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Gli scenari della guerra: le difficoltà di Putin e la controffensiva di Zelensky

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L’annunciata controffensiva di Kyiv pone interrogativi sulla sua efficacia e sulle possibili reazioni della Russia, ma la “nebbia della guerra” di Clausewitz non consente previsioni. Una analisi credibile non può che guardare con maggiore approssimazione al presente, individuando alcuni trend. Il tono dimesso delle cerimonie del 9  maggio ha evidenziato un momento di difficoltà di Putin, il cui consenso sembra vacillare anche nella c.d. verticale del potere. Di contro, Zelensky ha ben chiaro in quale direzione muoversi: verso l’Europa, che sta accelerando il processo di adesione dell’Ucraina. Spetta alla restante comunità internazionale fare ancora la sua parte per «una pace giusta»,  specie a quel Sud del mondo che esita a condannare senza  ambiguità una «guerra di aggressione», la più grave delle violazioni del diritto internazionale. 

I limiti delle previsioni strategiche

Di fronte agli scenari della guerra in Ucraina è più che giustificato un approccio volto a tratteggiare le previsioni strategiche sui possibili sviluppi. Ciò vale specie in questo momento in cui si prospetta l’annunciata controffensiva di Kyiv, e ci si interroga sulla sua possibile efficacia e sulle reazioni che potrebbero essere messe in campo dalla Russia. Tuttavia ogni analisi di questo tipo, se vuole essere seria e credibile, se può certamente pronunciarsi sugli auspici, anche di una exit strategy, non può esprimersi in termini di esiti definitivi, come insegna peraltro la tesi sulla “nebbia della guerra” di Clausewitz. Anche Carlo Jean nel suo efficace studio su Guerra, Strategia e Sicurezza ha rimarcato che l’evoluzione di un conflitto non è mai perfettamente prevedile, per l’estrema variabilità di output e input cui la complessità del paradigma “guerra” è sottoposta.

Una prospettiva di analisi dunque non può che soffermarsi nel guardare con maggiore approssimazione al presente, individuando quei trend che possono essere comunque significativi per cogliere uno scenario il più possibile realistico dello stato di un conflitto, specie con riferimento allo sfondo del contesto interno e al più generale quadro delle relazioni diplomatiche.

Un problema per Putin: il “fronte interno”

Sotto questi profili, gli analisti hanno sottolineato il tono dimesso delle celebrazioni che il 9 maggio hanno commemorato la Giornata della Vittoria nel 78° Anniversario della “Grande guerra patriottica”. Putin non ha potuto nemmeno schierare i reparti  imponenti delle precedenti parate perché gli ultranazionalisti e lo stato maggiore gli hanno rappresentato che sarebbe stato rischioso sguarnire il fronte.  Il capo della Wagner Prigozhin  ha accusato esplicitamente i vertici militari di aver causato una carneficina di soldati russi e  ha pure lanciato l’ultimo proclama:  «Il Giorno della Vittoria è dei nostri nonni, noi non abbiamo meritato un singolo millimetro di questa vittoria». Pure per l’ultimo attacco di droni sui cieli del Cremlino – peraltro piuttosto controverso sulla effettiva matrice ucraina – la cerimonia è stata ridotta, e si è dovuto rinunciare alla sfilata del Reggimento degli Immortali, posto che le famiglie russe  piangono oggi oltre 200.00 vittime tra soldati rimasti uccisi o feriti nel corso della “operazione militare speciale” intrapresa il 22 febbraio 2022. 

Il quadro dell’isolamento internazionale è poi tratteggiato dall’immagine della tribuna d’onore. In disparte, lontani dalle prime file, si sono trovati personaggi discussi come il Ministro della Difesa Shoigu e il guerrafondaio Vicepresidente del Consiglio di Sicurezza Medvedev. Putin è apparso contornato dal presidente della succube Bielorussia Lukashenko e dai rappresentanti della Comunità degli Stati Indipendenti, ovvero di quello che resta della ex Unione sovietica: gli incerti presidenti delle nazioni caucasiche Kazakistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan e  Armenia,  che però guardano con più attenzione alla Cina, l’altra loro potenza protettrice oggi certamente più affidabile, dove nei giorni successivi si sono recati in visita. 

