Dopo anni di dibattiti e trattative, l’Unione Europea ha deciso: l’Hezbollah libanese, il Partito di Dio, è un gruppo terrorista. Più correttamente, tale è considerabile solo la sua ala militare, secondo l’accordo sottoscritto dai Ministri degli esteri dei 28 Paesi membri, e non la sua propaggine politica. Dove si situi la lasca linea di faglia tra le due anime del movimento, non è dato sapere.
Nonostante la fumosità dei suoi contenuti, l’accordo segnala un marcato cambio di rotta nella politica estera europea, con il prevalere della posizione britannica ed olandese, per anni osteggiata da altri Paesi membri. Certo, la versione finale dell’accordo raggiunto tra i titolari dei dicasteri degli Esteri rappresenta un compromesso che lascia le mani slegate a quanti intendono proseguire il dialogo con Hezbollah, attore determinante della politica libanese e dell’intero scacchiere vicinorientale: “i contatti politici e le azioni di sostegno economico proseguiranno con tutti gli attori del Libano, incluso Hezbollah”, ha infatti chiosato l’italiana Emma Bonino.
A far da sfondo al cambio di paradigma, l’attentato dell’estate 2012 a Burgos, Bulgaria, ai danni di un gruppo di turisti israeliani. Cinque cittadini di Tel Aviv e il loro autista locale persero la vita nell’esplosione. Secondo le indagini ufficiali della magistratura locale, suffragate dalle evidenze raccolte dai servizi di intelligence di vari Stati, sarebbe stata l’ala militare del Partito di Dio a ordine l’attacco. Un attacco sferrato nel cuore del Vecchio Continente: troppo, anche per i più “buonisti” tra i governi europei.
I risultati delle indagini sono giunti in un momento concitato per il Libano e per Hezbollah. Il perdurare della crisi siriana ha spinto la leadership del movimento a fornire un sostegno pratico, di natura militare, all’alleato di Damasco, proprio nella fase in cui i ribelli sembravano più forti. Non è chiaro se l’intervento dei militanti sciiti sia stato l’elemento determinante oppure, più plausibilmente, una concausa del rinnovato vigore del fronte governativo. La coincidenza temporale non lascia, però, spazio ad interpretazioni: l’ausilio arrivato da oltre confine ha inciso, eccome, sulle sorti del conflitto.
Hezbollah, schierandosi in modo tanto plateale, rischia di aver arrecato un grave vulnus alla sua immagine internazionale: da un lato, presso le opinioni pubbliche arabe, da sempre sue sostenitrici in nome della lotta contro il comune nemico israeliano; dall’altro, in Europa, dove il Presidente Assad è ormai considerato dai più come un dittatore sanguinario. A prescindere dalla fondatezza o meno delle accuse mosse all’autocrate alawita, ciò che rileva è l’interpretazione pubblica che il mondo arabo e l’Europa (con pochi distinguo) hanno fornito del pantano siriano. I buoni (e sunniti) da una parte, un leader spietato (e sciita) dall’altra. Alla luce di questa distinzione, netta e tranciante nel suo manicheismo, Hezbollah rischia di essersi alienato quel vasto bacino di consensi di cui ha sempre goduto nel mondo arabo-islamico, malgrado la sua connotazione fortemente confessionale.
Soprattutto dopo la guerra dell’estate 2006, il movimento, pur sconfitto, è stato issato a vessillo di un rilancio della lotta contro il nemico invasore, diventando il simbolo di un irredentismo arabo mai davvero sopito. Ora, a causa della postura assunta nel conflitto siriano e del ruolo attivo giocato sul campo di battaglia, Hezbollah potrebbe aver gettato alle ortiche l’aurea di simpatia che lo circondava. E’ stata, probabilmente, proprio la consapevolezza di questo pericoloso contraccolpo ad aver spinto la leadership del Partito a non esporsi durante le concitate fasi seguite alla minaccia americana di un intervento in terra siriana. I suoi esponenti, secondo quanto riportato dalla stampa libanese, si sono limitati di ricordare che Hezbollah tiene d’occhio la situazione, senza sbilanciarsi paventando ritorsioni ai danni dei contingenti stranieri presenti nel sud del Paese o di Israele.
L’attuale stallo dell’iniziativa internazionale a guida americana ha riportato in un cono d’ombra le operazioni di Hezbollah in Siria. Ma, come ricordava Foreign Policy nel maggio scorso, la posta in gioco è alta: i salafiti, parte integrante del fronte anti-Assad, non riconoscono il confine che separa il Paese dei Cedri dal suo ingombrante vicino. A loro dire, gli sciiti vanno repressi, di qua e di là dalla linea politica convenzionale che separa i due Stati. Se queste sono le intenzioni del fronte anti-Assad, o di alcune delle sue più agguerrite componenti, Hezbollah non starà certo a guardare.