22 (sempre da fine ottobre) con risultati straordinari, arrivad 107° con 65 morti sul milione di abitanti.

Il Giappone non ha mai fatto un lockdown e anche lì le misure sono state minimali, e di raccomandazioni generali, soprattutto per gli anziani, ai quali è stato suggerito di non frequentare luoghi affollati se non per necessità. L’invito – solo nella forma di un invito, mai obbligo – per il resto della popolazione è stato di evitare in linea di massima l’eccessiva frequentazione di bar, ristoranti e karaoke. Sono stati comunque forniti forti incentivi al turismo interno, mentre per il resto è stato solo suggerito di evitare movimenti non essenziali nel fine settimana. Al netto di eventuali questioni genetiche o di immunità precedentemente raggiunte, il Giappone è 145° con soli 18 morti sul milione di abitanti, tenendo conto che l’età media è di poco superiore a quella italiana e la densità abitativa su scala nazionale è largamente superiore alla nostra (340/km2 vs. 206 km2).

La Corea del Sud ha seguito un approccio simile, con un sistema intenso di tracciamento iniziale, risultando 156° al mondo, con 11 morti sul milione di abitanti. Taiwan, altro esempio straordinario che fa da contraltare a quello cinese, avendo mantenuto intatte le libertà individuali e avendo adottato un ottimo approccio di tracciamento e isolamento dei casi nella prima fase, è stato in pratica il più virtuoso al mondo, risultando 190° (con 0,3 morti sul milione di abitanti).


L’analisi di chiusure e aperture nel resto del mondo dovrebbe far riflettere più approfonditamente sulla reale utilità dei lockdown, al netto di altri fattori qui non considerati (differente conteggio morti Covid, sistemi sanitari e disponibilità di terapie intensive, genetici, culturali etc.), sugli effetti nefasti che esso ha avuto in termini economici, psicologici e di libertà individuali e sulla loro efficacia per la riduzione dei morti e dei contagi, senza considerare oltretutto quanto gli aspetti psicologici, di motivazione personale e di mancanza di attività motoria possano aver inciso negativamente sul primo strumento per la lotta al Covid, rappresentato dal sistema immunitario. A nove mesi di distanza dalle prime misure di reclusione e con la continuazione delle restrizioni senza alcuna certezza sulla data in cui torneremo alla normalità pre-Covid, tali questioni rimangono urgenti e necessarie (e sarebbe utile che anche il sistema mediatico se le ponesse in maniera più costante).
Alessandro Ricci,
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata – Geopolitica.info