Non sono certo comparsi i leader di nazioni “amiche” che pure non hanno applicato le sanzioni contro l’aggressione della Russia o si sono astenuti nelle Risoluzioni di condanna delle Nazioni Unite, come appunto Cina, India, Turchia, Sudafrica e Brasile.  Anche il discorso di Putin non ha suscitato entusiasmi, anche perché ora ha parlato esplicitamente di “guerra”, seppure riprendendo il criterio della mistificazione e del  ribaltamento della realtà: la colpa è dell’Occidente che ha  «scatenato una vera guerra contro la nostra Patria», e delle sue «élite globaliste»  che «dividono le società, provocano conflitti sanguinari, seminano russo-fobia e nazionalismi, distruggono i valori tradizionali». 

Per quanto concerne ancora il contesto interno alla Russia, si osserva la stranezza con cui vengono tollerate le intemperanze del capo della Wagner contro i generali dello Stato Maggiore, nonostante qualcuno abbia anche iniziato a prospettare che le critiche contro le modalità della condotta della guerra siano più che implicitamente rivolte contro lo stesso Putin. E questo vale anche per il sentiment espresso – come sarebbe emerso da alcune intercettazioni rese note dai media occidentali – persino da alcuni oligarchi, nei cui confronti non sono stati adottati provvedimenti. È evidente che Putin non ha la forza di adottare iniziative estreme che potrebbero definitivamente compromettere il consenso delle élite che lo contornano. Si ipotizza pure che allo stesso leader potrebbe far comodo lasciare che i dissidi interni e le contestazioni si alimentino per poi tornare ad affermare con più determinazione la propria autorità, anche di fronte alla prospettiva di accettare un negoziato. In ogni caso, il tenore delle cerimonie ha segnato il momento  più basso di credibilità di un autocrate: ha portato un’altra guerra alle soglie dell’Europa e ora si trova nelle evidenti difficoltà di reggere la controffensiva, di fronte alla quale non ha neppure la forza di indire una nuova mobilitazione, perché teme forti opposizioni interne.

Zelensky convince l’Europa

Di contro, il  9 maggio Zelensky ha scelto di celebrare la “Giornata dell’Europa”: ha incontrato di fronte al muro dei caduti di Kyiv la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. La scelta è stata di elevato valore simbolico per ricordare che se l’Ucraina combatte per respingere un’aggressione contraria al diritto internazionale oggi lo fa anche per la libertà degli altri Paesi d’Europa. Ma ha avuto anche un significato concreto per affermare un ulteriore avvicinamento nel processo di adesione all’Unione Europea,  quella condizione tanto attesa dagli ucraini che lo avevano inserita persino nei fondamenti della nuova Costituzione e che se fosse stata già realizzata probabilmente avrebbe salvato l’Ucraina dall’invasione. Von der Leyen nell’abbracciare Zelensky  ha confermato che il sostegno a Kyiv continuerà «per tutto il tempo necessario», e si è congratulata con le riforme apportate dall’Ucraina per aderire ai criteri della Commissione di Venezia che le consentiranno di riconoscersi a pieno titolo come Stato di diritto, e quindi sarà idonea a far parte della grande famiglia europea. 

Zelensky non si è peraltro fermato all’iniziativa del 9 maggio, perché già il 13 successivo  si è recato a Roma per  incontrare il Presidente della Repubblica Mattarella, la premier Meloni e quindi il pontefice Papa Francesco. I resoconti delle agenzie parlano di dichiarazioni nette e senza ambiguità del Presidente Mattarella che si è rivolto a Zelensky rimarcando: «È un onore averla a Roma». E ha aggiunto: «Noi siamo  perfettamente al vostro fianco. Confermo il pieno sostegno dell’Italia sul piano degli aiuti militari, finanziari, umanitari e della ricostruzione». Nessuna incertezza dunque sul fatto che vada ricercata «una pace vera, non una resa», posto che «sono in gioco non solo l’indipendenza e l’integrità territoriale dell’Ucraina, ma anche la libertà dei popoli  e l’ordine internazionale». 

