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TematicheCina e Indo-PacificoI limiti e gli ostacoli dell'ascesa globale cinese

I limiti e gli ostacoli dell’ascesa globale cinese

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Le crisi economiche e politiche su scala globale legate all’esplosione della pandemia hanno sollevato molte questioni sulla capacità di leadership degli Stati Uniti d’America in un momento di profonda incertezza nel sistema internazionale. Tutto ciò non ha fatto che alimentare il già noto dibattito sul declino dell’egemonia statunitense che vede alcuni osservatori convinti della contemporanea ed inevitabile ascesa cinese. Cambiamenti di questo genere rimangono difficili da confermare prendendo in considerazione solo una breve finestra temporale, soprattutto quando lo stato revisionista in questione rimane ancora molto distante dalla nazione egemone secondo molti indicatori della potenza.

L’egemone spicca nel sistema internazionale per la stabilità interna, la capacità di stabilire coalizioni, la potenzialità militare di portata globale, quindi incentrata sul potere marittimo e navale, la forza economica e la localizzazione geografica. Anche il soft power, inteso come capacità di sedurre plasmando le preferenze altrui, gioca un ruolo fondamentale per le strategie delle grandi potenze. La Belt and Road Initiative (BRI) è il tentativo lanciato nel 2013 da Xi Jinping di espandere la propria influenza a livello internazionale e quindi avrebbe importanti ricadute nella seconda dimensione citata del potere. Il progetto è sicuramente ambizioso e consiste nella costruzione di imponenti infrastrutture in paesi utili a Pechino per estendere i propri commerci sino ad arrivare in Africa, Europa e nel resto dell’Asia. Gli investimenti della Cina in tal senso sono notevoli, ma molti governi che stanno ricevendo i finanziamenti da Pechino stanno cominciando a denunciare gli eccessivi costi, la corruzione e gli elevati tassi di interesse. Tuttavia, è innegabile che grazie alla BRI l’attrattiva cinese e l’influenza commerciale di Pechino siano aumentate, e molti analisti vedono nel progetto il primo mattone posto per costruire la sfida agli Stati Uniti. L’espansionismo oltre il continente asiatico è anche dimostrato dall’istituzione della prima base militare fuori dai confini cinesi, a Gibuti. Da queste prime considerazioni notiamo che la Cina sta effettivamente espandendo la sua influenza, ma con due notevoli limiti: 1) la BRI è un’arma a doppio taglio sotto il punto di vista del soft power, e alcuni analisti e governi stanno cominciando a intravederla non più come una opportunità, bensì come una trappola del debito, 2) la prima base militare di Gibuti palesa l’impossibilità di definire la Cina potenza in grado di sfidare gli Stati Uniti perché le sue capacità di intervento su scala globale sono ancora ridotte e non possono contare su una rete di basi militari numerose quanto quelle statunitensi (che si stima si aggirino sulle 800 unità).

Comunque, Il vero punto di forza cinese è l’economia. Jacques nel 2009 in “When China Rules the World” affermava che la Cina grazie alla futura supremazia economica sarebbe diventata l’attore chiave del XXI secolo. Anche Goldman Sachs prevedeva il sorpasso dell’economia cinese su quella statunitense entro il 2027, a dimostrazione di quanto ormai nel dibattito politico la Cina pare possa insidiare l’egemonia americana grazie alle sue risorse economiche. Se la principale fonte di sfida cinese è l’economia, bisogna comunque rimarcarne alcune fragilità. La Cina secondo le stime dell’FMI nel 2019 ha registrato un PIL pari a circa 15,5 miliardi di dollari, avvicinandosi agli Stati Uniti che comunque rimangono tuttora distanti con circa 21,4 miliardi. Più che alla quantità servirebbe dare uno sguardo alla qualità dell’economia cinese. Innanzitutto, è doveroso ricordare che la crescita annuale in questi ultimi anni ha subito una frenata importante, anche se il tasso di crescita è rimasto sul 6%. Ciò che preoccupa non è la normalizzazione della crescita, ma questo rallentamento messo in relazione alla crescita del debito totale cinese. In secondo luogo, infatti, è opportuno sottolineare come il debito totale cinese (delle famiglie, del governo e dei settori finanziari e non) stia crescendo in modo preoccupante. Secondo una stima dell’Institute of International Finance il debito totale della Cina ha raggiunto il 317% del PIL nel 2020. In terzo luogo, è necessario anche rilevare come il debito cinese sia opaco e poco chiaro da analizzare. Molti debiti dei governi locali sono occultati, e l’eventualità che questi ultimi diventino insolventi è un rischio da non sottovalutare per Pechino. Infine, è utile precisare che per non frenare la crescita economica la Cina ha da sempre puntato forte sugli investimenti di imponenti infrastrutture con due conseguenti rischi: 1) la possibilità di investire su infrastrutture che nel lungo periodo potrebbero non avere i ritorni economici attesi, in quanto le allocazioni delle risorse vengono decise a livello governativo senza alcun ruolo chiave lasciato al mercato, e 2) legarsi al rischio finanziario dei paesi che aderiscono ai progetti delle infrastrutture previste dal BRI. Se infatti questi ultimi dovessero rivelarsi insolventi o instabili politicamente e necessitassero di ristrutturare il debito contratto con la Cina, il problema ricadrebbe in modo rischioso su Pechino. Quanto detto deve far riflettere alla luce della forte politica economica espansiva che rischia di creare bolle finanziarie pericolose e infrastrutture poco utilizzate come dimostrano alcune città-fantasma già esistenti oggi.

Sottolineati i rischi economici, comunque, è bene ricordare il limite principale posto alle aspirazioni del governo cinese: la sua collocazione geografica. La Cina ha una collocazione maggiormente continentale e come se non bastasse i vicini del gigante asiatico non sono così accondiscendenti nei confronti di Pechino. Da una parte abbiamo Giappone, Corea del Sud e Filippine che sono alleati fondamentali degli Stati Uniti, dall’altra ci sono paesi come Vietnam e soprattutto India con cui la Cina ha molte dispute territoriali ancora aperte, come dimostrano gli eventi degli ultimi giorni.

In conclusione, possiamo affermare che la Cina sia diventata un attore di primaria importanza del sistema internazionale, ma che comunque sia ancora presto per definirla sfidante dell’egemonia statunitense. La scarsa presenza militare nel mondo e la collocazione geografica non permettono alla Cina una libertà di azione simile a quella degli Stati Uniti. In termini economici la Cina rimane la grande sfidante degli Stati Uniti, ma le scommesse da vincere sulla stabilità finanziaria sono molte e difficili da valutare come variabile di lungo periodo. Grandi sforzi si stanno compiendo in direzione del rafforzamento del soft power e la BRI ne è l’emblema. Con la BRI la Cina sta cercando di sfruttare il momento di erosione di legittimità dell’egemonia statunitense per proporre il suo modello di sviluppo nel mondo, ma correndo in questa direzione si espone a rischi economici e di immagine, come quello di essere accusati di portare avanti pratiche neocolonialiste. Se c’è un campo nel quale gli Stati Uniti devono sentirsi minacciati è proprio quello del soft power. Il dibattito sul rapporto con gli alleati e sulle istituzioni multilaterali rimarranno di primaria importanza per la politica estera statunitense, e il rafforzamento delle alleanze asiatiche per contenere le provocazioni cinesi e limitare l’espansione regionale di Pechino potrebbe essere il tema cruciale della politica estera statunitense nel lungo periodo.

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