Non c’è Stato mediorientale che non susciti interesse; meno che mai l’Egitto, costante interprete della storia mediterranea; una storia contemporanea che è possibile far risalire al 1952 di Gamal Abdel Nasser, al suo panarabismo nazionalista, ed al 1981 di Anwar Sadat, soggetto politico imprevedibile per alcuni, poco affidabile per altri, ucciso da terroristi islamici.
Se si vuole dare un punto di inizio alla storia interna ed alle relazioni internazionali egiziane più recenti, è opportuno partire da quel momento perché ha segnato l’inizio di un percorso che ha condotto alla guerra libanese del 1982 prima, alla creazione di Hezbollah poi, per dare dopo sembianza all’estremismo qaedista, animato dal medico egiziano Ayman al-Zawahiri, a lungo al fianco di Osama Bin Laden. La deposizione di Mubarak e l’ascesa al potere di Muhammad Morsi, hanno preparato il ritorno del potere militare che, più forte della Fratellanza Musulmana, si è assunto l’onere di assicurare, ancora e con il supporto popolare, una transizione politica guidata dal generale ‘Abd al-Fattāḥ al-Sīsī; con i dovuti distinguo, in questo momento nell’area MENA è la Tunisia il Paese che più si sta avvicinando, con i provvedimenti assunti dal Presidente Saied, ai trascorsi egiziani.
Il legame con l’universo religioso è controverso, tanto che al principio si è ipotizzato l’avvicinamento del nuovo Egitto al Pakistan di Zia Ul Haq o all’Iran khomeinista di pasdaran e basij, esperienze tuttavia troppo affini ad un riformismo difficilmente conciliabile sia con la moderazione cairota, sia con un improbabile contatto tra sunnismo e sciismo, e soprattutto con la sopravvalutazione della devozione religiosa del militare al-Sīsī, vertice di un’organizzazione che antepone l’interesse nazionale ma che preserva interessi economico-finanziari di cui i militari hanno sempre beneficiato. In questo momento la posizione dominante di Mostaqbal Watan, il partito presidenziale, indica chiaramente come l’attuale struttura politica di potere egiziana sia inamovibile anche perché, già da Nasser, gran parte dei partiti fondano le loro relazioni non tanto sul contatto con il corpo elettorale ma con l’esecutivo, con l’eccezione della presa popolare esercitata dai (banditi) Fratelli musulmani e dai Salafiti.
Il governo egiziano ha realizzato l’obiettivo di istituzionalizzare un sistema politico che controlla scadenze formali e concorrenza elettorale, mantenendo una posizione confessionale politicamente quietista appoggiata dall’università di Al Azhar con Dar Al-Ifta, le più importanti risorse sunnite di soft power non a caso finanziariamente dipendenti da uno Stato che non può non esercitare una sua sottile influenza. Inevitabili i riflessi politici di una regione naturalmente instabile, agitata dalla presenza turca, da principio critica verso il governo di al-Sisi ritenuto responsabile della battuta d’arresto strategica post primavere arabe. Mentre l’esercito è la forza nazionalista traente insieme con il Gis, la Fratellanza musulmana rimane un’entità esogena; ora, dopo più di 10 anni, anche Piazza Tahrir non suscita più particolari aneliti rivoluzionari vista, per molti, l’irrinunciabilità a benefici già introdotti da Nasser.
Le FA non sono solo soggetto politico, ma anche imprenditoriale, con i militari che si radicano e si trasformano in elemento commerciale portante; con Mubarak si crea un sistema economico misto, dove l’impresa privata ha un limitato accesso al credito: le ditte statali diventano holding al cui vertice ci sono militari. Gli interessi si espandono ovunque, dai beni di consumo al terziario, dall’amministrazione delle compagnie energetiche alla produzione di armamenti pesantiche vincolano il Cairo all’Europa, agli USA, ma anche a sauditi, emiratini o giordani. Il sistema industriale con le stellette, che non paga IVA e tasse sulla proprietà immobiliare, gravita intorno al ministero della Produzione militare, che gestisce l’Aoi e l’Nspo; difficile se non impossibile desumerne il volume di ricchezza prodotta. Malgrado il livello di autosufficienza raggiunto sui beni di prima necessità, l’aiuto finanziario e tecnologico statunitense rimane indispensabile, come fondamentali sono i prestiti ottenuti dal FMI, anche alla luce della difficoltà sia nel reperimento di investitori stranieri, ad eccezione del settore energetico, sia nel contenimento della crisi innescata dalla pandemia di Covid ed ulteriormente infiammata dal conflitto russo ucraino che, nel rendere difficoltoso l’approvvigionamento di cereali e grano, ha portato l’Arabia Saudita a depositare presso la Banca centrale egiziana, nel 2021, 3 miliardi di dollari più altri 5 miliardi nel 2022, prestiti cui si sono aggiunti ulteriori 5 miliardi di dollari di investimenti da parte del Qatar.