Il presidente ucraino ha poi evidenziato il rapporto di fiducia che gli è stato manifestato in più occasioni dalla presidente del Consiglio Meloni, e anche qui i resoconti hanno documentato un incontro confidenziale e un rapporto di stima, tanto che Zelensky ha parlato con i giornalisti dell’ampia intesa «con Giorgia».  Zelensky ha ringraziato l’Italia «per aver dato rifugio ai nostri cittadini», per il sostegno militare e per le scelte compiute per diventare «più indipendente dalla Russia dal punto di vista energetico».  E ha rimarcato di aver concordato con la presidente Meloni un impegno comune per  coinvolgere le aziende italiane nella ricostruzione dell’Ucraina. Probabilmente il leader ucraino è ben consapevole che questo tasto potrebbe interessare specie quei meandri della compagine governativa legata ai distretti industriali che esportavano in Russia, che ora potrebbero mirare alla  prospettiva di investire in una Ucraina da ricostruire. Ma Zelensky sa bene che anche per altri contesti specie dell’opposizione, come  in verità in altre parti dell’Europa, rimane il rischio che con il tempo il sostegno all’Ucraina possa venire meno.  Anche per questo,  sebbene non abbia voluto parlarne espressamente, Zelensky non ha smentito che Kyiv si sta realmente muovendo per lanciare una controffensiva che gli analisti militari ritengono possa essere decisiva per riconquistare i territori perduti.

Sull’incontro con papa Francesco gli analisti hanno evidenziato una frase che poteva apparire meno diplomatica pronunciata da  Zelensky: «Non servono mediatori, ma un piano di azioni per una pace giusta». Il colloquio con il pontefice certamente avrà avuto un risvolto umanitario data la cifra con cui più volte su questo tema si è speso papa Francesco. Ma è evidente che in questo momento, dopo le vicende dei massacri di civili a Bucha e in tante altre città dell’Ucraina e il dramma delle deportazioni di 20.000 minori che il leader ucraino ha espressamente rimarcato, sullo scenario di eventuali mediazioni per la pace Zelensky ha voluto dare un segnale forte dimostrando di non sentirsi affatto indebolito e di essere pronto alla controffensiva non appena riceverà gli ultimi nuovi armamenti. In altri termini, ancora una volta ha voluto ribadire che non è disposto ad accettare alcuna condizione che in nome della pace si possa rilevare un ulteriore tradimento per l’aspirazione all’integrità territoriale della Nazione e alla identità del suo popolo. 

Il circuito delle visite internazionali di Zelensky è dunque proseguito in Germania, e anche qui l’accoglienza di uno dei principali paesi dell’Europa democratica è stata calorosa. Ad Aquisgrana il premio Carlo Magno intitolato al primo fautore dell’ Europa unita è stato assegnato a Zelensky e al popolo ucraino, e il cancelliere Scholz ha ricordato che «l’Ucraina ha fatto la sua scelta: l’Europa». Il presidente ucraino ha quindi ringraziato per gli ultimi aiuti militari annunciati per 2,7 miliardi di euro: «Ringrazio la Germania per il più grande pacchetto di aiuti militari dall’inizio dell’invasione russa. La Germania è un alleato affidabile. Insieme stiamo avvicinando la pace». Sulla stessa scia sono  proseguiti gli incontri a Parigi e Londra, e probabilmente proseguiranno nel tempo anche in altre capitali dell’Europa. 

Conclusioni: scenari di speranza per l’Ucraina

A distanza di un anno e mezzo dalla vile aggressione russa, uno Zelensky certamente provato dalla guerra non ha tradito la statura morale del ruolo che aveva evidenziato in maniera netta già all’esordio del conflitto. Con una brigata aerotrasportata russa alle porte di Kyiv, gli sarebbe stato più comodo un esilio dorato protetto dagli Stati Uniti lasciando combattere il popolo. Ma alla insistenza degli americani pronti a esfiltrarlo  non aveva esitato a rispondere: «Non mi serve un passaggio, mi servono armi».  

Tutto questo non può indurre certamente a facili conclusioni sull’esito del conflitto, ma dà precisi contorni allo scenario attuale: da una parte c’è un leader autorevole e accolto in amicizia in Europa, dall’altro un autocrate è sempre più isolato sul piano internazionale, si deve guardare al suo interno, e non può lasciare il suo Paese perché è persino inseguito da un mandato d’arresto per crimini di guerra della Corte penale internazionale. 

Ora spetta alla restante comunità internazionale fare ancora la sua parte per una pace giusta, specie a quel Sud del mondo che esita a condannare senza ambiguità una «guerra di aggressione», la più grave delle violazioni del diritto internazionale. 

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