“Il nodo di Gordio” viene ristampato da Adelphi non casualmente in un momento di radicale rivisitazione degli equilibri mondiale qual è quello attuale. Scritto da Ernst Jünger nel 1953, in un altro frangente altamente significativo della storia mondiale, questo trattato sulle relazioni tra Oriente e Occidente ha visto la risposta, due anni dopo, di Carl Schmitt, che propose i temi a lui cari come replica all’elaborato dell’amico teorico della Mobilitazione totale. Il volume si presenta in questa sequenza, con una nota finale di Giovanni Gurisatti.
La lettura che ne è emerge risulta di straordinaria rilevanza filosofica, oltre che di enorme attualità geopolitica, anzitutto perché il topos del dibattito proposto è di radicale importanza nella storia delle relazioni internazionali, ma anche perché tale argomento è oggi al centro del dibattito sulla guerra in Ucraina – se intendiamo quest’ultima come un conflitto non soltanto regionale, ma sempre più di carattere globale. Le visioni che affiorano sono profondamente diverse, pur non necessariamente divergenti.
L’ottica di Jünger è anzitutto storica, oltre che concettuale e con molti riferimenti mitologici: per lui il confronto tra Oriente e Occidente è di civiltà, ancor prima che geografico. “Oriente e Occidente, Levante e Ponente sono concetti fluttuanti, la cui delimitazione è non solo discutibile, ma anche dubbia. I loro significati geografici, storici, spirituali e affettivi non coincidono” (p. 31), proprio perché prevale la dimensione simbolica dei loro significati più profondi. E infatti egli ritiene che “Oriente e Occidente non devono essere concepiti come luoghi assoluti, ma come metafore di due atteggiamenti umani fondamentali” (p. 42).
Si tratta in sintesi di civiltà contraddistinte da fenomeni storici, applicazioni politiche e gestione del potere radicalmente diversi, mettendo al centro il tema della libertà e del dispotismo: “nel loro alternarsi e implicarsi reciprocamente si dipana il tema della storia universale” (p. 30), alla stregua di come farà Federico Chabod nel suo magistrale Storia dell’idea d’Europa.
L’Europa per Jünger è un unicum in cui la libertà è “il grande tema”, “il banco di prova di uomini e poteri” (p. 85), che si è espressa al massimo grado quale grande collante della sua storia, in cui l’arbitrio personale del governante è il segno di un’eccezione che non corrisponde alla storia di lungo periodo del continente. L’Oriente, o l’Asia, al contrario, hanno visto secondo l’autore un riproporsi storico di un potere dispotico e dell’attaccamento dei popoli al sovrano che si ravvisa in alcuni tipici elementi evidenziati dall’autore: nell’uso delle “guardie del corpo”, esaltato in Oriente e meno presente nel mondo europeo (p. 115); nell’uso delle immagini e dell’arte, differente nei due contesti: osservando le pitture rupestri “siamo indotti a pensare che tra i cacciatori preistorici già esistessero giustizia e libertà nel nostro senso” (p. 139); nella considerazione del suicidio, ammesso in Oriente anche come forma d’eroismo e di norma estraneo alla logica occidentale; nell’assimilazione quasi totale del regnante a dio nella realtà orientale e una valenza assai più ridotta nell’occidente, dove il sovrano non è “identico a Dio” ma è “simile a Dio” (p. 43) o, ancora, nelle pratiche di trattamento dei caduti (§19).
Parte importante del ragionamento jungeriano si focalizza poi sul tema dell’arbitrio: se in Oriente la grandezza può manifestarsi anche nell’arbitrio, in occidente non può mai esservi appaiata, tanto che l’uso dell’arbitrio offusca la purezza del potere espresso dal governante (p. 114).
A partire dalle differenze sostanziali tra l’una e l’altra parte del mondo, il pensatore tedesco non ritiene di escludere la possibilità di un governo del globo, capace di coniugare le due porzioni mondiali in un unico Stato mondiale, senza esclusione delle diversità, poiché “tra lo spirito dell’Occidente e la sostanza orientale vige un rapporto di reciproca fecondazione” (p. 148).
La posizione di Schmitt è profondamente diversa, nella struttura del ragionamento e nelle considerazioni conclusive. Anzitutto, la linea di demarcazione tra i due emisferi è per lui di tipo geografico, o meglio di legame e di espressione del potere politico all’uno o all’altro elemento.
Riprendendo le argomentazioni espresse in Terra e Mare e nel Nomos della Terra, Schmitt ripercorre la storia mondiale come continua contrapposizione tra le forze statuali connesse al mare, dal periodo delle grandi esplorazioni geografiche in poi tipicamente occidente, e quelle terrestri, di norma orientali: richiamandosi apertamente a teorici della geopolitica classica come Sir Halford Mackinder, egli vede nella Russia, Cina e nell’India una “massa compatta di terraferma”, “la più gigantesca isola della Terra, ‘cuore della Terra’” (p. 172), mentre “ciò che oggi chiamiamo Occidente è un emisfero coperto dai mari del mondo, l’Oceano Atlantico e l’Oceano Pacifico” (p. 172).
È in tale intrinseco dualismo tra terra e mare che Schmitt ravvisa i tratti di un confronto globale che si esprimerà al suo massimo grado nella costituzione del Patto Atlantico del 1949 (p. 177): un contrasto di elementi naturali ancor prima che di potenze e visioni globali, tale da richiamare alla mente i grandi scontri del passato, anzitutto con protagonista Napoleone. Ma è la struttura stessa del mondo, per il giurista tedesco, a essere caratterizzata da questo “dualismo planetario” che rispecchia un diverso approccio all’ordine mondiale: non è la lotta della “balena” contro l’“orso” (nessun animale si muove su terreni non suoi), ma è il contrasto tra visioni di ordini mondiali distinti. Ancor di più, tra due divergenti concezioni di pace mondiale che trovano il palcoscenico in quel frangente storico, e che risulta ancora oggi attualissimo.
Non solo, riprendendo il tema caro a Jünger della tecnica e del suo posto nell’evoluzione mondiale, Schmitt ragiona attorno alle grandi rivoluzioni di cui è stato promotore l’Occidente, evidenziando i passaggi fondamentali in cui questa parte del mondo ha attestato il proprio potere in senso globale, tenendo conto che “tecnicizzazione e industrializzazione sono oggi il destino della nostra Terra” (p. 192). Secondo Schmitt, non a caso, l’Inghilterra fu la prima vera potenza globale perché, prima e meglio di altre potenze marittime come il Portogallo, la Spagna e l’Olanda, riuscì a interpretare la modernità del fattore marittimo quale elemento di ineludibile proiezione globale, intendendo il porto nel suo senso etimologico: portus, come porta di uscita verso gli oceani e gli spazi globali (p. 200).
È in questa tensione verso l’elemento marittimo – di per sé innaturale per l’uomo, intimamente legato alla terra – che si deve ravvisare il senso e la capacità di attestare il proprio potere globalmente.
Ed è in tale dinamica, oltretutto, che si deve ravvisare il senso più profondo del dualismo storico, per Schmitt ineliminabile, tra Oriente e Occidente o, per meglio dire, tra Terra e Mare: un dualismo che si dipana oggi in termini quantomai attuali e altamente drammatici nella guerra in Ucraina e in ciò che essa comporta.