È opportuno rimarcare che il conflitto russo-ucraino, oltre alle reazioni provocate sul piano politico-economico-strategico che hanno imposto al Cairo di seguire percorsi diplomatici bilanciati tra le parti, ha impattato anche sulla sicurezza alimentare, la criticità più vulnerabile dell’area MENA; l’aumento dei prezzi del grano ha colpito i low-income countries che, come l’Egitto che importa l’85% del suo fabbisogno cerealicolo da Russia e Ucraina, utilizzano la leva dei sussidi alimentari per garantire l’accesso ai generi alimentari di base ai ceti più indigenti. Tenuto conto che già nel 2021 i prezzi del cibo sono aumentati dell’80%, l’aumento dei costi che solo nel mese di marzo è lievitato del 12,1% non potrà che mettere in crisi Paesi già colpiti da crisi socio-politiche acuite dal periodo del Ramadan. L’attuale congiuntura si muove su tre direttrici: aumento del prezzi del pane (37%); crescita inflattiva su base annuale dei beni alimentari (18,9%); incremento della disoccupazione (7,4% su base nazionale, giovanile al 26,5%). Tutti elementi che caratterizzano la situazione egiziana e mettono in allarme la leadership, mai così colpita dall’esternalizzazione di approvvigionamenti dati finora sempre per certi.
Politicamente, a fronte della crisi ucraina la reazione di alcuni Paesi è stata molto più sfumata rispetto a quella che ha caratterizzato il contesto occidentale; l’approccio più cauto si è fondato sul contesto geopolitico regionale caratterizzato sia dal progressivo allontanamento americano, percepito con preoccupazione dai più stretti alleati di Washington, sia dall’emersione di Cina, Russia e India apparentemente in grado di promettere la tutela dei common goods. Il programma economico, basato sulla razionalizzazione delle uscite, non ha trovato un valido sostegno in riforme sociali e del lavoro, con una contrazione della spesa pubblica relativamente a sanità e istruzione. Il quadro economico molto fluido negli ultimi anni, che ha visto passare l’Egitto da tassi di crescita apprezzabili al costante mantenimento di vulnerabilità individuabili nello scarso rendimento delle esportazioni e negli investimenti diretti esteri, è ulteriormente fiaccato dall’aumento del tasso di disoccupazione, dal calo sia delle entrate turistiche sia da quelle riguardanti il Canale di Suez, con un incremento del debito estero fino a 139 miliardi di dollari nel primo semestre.
Mentre gli investimenti interessano l’area delle infrastrutture, come quelle da 58 miliardi di dollari interessanti la nuova capitale amministrativa ad est del Cairo, la fragilità egiziana, a fronte di un maggior coinvolgimento delle imprese gestite dalle FA che scoraggiano l’iniziativa privata, è stata evidenziata dal caso Ever Given, portacontainer che per diversi giorni nel 2021 ha bloccato Suez, considerato prima fonte di reddito cui guarda il regime. Non a caso la Suez Canal Authority sta puntando prima ad ampliamento ed approfondimento del Canale, poi all’istituzione di un fondo sovrano, destinato a raggiungere un capitale di 5,48 miliardi di dollari.
La situazione economica egiziana, all’indomani della crisi ucraina, è stata quindi aggravata dal fatto che gli investitori internazionali hanno ritirato miliardi di dollari per via di un possibile effetto contagio, mentre la Banca Centrale ha tentato di contenere la pressione sulla sterlina egiziana con una svalutazione del 14% rispetto al dollaro, generando tuttavia un’ulteriore spinta inflazionistica in aumento al 7,5%.
Sul fronte delle relazioni esterne, grazie anche all’assenza di alcuni attori europei, l’Egitto volge la sua attenzione a due dossier di rilevanza strategica: la Libia, su cui il Cairo, a differenza dell’opzione militare emiratina, ha puntato ad un rilancio politico, e la Gerd etiope. La stabilità dello Stato libico garantisce la sicurezza interna egiziana minacciata dalla penetrazione di elementi jihadisti dalla Cirenaica, in un contesto che vede sia il desiderio di autonomia politica del regime di al-Sisi che, nell’essere considerato da Parigi e Atene quale utile antemurale alla politica del Reis turco, non può tuttavia alienarsi gli aiuti di Riad e Abu Dhabi, sia la ripresa di un non facile dialogo diplomatico con la Turchia, coinvolta da un lato nel sostegno all’islam politico ed in competizione diretta in Libia, dall’altro nella proposta di mediazione tra il Cairo e Addis Abeba per il progetto idroelettrico della Gerd, una minaccia per l’accesso egiziano alle acque del Nilo, oltre che del Sudan.
