Il presente articolo è stato pubblicato nell’ambito dell’approfondimento “Ambizioni e vincoli dell’autonomia strategica europea. Aspetti politici, operativi e industriali“, qui consultabile, del Centro Studi Geopolitica.info sviluppato per l’Osservatorio Politica Internazionale del Parlamento Italiano.
Introduzione. L’autonomia strategica europea nella crisi dell’ordine internazionale
“Autonomia strategica” è, già nella denominazione, una espressione problematica. Perché qualunque pretesa di “autonomia” trova il proprio limite in un contesto, quello del sistema politico internazionale, riconosciuto di per sé in grado di dettare “condizioni di costrizione” agli attori. E perché, a questi vincoli generali o (in termini teoricamente più appropriati) “strutturali”, si aggiungono quelli che discendono dalla volontà e dalle scelte degli attori più forti (quali sono, quanto meno, gli Stati Uniti).
Da qui, allora, il nostro punto di partenza. Dietro la continuità nel tempo del richiamo a qualche forma di “autonomia strategica” dell’Unione Europea, è chiaro che il problema si pone oggi molto diversamente da come si sarebbe posto ancora fino a dieci o addirittura cinque anni fa. Perché sono drammaticamente cambiati, nel frattempo, sia il contesto internazionale nel suo complesso, sia il ruolo e, ancora di più, le aspettative sul ruolo degli Stati Uniti, sia il posto dell’Europa e della stessa Unione Europea.
Almeno cinque mutamenti (reali o potenziali) influiscono direttamente sulle prospettive dell’autonomia strategica europea: il declino dell’ordine internazionale liberale e, al suo vertice, della disponibilità egemonica degli Stati Uniti; la tendenza (almeno in parte conseguente) alla regionalizzazione delle dinamiche di sicurezza; il prevedibile sviluppo di competizioni politiche e, nella peggiore delle ipotesi, militari all’interno delle singole aree regionali (quale è già stata la guerra in Ucraina); il probabile (e, comunque, atteso) spostamento del baricentro politico, economico e strategico del sistema internazionale verso l’Indo-pacifico e, in particolare, la competizione tra Stati Uniti e Cina; l’impatto ancora da definire di questa competizione sulle dinamiche e gli allineamenti di tutte le altre regioni.
Il ruolo degli Stati Uniti
Paradossalmente, la variabile decisiva per lo sviluppo di un’autonomia strategica non sta dentro ma fuori dell’Europa, nella disponibilità degli Stati Uniti a continuare a procurare il grosso della sicurezza europea, sia in forma unilaterale sia, più credibilmente, in forma multilaterale, nel contesto dell’Alleanza atlantica e della NATO. È sempre stato questo, non a caso, il limite invalicabile a qualunque forma di autonomia. Gli Stati Uniti non si sono mai opposti alla maturazione di una politica estera e di difesa comune europea, anzi hanno sempre insistito perché gli Europei facessero e spendessero di più per la propria difesa; ma a condizione, appunto, che tutto ciò servisse a rafforzare solo il “pilastro europeo” della NATO e non a promuovere qualche inaccettabile decoupling tra sicurezza europea e sicurezza atlantica. Reciprocamente, le spinte verso l’autonomia strategica si sono regolarmente rafforzate ogniqualvolta l’impegno americano e la tenuta stessa della NATO sono apparse in discussione, come è avvenuto anche recentemente per bocca del presidente francese Macron, all’epoca – solo quattro anni fa – in cui quest’ultimo poteva denunciare la NATO come un’organizzazione “in stato di morte cerebrale”.
A che punto siamo, allora, in questa continua interazione tra identità atlantica e autonomia europea? Rispetto a quattro fa, cioè prima del passaggio dall’amministrazione Trump all’amministrazione Biden e, ancora di più, rispetto a due anni fa, alla vigilia dello scoppio della guerra in Ucraina, il pendolo sembrerebbe essersi nuovamente spostato. Perché allo spettro dell’America First è subentrata la promessa dell’America is Back Again; perché questo presunto (e comunque celebratissimo) “ritorno” si è già sostanziato nel rilancio di vecchie alleanze (come la NATO in Europa) e nel varo di nuove (come il Quad nell’Indopacifico); perché, anche di fronte all’aggressione russa dell’Ucraina, gli Stati Uniti hanno confermato di voler restare al centro dell’architettura della sicurezza europea; infine, e non casualmente, perché questa rinnovata centralità si è espressa in un ulteriore allargamento della NATO, cioè in un’ulteriore sovrapposizione della soluzione atlantica alla soluzione europea.
