«La politica estera non ha bisogno che di una direzione regolare, sicura, pronta, per procedere convenientemente». Nel corso di un aspro dibattito alla Camera dei Deputati del marzo 1889, Francesco Crispi rispondeva così a Ruggero Bonghi che gli rimproverava di non adempiere ai suoi doveri essendo contemporaneamente presidente del Consiglio, ministro dell’Interno e degli Esteri.
Il presente articolo riproduce parzialmente i contenuti di un contributo dell’autore per l’edizione del 21 ottobre di “Scenari”, inserto di geopolitica del quotidiano “Domani”
Nonostante l’evidente forzatura, l’esponente della sinistra storica ben sintetizzava la frequente rappresentazione della politica estera, intesa come combinazione tra obiettivi e strumenti scelti da un governo nelle sue relazioni con l’esterno, quale attività contraddistinta più da “costanti” che da “variabili”. Soprattutto se comparata alla politica interna, segnata da mutamenti relativamente più frequenti nelle scelte compiute dal decisore politico, anche su temi significativi per la vita di una nazione. All’interno di un perimetro democratico tali cambi di rotta costituiscono la principale conseguenza di quell’alternanza resa ciclicamente possibile dalle elezioni.
Il turnover che si è materializzato con la vittoria del centro-destra il 25 settembre ha rilanciato il dibattito sulla continuità/discontinuità in politica estera, facendo paventare anche brusche virate per l’Italia sulla scena internazionale. Numerosi osservatori, d’altronde, si aspettano una “rottura”, proporzionale a quella interna, nelle relazioni esterne di un Paese in cui il potere passa di mano. Ancor di più quando nasce un esecutivo guidato da attori totalmente – il Movimento 5 Stelle nel 2018 – o parzialmente – Fratelli d’Italia nel 2022 – “nuovi” all’arte della diplomazia.
Come se la politica estera fosse rivolta a un ambiente in tutto e per tutto simile a quello “domestico”, le interpretazioni e le previsioni formulate in merito ruotano di sovente intorno al fattore “umano”, che suggerisce discontinuità. Sarebbero, quindi, i programmi elettorali, i legami internazionali, l’universo valoriale e le preferenze di leader e partiti a dirci dove andrà un Paese in caso di vittoria di questa o quell’altra parte politica. Sia le dinamiche della campagna elettorale che la “fame” di novità del circuito mediatico spingono ad adottare questa spiegazione, sottovalutando però una serie di fattori che remano in direzione della continuità.
Con ciò non si vuole sostenere che la politica estera sia impermeabile all’alternanza al potere. Questa determina sempre aggiustamenti minori e molto di frequente la modifica degli strumenti considerati più efficienti per il perseguimento degli interessi di un Paese sui singoli dossier. Un fenomeno più raro da osservare, invece, è il mutamento dei suoi obiettivi strategici e, ancora di più, quello della sua postura – conservatrice o revisionista – rispetto all’ordine regionale o internazionale cui prende parte.
La tendenza alla continuità può essere spiegata sia attraverso fattori domestici, che strutturali.
Tra i primi, figura il cambio di prospettiva che coglie chi entra nelle stanze dei bottoni. I vincitori delle elezioni assumono non solo una responsabilità diversa – governare, anziché controllare chi governa – ma anche un obiettivo diverso – mantenere il potere, anziché conquistarlo. Tale passaggio, unito a una visione d’insieme di cui erano precedentemente privi, li induce – anche laddove abbiano posizioni di partenza radicali – a una progressiva “istituzionalizzazione”. Si pensi alla parabola di Luigi Di Maio che, nel corso dell’ultima legislatura, ha dapprima incontrato quei gilets jaunes protagonisti di una feroce contestazione a Emmanuel Macron (2019), per poi collaborare con quest’ultimo alla firma del Trattato del Quirinale (2021).
Altro fattore interno a cui viene ricondotta la continuità in politica estera è l’eredità politico-culturale. Questa si tramanderebbe all’interno di una burocrazia professionale – la diplomazia – che, consapevole del proprio ruolo, talvolta rallenterebbe, talaltra modificherebbe le scelte contrarie alla “tradizione” nazionale. Tanto che – scriveva Carlo Maria Santoro – l’interazione di un Paese con il mondo esterno sembrerebbe realizzarsi attraverso un meccanismo di ripetizione delle azioni e delle reazioni. È a questa resistenza al cambiamento da parte della burocrazia che Barack Obama riservò critiche sprezzanti – etichettandola derisoriamente the blob – poiché ostacolava il disimpegno americano dal Medio Oriente. Battaglia poi ripresa dal suo successore Donald Trump che denunciò l’opposizione del deep state a quei cambiamenti che reputava imprescindibili per la preservazione del primato internazionale degli Stati Uniti.