La complicata liaison con la Turchia riguarda anche l’affermazione quale hub energetico regionale nel Mediterraneo orientale, motivo per cui l’Egitto si è reso promotore dell’East Mediterranean Gas Forum, che ha quale obiettivo lo sfruttamento dei giacimenti gasiferi usando i suoi impianti come snodo commerciale verso l’Europa. Nel complesso i rapporti bilaterali Turchia – Egitto hanno portato ad una polarizzazione regionale dovuta al bilanciamento della Fratellanza Musulmana ed al confronto in Libia e nel Mediterraneo orientale, cui ambedue i paesi hanno tuttavia cercato di ovviare con una strategia tit for tat. Insomma, la realpolitik sta consigliando di rivedere le reciproche posizioni in un’ottica di mutuo guadagno, come del resto avvenuto con la ripresa dei rapporti turco israeliani coincidenti con la visita del Presidente Herzog ad Ankara. Rilevante la liaison diplomatica tra Egitto, Israele e EAU che, all’ombra degli Accordi di Abramo, cerca di mediare investimenti economici nell’area del Mar Rosso, la sicurezza del Golfo, ricadute del JCPOA iraniano e collaborazioni energetiche con l’esportazione del gas israeliano verso l’Egitto, e senza dimenticare la partnership con Iraq e Giordania, paesi accomunati da una perdurante crisi economica, possibile preludio all’unione di più soggetti politici del levante nella al Sham al Jadid. Ma è lo strumento militare a dover fare la differenza; la revisione di politica estera e securitaria ha condotto all’accrescimento del ruolo strategico egiziano in un ambito regionale in costante evoluzione e con focolai di crisi localizzati sul Mar Rosso e sul versante mediterraneo orientale dove giacimenti di gas naturale e mancanza di un egemone capace di garantire equilibri di potenza hanno innescato la competizione per l’accesso alle risorse del sottosuolo marino.
Proprio in questo contesto il Mavi Vatan turco, accompagnato dall’ammodernamento della flotta, ha rivitalizzato la rivalità tra Turchia ed Egitto, costretto a riconsiderare le proprie capacità di proiezione per garantire la maggior sicurezza possibile nell’esercizio dei diritti esplorativi e nello sfruttamento delle proprie piattaforme estrattive. Anche Penisola arabica e Corno D’africa si sono militarizzati con una presenza sempre più consistente di attori esterni tra Gibuti, Eritrea e Somalia, con la latente minaccia della pirateria e la presenza iraniana che sfrutta abilmente il proxy Houthi; una minaccia securitaria ed anche economica, dato che tra Mar Rosso e Suez passano quotidianamente verso il Mediterraneo derrate per un valore di svariati miliardi di dollari. La necessità di tutelare gli interessi nazionali all’interno del dominio marittimo ha costretto la Marina egiziana a prendere atto dei propri limiti. Obsolescenza e carenze infrastrutturali hanno indotto il Cairo ad aprire nuove basi navali e ad acquisire nuove piattaforme, entro uno spazio esteso tra Mediterraneo Occidentale e Bab el-Mandeb. La flotta si è potenziata con l’entrata in linea di due portaelicotteri francesi da assalto anfibio, cosa che ha permesso alla Marina egiziana acquisire il titolo di prima marina araba a detenere capacità effettive di proiezione e sbarco, quattro corvette multi-missione Gowind ed una Fremm antisom. Alle fregate tedesche antisom classe Meko A-200EN, si sono aggiunte le Fremm italiane General Purpose Schergat e Bianchi, capaci di assicurare flessibilità e deterrenza nei confronti della Turchia, refrattaria alle statuizioni della Convenzione di Montego Bay. In evoluzione anche la componente subacquea, a fronte della rinnovata minaccia sottomarina nel bacino mediterraneo, con la sostituzione di 4 SSK Romeo con altri battelli lanciamissili diesel-elettrici U209 tedeschi. Non si tratta dunque solo di un semplice ammodernamento, ma del tentativo di dotarsi di una Blue Water Navy proiettabile anche a distanza dalle acque metropolitane ma che, data la multilateralità degli approvvigionamenti, potrebbe creare problematiche logistiche e di standardizzazione. L’Egitto è dunque incastonato in una zona complessa, animata da interessi ed attriti che richiedono proattività e proiezioni di potenza, ma che non possono discostarsi da difficoltà economiche e sociali facili a sfociare in moti e contestazioni. Mentre il ricordo delle Primavere aleggia ancora, ed incombe il conflitto russo ucraino, il Cairo deve cominciare a decidere da quale parte stare.
Gino Lanzara,
Webster University di Ginevra