Ma tutto ciò non deve condurre a conclusioni affrettate (e politicamente spericolate). Intanto, neppure la guerra in Ucraina basterà a modificare il corso della politica estera americana degli ultimi quindici anni: una politica estera improntata all’obiettivo di riportare in equilibrio impegni e risorse, sforzandosi di aumentare le seconde e, nel frattempo, affrettandosi a diminuire i primi; orientata, coerentemente, a concentrare il grosso dei propri investimenti politici, economici e militari nella regione considerata più importante, quella indopacifica; e destinata a ridimensionare nella stessa misura la propria esposizione nelle altre regioni, Europa compresa. Come se non bastasse, il corso (prudentemente) egemonico e multilaterale dell’attuale amministrazione Biden resta reversibile e, comunque, vulnerabile, vuoi all’eventualità di una nuova crisi dell’economia americana, vuoi all’ulteriore approfondimento delle fratture interne di carattere sociale e identitario, vuoi, più nell’immediato (ma in ovvio rapporto con i fattori precedenti), ai risultati delle prossime elezioni presidenziali.
Eccoci allora al punto. Dietro la retorica dell’“autonomia strategica” dell’Unione Europea si nascondono, in realtà, diverse possibili soluzioni e, soprattutto, diverse possibili forme di “divisione del lavoro” tra Europa, NATO e Stati Uniti. Mettendo da parte quella più estrema, ma anche più irrealistica, di una vera e propria sostituzione della soluzione europea a quella atlantica, è facile aspettarsi che gli Stati Uniti dovranno farsi quasi interamente carico della sicurezza dell’Indopacifico e, nella stessa misura, agli Europei toccherà aumentare i propri impegni in Europa e nel Mediterraneo allargato. Ma questo non fa che spostare il problema: quale rapporto correrà, in questa eventualità, tra le strategie europee e quelle americane nei rispettivi teatri strategici? Le iniziative europee saranno soltanto un capitolo (geopoliticamente e ideologicamente subordinato) della strategia globale degli Stati Uniti? Oppure risponderanno a qualche forma di “autonomia strategica” in senso proprio? E, in questo caso: fino che punto potranno farlo, senza pregiudicare la tenuta dei rapporti transatlantici?
I problemi interni all’Europa
Ma esiste un problema persino più ingombrante, oltre che storicamente ripetitivo. Contrariamente a ciò che sembrano pensare molti osservatori, non è affatto detto che un disimpegno anche parziale degli Stati Uniti abbia l’effetto di aumentare la coesione tra gli Europei convincendoli, quindi, a cooperare più a fondo tra loro. Può essere vero e, in passato, è sempre stato vero proprio il contrario. Ogniqualvolta gli Stati Uniti hanno dato l’impressione di fare un passo indietro – come avvenne allo scoppio della guerra jugoslava, trent’anni fa – i paesi europei non si sono uniti, ma si sono divisi. E lo hanno fatto per un insieme di problemi che, nel frattempo, non si sono affatto risolti, anzi si sono persino aggravati.
Il primo e macroscopico problema è di natura specificamente strategica. Dietro tutte le retoriche sulla identità comune dell’Unione e sulla cosiddetta cittadinanza europea, è evidente che i singoli Stati europei e le rispettive opinioni pubbliche non condividono le stesse preoccupazioni e non individuano, quindi, gli stessi interessi. Non per qualche divergenza politica o filosofica, ma sotto il peso puro e semplice della storia e della geografia. Così, non c’è niente di strano se i paesi dell’Europa centro-orientale e baltica siano più interessati e sensibili a ciò che avviene alle proprie frontiere orientali che a quelle dell’Europa meridionale. Così come non c’è niente di strano se i paesi dell’Europa meridionale siano più interessati e sensibili a ciò che avviene nel Mediterraneo che alle frontiere orientali dell’Europa. Senonché questo comporta che qualunque ipotetica “autonomia strategica” dell’Unione Europea sia destinata a risultare in realtà uno scambio tra preoccupazioni e sensibilità diverse. E a portare con sé, quindi, il veleno che è contenuto in qualunque scambio: il sospetto di dare di più di quello che si riceve.
A questo si somma un secondo problema che, dal terreno economico, investe inevitabilmente anche quello politico. Il prevedibile aumento degli impegni che è connaturato alla maturazione di qualunque forma di “autonomia strategica” non potrà che avvenire in un contesto nel quale è altrettanto prevedibile che diminuiscano le risorse disponibili, a maggior ragione nell’eventualità di una lunga fase di rallentamento economico o addirittura di recessione. Per i singoli Paesi europei e per l’Unione nel suo complesso, ciò solleverà il consueto dilemma tra Welfare e Warfare, o tra burro e cannoni. E lo farà, per di più, in una condizione di crescente fragilità politica, sociale e istituzionale, della quale la proliferazione dei cosiddetti “populismi” costituisce solo la manifestazione più superficiale.
