C’è un elemento che viene normalmente poco considerato nell’attuale scenario internazionale, forse perché dato ormai quasi per assodato. Eppure esso dovrebbe farci molto riflettere sull’apparente venir meno del ruolo degli Stati nazionali e sull’assurgere di una dimensione sempre più marcatamente sovranazionale delle relazioni, anche conflittuali, tra gli attori che compongono il teatro politico globale e sulla relativa dimensione territoriale del conflitto.
Pur essendo considerata, quella avanzata da Putin dal 24 febbraio scorso, “una guerra in vecchio stile” che per molti versi ricorda effettivamente pagine ingiallite della storia, il Cremlino – com’è noto – in realtà l’ha definita sin dall’inizio “operazione militare speciale”: una definizione, questa, che sfugge al concetto classico di guerra, che ci riporta a una tendenza sempre più marcata di tutto il contesto internazionale e che molto ci dice non solo della forma del conflitto, ma anche della sua sostanza.
Se la dichiarazione di guerra corrispondeva in passato infatti a determinare gli attori in campo in maniera netta, a separare i confini e a porre con drammatica chiarezza i limiti di azione degli Stati e delle relazioni tra essi, dando dall’età moderna in poi una piena centralità all’organismo statuale, l’assenza chiara di una dichiarazione di guerra contribuisce inevitabilmente a un’incertezza geopolitica, a una indefinitezza delle relazioni, a rendere fluido i rapporti diplomatici e a ibridare il conflitto stesso. Non casualmente quella in Ucraina è una guerra che viene sempre più spesso definita “ibrida”, capace cioè di integrare aspetti militari “diretti” a questioni propagandistiche, comunicative, tecnologiche e mediatiche più “indirette”, ma anche per via della sua incertezza formale, che in diplomazia normalmente corrisponde anche alla sostanza.
La mancata dichiarazione di guerra, oltretutto, ci fa comprendere altri aspetti.
Anzitutto, quanto sia cambiato l’oggetto del contendere del conflitto: è davvero ancora il territorio in sé e per sé?! Inoltre, quanto siano sempre meno centrali gli Stati azionali nell’arena mondiale: è davvero, nel caso specifico, “solo” una guerra tra Russia e Ucraina? E, poi, quanto la globalizzazione sia in realtà una struttura non solo permeata di fattori economico-commerciali, tecnologici e comunicativi, ma in cui la sfera strategico-militare agisce ormai pienamente. E infatti, la guerra è sempre più di carattere globale, dunque indefinita geograficamente, in cui il piano interno ai singoli Stati – a determinate condizioni – arriva a confondersi quasi immediatamente con quello internazionale.
Se nell’immagine classica della guerra l’oggetto del contendere è sempre stato il territorio e il dominio su di esso, e la mobilitazione faceva leva sull’identità territoriale e nazionale, nel caso del conflitto in Ucraina assistiamo all’apparente centralità dell’elemento territoriale, nazionale e statuale, con l’innesto di volontari internazionali e delle compagnie di mercenari che tendono a scivolare su un piano di maggior estensione del teatro, e col passare dei mesi è sempre più evidente che il nodo cruciale attorno a cui il conflitto si svolge è quello del sistema mondiale, come le dichiarazioni dell’una e dell’altra parte ben ci fanno comprendere. Certamente, si combatte per la difesa o l’accaparramento dei territori ucraini, rivendicando da una parte e dell’altra un’appartenenza geografica, storica ed etnico-linguistica, ma da parte Nato, al fianco dell’Ucraina, l’intento evidente è di preservare il fragile equilibrio dell’ordine mondiale scaturito dalla Guerra fredda, mentre da parte russa l’obiettivo esplicitato a più riprese è la messa in discussione proprio dell’ordine mondiale post-bipolare a guida statunitense.
In tal senso, la mancata dichiarazione da parte di Putin, più che configurare una “guerra lampo”, come erroneamente alcuni hanno inteso le mosse iniziali di Mosca, ci palesa l’oggetto stesso della guerra: non semplicemente parte del suolo ucraino rivendicato come di sua appartenenza, ma una diversa struttura del sistema internazionale. Il territorio, in tal senso, pur mantenendo una sua crucialità inevitabile, appare come il terreno di scontro per un oggetto del contendere assai più ambizioso e ampio, in cui gli attori in campo non si limitano a essere i contendenti dei territori, ma diventano i protagonisti di una faglia del sistema che può strutturare un diverso ordine mondiale o mantenerlo in vita.
Anche in tal caso, come avvenuto in passato, si assiste all’estensione del conflitto interno a uno Stato a livello internazionale, in una sorta di guerra interna che dai confini nazionali si allarga globalmente, coinvolgendo attori e spazi geografici ben al di là del territorio da cui il conflitto ha avuto origine. E infatti, analogamente a quanto stiamo assistendo drammaticamente in questi mesi, le azioni belliche degli ultimi vent’anni, non casualmente successive all’ordine bipolare, anche da parte occidentale, hanno seguito uno stesso impianto “incerto”: l’intervento statunitense contro l’ISIS nell’autunno del 2014 con il nome di Inherent Resolve, nato come operazione all’interno della guerra civile siriana e di quella irachena, inaugurerà quella che non casualmente sarà definita la “Coalizione internazionale” contro il Califfato: a una minaccia globale si risponde con un’alleanza estesa ben oltre i confini degli stati coinvolti.
Un esempio ancor più lampante è quello delle precedenti operazioni in Libia, in Afghanistan e nello stesso Iraq: nel primo caso, con l’obiettivo di destituire Gheddafi e sotto il cappello Onu (ris. 1970 del 2011), con un’operazione congiunta tra Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti; nel secondo, in virtù della minaccia del terrorismo internazionale a seguito dell’attacco dell’11 settembre, gli Usa avevano proceduto a una dichiarazione di “global war on terror”, laddove non era chiaro né l’oggetto del contendere – va da sé che il “terrore” o se si vuole, in senso più esteso, il “terrorismo”, non è un attore politico definito e nemmeno chiaramente localizzato –, né la limitazione spazio-temporale: se la guerra è “al terrore” essa sarà potenzialmente illimitata e, se essa è “globale”, sarà per definizione senza quartiere e illimitata geograficamente.
Questa riconfigurazione formale della guerra, che pure osserviamo in Ucraina, sebbene su basi e presupposti molto differenti, ci fa ben comprendere una traiettoria, che in parte rafforza l’idea di una globalizzazione militare come risposta a minacce ritenute globali, che ci appare sempre di più come il tentativo di superare la logica dello Stato nazione come centrale nelle relazioni internazionali, in cui è di volta in volta la coalizione, l’alleanza, uno Stato che si pone alla guida di altri, a muoversi militarmente contro altri attori – più o meno chiari – per oggetti della contesa che, pur non potendo prescindere dalla dimensione territoriale, intendono superare quest’ultima, ponendosi obiettivi più ambiziosi ed estesi di quelli “meramente” territoriali.
È per questo che i conflitti assumono una connotazione globale e non più, solamente, stato-centrica. Ed è per questo che il territorio sta diventando non più, come nella tradizionale concezione della guerra, l’oggetto della contesa internazionale, ma come il teatro di conflitti ibridi che si snodano globalmente e con presupposti di minacce ritenute sempre globali.