La guerra in Yemen non è solo una delle tante guerre che si combattono lontano dai riflettori, ma la manifestazione dello scontro tra le due principali potenze regionali per l’egemonia del Medio Oriente che, a sua volta, si interseca con le vicende globali.
L’origine dello Yemen
Lo Yemen ha visto insediamenti umani fin dall’antichità, diventando sede di numerosi regni fin dal IX secolo a.C. ed è stato islamizzato nel VII secolo. Nel 1839, durante il dominio ottomano, gli inglesi conquistarono Aden, ed espansero il proprio controllo sulla regione sud-orientale, stabilendo un protettorato sull’area. Nel 1967 la Gran Bretagna ritirò le proprie truppe dal Sud del paese, dove venne creata la Repubblica dello Yemen meridionale che, nel 1970, divenne Repubblica Democratica Popolare sotto l’influenza dell’Unione Sovietica. Nel 1990 la situazione economica sempre più deteriorata dello Yemen favorì i tentativi di riunificazione tra le due parti del paese, che si concluse con un accordo in base al quale il Sud assorbiva il Nord: nasceva così uno stato unitario con presidente Ali Abdullah Saleh, strettamente legato alla dinastia Saud. La mancanza del controllo della forza e del territorio da parte dello stato si riscontrò fin dal 1994 con i primi scontri con il movimento del sud Al-Hirak e proseguì con sei episodi di ribellione del movimento Houti tra il 2004 e il 2010. Nel 2011 la Primavera Araba aumentò le tensioni nel paese, tanto da costringere il presidente Ali Abdullah Saleh alle dimissioni, fino a trasformarsi in guerra civile nel 2015.
Il conflitto yemenita
La guerra in Yemen, il primo cerchio, nasce quindi come conflitto civile con alla base fattori politici e locali storicamente presenti sul territorio per poi internazionalizzarsi con l’ingresso di forze esterne al Paese guidate da ragioni strategiche, che esulano dalle cause originali della guerra. Gli Houti sono infatti sciiti sostenuti dall’Iran e nel 2015, con un colpo di stato, riuscirono a conquistare la capitale, Sana’a. Un evento inaccettabile per l’Arabia Saudita, che reagì intervenendo con violenti bombardamenti sperando in una rapida ritirata dei ribelli. L’importanza strategica dello Yemen è strettamente legata alla sua posizione geografica, poiché, posto al confine meridionale della penisola arabica, costituisce l’accesso dello Stretto di Bab el-Mandeb, che collega il Mar Rosso con il Golfo di Aden e da cui passano il 5% del petrolio e il 10% del commercio mondiale. Inoltre si trova di fronte a Gibuti, diventato centro degli investimenti strategici cinesi degli ultimi anni. Il conflitto così si internazionalizzò estendendosi al secondo cerchio. L’ingresso saudita nel conflitto, in Yemen coincise con il lancio della “Salman Doctrine”, la strategia interventista saudita in autonomia dagli USA che propone il Principe ereditario come l’uomo forte del momento. La dottrina ridefinisce la politica estera di Ryad, in particolare in Medio Oriente, e si caratterizza per un approccio maggiormente basato sulla forza rispetto all’utilizzo della diplomazia, le negoziazioni riservate e la leva finanziaria, con l’obiettivo di anteporre gli interessi del regno. Contando sull’utilizzo della forza, l’Arabia Saudita avrebbe voluto estendere il proprio controllo sull’area portando lo Yemen sotto il proprio controllo. Il negativo andamento della guerra riscontrato sul campo, plasticamente dimostrato dall’attacco alle installazioni petrolifere saudite del 2019 e del 2022 in territorio saudita, ha fatto tramontare il progetto. A fronte delle difficoltà incontrate da Ryad il conflitto, paradossalmente, invece di esaurirsi è diventato ancora più violento. Dal canto suo l’Iran ha offerto un sostegno limitato ai