Il terzo problema riguarda, invece, gli equilibri interni all’Unione e, con essi, la possibilità di selezionare una leadership o (come si è sempre detto di Francia e Germania) un “motore” dell’integrazione e, in prospettiva, dell’autonomia strategica. Anche sotto profilo, la situazione attuale appare problematica. Perché i paesi tradizionalmente cardine dell’integrazione – Francia, Germania e, in una certa misura, la stessa Italia – sono per ragioni diverse in grave crisi al proprio interno. Perché, non sorprendentemente, anche i loro rapporti reciproci risentono di queste difficoltà. Perché, nel frattempo, è uscito dall’Unione l’altro Paese destinato a fare da perno di qualunque politica estera e di sicurezza comune, il Regno Unito. Come se non bastasse, perché la guerra in Ucraina ha già avuto l’effetto di spostare clamorosamente gli equilibri all’interno dell’Unione Europea, ridimensionando in modo drastico il potere e il prestigio del paese tradizionalmente considerato il centro e il motore del progetto europeo, la Germania, e avvantaggiando al suo posto i paesi ai margini orientali e centro-orientali dell’Unione, Polonia in testa.
Rimane, sullo sfondo, un problema più radicale di cultura politica. Una autentica “autonomia strategica” richiederebbe, come minimo, che l’Europa avesse una propria e riconoscibile cultura strategica, cioè almeno un’idea di quali obiettivi realistici darsi non oggi ma nei prossimi decenni, quale raggio d’azione credibile dettare alla propria politica estera, quali partner accettare e a quali condizioni, quale combinazione definire tra forza e diplomazia e soprattutto – perché di questo si tratta quando si parla di politica internazionale – quale rapporto istituire tra pace e guerra. Senonché, su questo così come su molto altro, l’Europa fatica a trovare una posizione comune, col risultato di essere costretta a una politica estera reattiva, se non ad accodarsi alla politica estera di qualcun altro.
Conclusione. Ripensare i rapporti tra Europa e Mondo
Ma alla radice di questa incapacità sta uno spaesamento che, per una volta, merita di essere definito “epocale”. Sebbene non ami ricordarlo e, anzi, faccia di tutto per dimenticarlo, l’Europa attuale si trova al momento della “resa dei conti” della vicenda più importante dell’ultimo secolo dal punto di vista della storia delle relazioni internazionali: la propria detronizzazione da centro del mondo. Se infatti, dopo avere perso il ruolo di centro di irradiazione mondiale di istituzioni, linguaggi e conflitti, fino al 1990 l’Europa era rimasta almeno la posta in gioco più importante della competizione tra Stati Uniti e Unione sovietica, con la fine di questa competizione anche questo residuo di centralità è venuto meno. Per la prima volta nella storia l’Europa è una regione qualsiasi di un sistema internazionale globale. Anzi, tutto lascia pensare che, in questo sistema internazionale emergente saranno altre le regioni a rivelarsi più dinamiche, mentre l’Europa faticherà a invertire la tendenza al declino che neppure il processo di integrazione è riuscito ad arrestare.
Ecco allora dove sta il nodo più profondo (e non casualmente rimosso) di qualunque ipotesi di autonomia strategica. Per potere operare questo passaggio, l’Europa dovrebbe essere in grado (e avere il coraggio intellettuale e politico) di ripensare alla radice il proprio posto nel mondo: dovrebbe maturare, parafrasando lo slogan di De Gaulle all’indomani del declassamento della Francia dal rango di grande potenza, una “certa idea” di sé, diversa da quella dell’epoca nella quale poteva ancora permettersi di dettare i propri “standard di civiltà” agli altri. Ma le attuali élite politiche e intellettuali, così come le rispettive opinioni pubbliche, non sembrano ancora attrezzate politicamente e culturalmente per questa sfida, al punto di continuare a celebrarsi come modello o “grande potenza civile” del sistema internazionale, in una condizione nella quale questa pretesa di centralità rischia di trasformarsi in un anacronismo politicamente e diplomaticamente auto-distruttivo.
Punti essenziali
- Anche nell’eventualità (al momento problematica) di un rafforzamento della capacità di iniziativa dell’Unione, le iniziative europee saranno soltanto un capitolo (geopoliticamente e ideologicamente subordinato) della strategia globale degli Stati Uniti?
- Alternativamente, le iniziative europee potranno rispondere a qualche forma di “autonomia strategica” in senso proprio? E, in questo caso: fino che punto potranno farlo, senza pregiudicare la tenuta dei rapporti transatlantici?
- Per potere recitare un ruolo più credibile nel contesto internazionale, l’Europa dovrebbe essere in grado (e avere il coraggio intellettuale e politico) di ripensare alla radice il proprio posto nel mondo: dovrebbe maturare, parafrasando lo slogan di De Gaulle all’indomani del declassamento della Francia dal rango di grande potenza, una “certa idea” di sé, diversa da quella dell’epoca nella quale poteva ancora permettersi di dettare i propri “standard di civiltà” agli altri.