Le scelte in materia di esteri, infine, possono essere spiegate anche guardando alle condizioni strutturali che contraddistinguono l’ambiente internazionale. Ovvero alle istituzioni internazionali vigenti, alla distribuzione del potere tra gli stati e alle loro capacità relative. In tal prospettiva, il mutamento in politica estera – soprattutto se di intensità “maggiore” – avverrebbe solo in presenza di altrettanto significative variazioni strutturali, rispetto a cui una classe politica deve saper dimostrare spirito di adattamento. Si pensi al caso dei Verdi in Germania, un partito che ha sempre avversato il rafforzamento dei legami con Mosca messo silenziosamente in atto da Angela Merkel per un quindicennio. Cosa ha permesso loro di tradurre in realtà un – lento – distanziamento da Mosca? Non la nomina di Annalena Baerbock agli Esteri dopo il successo elettorale del 2021. Piuttosto, un evento esterno come lo scoppio della guerra in Ucraina, combinatosi con il rinnovato pressing della Casa Bianca sulla spinosa questione del Nord Stream.
Alla luce di ciò, è verosimile che il nuovo governo di centro-destra non farà registrare scossoni in politica estera, nonostante certe relazioni o preferenze “pericolose” di alcuni suoi esponenti. Ma che, si ricordi, non difettano neanche al centro-sinistra. Giorgia Meloni, d’altronde, si era già portata avanti con l’istituzionalizzazione di Fratelli d’Italia in materia di esteri. Tanto che le sue posizioni sull’aggressione russa all’Ucraina o sulle insidie provenienti dalla Cina le hanno già fatto incassare l’endorsement della Casa Bianca, arrivato via tweet del segretario di Stato Antony Blinken. Così come ha riformulato il suo registro – seppur critico – verso Bruxelles, depurandolo da ogni retorica no-euro e scenari à la Italexit. Non a caso, a difendere il presidente del consiglio in pectore dalle invettive del ministro francese Laurence Boone è intervenuto niente meno che il presidente Sergio Mattarella.
Contemporaneamente tutti i nomi circolati nel corso delle settimane successive alle elezioni per i dicasteri degli esteri – Antonio Tajani, Elisabetta Belloni, Giulio Terzi – e della difesa – Adolfo Urso, Guido Crosetto, Stefano Pontecorvo – sono sembrati coerenti con l’obiettivo della continuità in politica estera, trattandosi di figure con rapporti istituzionali consolidati o provenienti direttamente dalla diplomazia.
La congiuntura internazionale, da ultimo, restringe il campo d’azione di Palazzo Chigi, ancorandolo per ragioni di necessità a quel trinomio “atlantismo, europeismo e Mediterraneo allargato” ricordato da Mario Draghi nel suo discorso di insediamento. Le aperture possibili in passato con Russia e Cina per via di un contesto politico-strategico almeno apparentemente più stabile sono oggigiorno fuori dall’agenda del prossimo governo.
Di fronte alla polarizzazione internazionale, infatti, le ridotte risorse a disposizione di una media potenza come l’Italia le impongono di serrare i ranghi al fianco del suo alleato maggiore, gli Stati Uniti. Chiunque guidi il Paese in questa fase non ha altra scelta a disposizione che una stretta osservanza dell’atlantismo, pena una dolorosa e incerta ridefinizione dei mezzi a servizio della sicurezza nazionale. Parimenti, al cospetto della crisi energetica la Meloni non ha indugiato nella richiesta di “meno Europa”. Piuttosto, ha reclamato una risposta collettiva che va nella direzione opposta a quella tracciata dalla Germania, paradossalmente dal sapore “sovranista”. E se c’è da aspettarsi che la Meloni lavorerà nei prossimi tempi per un’Unione Europea a trazione meno teutonica, occorre ricordare che tale politica è condivisa a Washington – i cui rapporti con Berlino non vivono affatto un buon momento – ed è stata praticata da Draghi dai tempi del whatever it takes fino alle ultime critiche nei confronti di Ursula von der Leyen al vertice di Praga. Sempre coerentemente con il suo predecessore e con il riorientamento strategico americano verso l’Indo-Pacifico, è verosimile che l’esecutivo Meloni continuerà – non ci è dato di sapere con quali risultati – nella difficile opera di rilancio del ruolo italiano nel Mediterraneo, che ha trovato eco nell’ipotesi dell’istituzione di un “ministero del mare”.
Durante la Guerra fredda ai piloti di combattimento americani che si fossero trovati nel raggio d’azione di un caccia sovietico veniva dato un suggerimento: mantenere altitudine, rotta e velocità costanti. Questo modello di comportamento serviva a limitare l’incidenza del fattore-ignoto – le capacità e le intenzioni altrui – su scelte dalle conseguenze imprevedibili – portare a casa la pelle a costo di innescare di una guerra atomica. Mutatis mutandis, di fronte a processi politici globali su cui nessun governo italiano può realmente incidere, ma su cui potrebbe facilmente scottarsi, la strategia migliore per il centro-destra è restare ben piantato nel solco delle coordinate classiche della politica estera italiana, seppur con gli aggiustamenti del caso. La Meloni, al momento, sembra averlo capito, ma – come noto – del doman non v’è certezza.
Gabriele Natalizia – Sapienza Università di Roma, Centro Studi Geopolitica.info