ribelli, sia per scarsità di risorse sia perché, come ha già dimostrato in altri contesti, preferisce creare proprie zone d’influenza attraverso milizie irregolari ma capaci di sostituirsi allo Stato, evitando così un confronto frontale con l’Arabia Saudita. La guerra in Yemen, con il contrapposto sostegno di Iran e Arabia Saudita alle fazioni in conflitto, si inquadra nel più ampio contesto dell’assetto di potere regionale. I due paesi hanno fornito vari gradi di sostegno alle parti opposte in molti conflitti, oltre allo Yemen, tra cui la guerra civile in Siria, il conflitto in Libano, le controversie in Bahrain, Qatar e Iraq. Inoltre si scontrano indirettamente in Nigeria, Pakistan, Afghanistan, parti del Nord dell’Africa orientale, dell’Asia meridionale, dell’Asia centrale, del Sud-est asiatico, dei Balcani e del Caucaso. Nell’ultimo decennio il confronto indiretto tra le due potenze rivali del Golfo, attraverso guerre combattute per procura, ha visto prevalere le fazioni sostenute dall’Iran in vari teatri, tra cui Siria, e Libano. Ancorché logorata dagli insuccessi registrati in Yemen, tuttavia, non è credibile che l’Arabia Saudita si lasci soppiantare dall’Iran nella gerarchia delle potenze regionali senza resistere. Quindi, non solo è improbabile che il conflitto in Yemen possa arrivare ad una conclusione, nonostante le ingenti perdite civili e distruzioni, ma si può anche immaginare che ne scoppino altri.
L’impatto del contesto globale sulla guerra in Yemen
Nel contesto regionale mediorientale giocano un ruolo importante anche le grandi potenze, il terzo cerchio. Come già ricordato, infatti, la Russia ha una presenza nell’area consolidata fin dai tempi dell’Unione Sovietica, così come d’altro canto gli Stati Uniti. Lo Yemen subisce pesantemente anche il riflesso della guerra scatenata in Ucraina dall’invasione russa dell’Ucraina del 24 febbraio 2022. Infatti i Paesi occidentali, e l’Unione Europea in particolare, hanno l’impellente necessità di sostituire nel più breve tempo possibile il gas e il petrolio russi. Ciò impatta sia sull’Arabia Saudita, come esportatore di idrocarburi, quanto sull’Iran come ulteriore fonte potenziale. Se la cooperazione con l’Iran fosse sdoganata, in seguito a un possibile ritorno al JCPOA, Teheran potrebbe tornare ad essere un fornitore primario dell’occidente e in questo scenario potrebbe essere indotta a interrompere le forniture alla Siria. Poiché Damasco ha una forte dipendenza dalle importazioni di petrolio iraniano, gli effetti si ripercuoterebbero fino a Mosca, stretta alleata di Assad. Dal 2015 la guerra ha causato almeno 370.000 morti e ha costretto 16 milioni di persone a vivere in condizioni di estrema povertà, oltre ad aver causato enormi distruzioni alle infrastrutture. È chiaro come, senza un sostegno esterno, a livello locale il conflitto si sarebbe già concluso per la mancanza di capacità da parte dei contendenti di continuarlo. La sua prosecuzione è quindi influenzata dall’intervento saudita e iraniano per affermare la propria influenza sul terreno e la propria egemonia regionale o, per altro verso, per bilanciare sul terreno l’avversario. Su tutto questo si inseriscono altri eventi geopolitici che possono costituire un fattore di cambiamento rilevante, in particolare la guerra in Ucraina, posto che lo Yemen è tra i paesi che subisce maggiormente e in modo diretto gli effetti negativi della mancanza di esportazioni di grano dovute alla guerra nel Donbass. Inoltre, come per altri paesi a basso reddito, troverà sempre maggiori difficoltà a reperire nuovi finanziamenti, che saranno comunque a costi crescenti, e aiuti internazionali, posto che i paesi donatori sono impegnati nel finanziamento della guerra.