Cosa sta succedendo in Sudan? Il 25 ottobre 2021 l’ala militare del governo ha assunto il potere, aggravando la preesistente instabilità politica, economica e sociale del Paese. La popolazione, e specialmente i sostenitori di un processo di pace a guida civile, da mesi manifestano regolarmente in tutto il Sudan andando incontro alla repressione anche violenta da parte dell’esercito. Il fallimento della cooperazione tra parti civili e militari del governo segnala uno grave stallo del processo di transizione. Inoltre, il golpe di ottobre rimette in discussione il posizionamento internazionale del Paese.
Il golpe
Nel corso della storia post-coloniale del Sudan, sono stati prevalentemente i militari a esercitare il controllo nel Paese, in un susseguirsi di colpi di Stato. Proprio per la storia politica del Paese, e per la condizione fragilissima in cui versava il governo di transizione composto da un’ala civile e una militare, il golpe attuato dall’esercito guidato dal leader Abdel Fattah al-Bourhan lo scorso 25 ottobre era prevedibile, se non addirittura atteso. Tuttavia, nonostante l’evento fosse nell’aria, come dimostrano le proteste delle settimane antecedenti ai fatti, il Paese è precipitato nel caos. Per un lasso di tempo è stato fortemente limitato l’accesso alle linee telefoniche e ad internet, sono stati cancellati i voli internazionali, e sono stati disattivati i bancomat e i servizi di trasferimento di denaro come Western Union, cruciali per molti cittadini che ricevono rimesse dall’estero. Ad oggi si contano almeno 80 morti tra i manifestanti che da mesi scendono nelle strade per protestare, oltre a numerosi feriti e vittime di violenza sessuale.
Il giorno del golpe Abdalla Hamdok, diventato Primo Ministro secondo gli accordi all’indomani della destituzione di Al-Bashir nel 2019, viene posto agli arresti domiciliari insieme ad altri esponenti politici. Hamdok viene poi non solo liberato: il mese seguente è anzi richiamato in carica con lo scopo di raggiungere un accordo con al-Burhan. Tale accordo, a cui partecipano diverse parti politiche, avrebbe avuto lo scopo di non vanificare i traguardi raggiunti durante il processo di pace e di evitare spargimenti di sangue, ma Hamdok viene travolto da numerose critiche in quanto questo accordo legittimerebbe il colpo di stato. Ed è proprio per mancanza di sostegno politico e di manovra d’azione che il 2 gennaio Hamdok consegna le proprie dimissioni da Primo Ministro.
Questo evento ha ulteriormente accresciuto l’incertezza riguardo il futuro della transizione democratica, che teoricamente dovrebbe concludersi il prossimo anno. Non si sa infatti chi potrebbe ergersi a leader delle forze civili unite nel Paese.
Il colpo di stato militare ha avuto inoltre l’effetto di porre fine al blocco di Port Sudan da parte di alcune comunità locali. La crisi portuale, si dice, potrebbe addirittura essere stata tollerata o facilitata dall’ala militare del governo per aumentare il senso di crisi all’interno del Paese appena prima del golpe. Nonostante ciò, comunque, la situazione a Port Sudan resta volatile (così come in altre regioni come il Darfur o il confine con l’Etiopia).
Le reazioni internazionali
È da relativamente poco (cioè dalla destituzione di al-Bashir) che il Sudan aveva iniziato a reinstaurare rapporti con la comunità globale. Prima si trovava infatti isolato diplomaticamente e colpito da sanzioni economiche pesantissime giustificate dalle ricorrenti violazioni di diritti umani (per esempio in Darfur) e dalla facilitazione del terrorismo internazionale – quest’ultima motivazione addotta principalmente dagli Stati Uniti. Il recente golpe mette a repentaglio questo successo, probabilmente il più grande, del governo di transizione.
Il 25 ottobre, sono stati numerosi gli attori internazionali a denunciare il golpe militare e a esortare al rilascio dei prigionieri politici e al rispetto degli accordi internazionale e dei diritti umani. Tra questi ci sono stati le Nazioni Unite (tramite il Segretario Generale Guterres), la Lega Araba, gli USA e l’Unione Europea. Alcuni Paesi, come l’Etiopia e la Russia, hanno più distaccatamente invitato tutte le parti a esercitare autocontrollo e pensare al bene del Sudan. Pare addirittura che l’esercito di Khartoum avesse cercato e ottenuto, prima del golpe, un lasciapassare da Mosca, con l’intento di prevenire nuove sanzioni imposte tramite il Consiglio di Sicurezza ONU.
Nonostante la rassicurazione russa, la prospettiva di un governo militare (che pur annuncia l’intenzione di portare il Paese al voto nel 2023) ha ripercussioni economiche notevoli. Le potenze occidentali hanno infatti sospeso l’erogazione di aiuti economici al Sudan, e poiché Khartoum ha necessità assoluta di questi fondi per risollevare il Paese dalla crisi, l’esercito dovrà per forza confrontarsi con le potenze globali. Per esempio, gli USA hanno messo in pausa 700 milioni di dollari di aiuti, la Francia potrebbe annullare al Sudan la cancellazione del debito nei suoi confronti di 5 miliardi di dollari, così come sono a rischio i 500 milioni di dollari da parte della Banca Mondiale e 150 milioni dal Fondo Monetario Internazionale. E oltre ai danni economici, una mancata collaborazione internazionale accrescerebbe l’incertezza riguardo questioni geopolitiche come le dispute con l’Etiopia riguardo il GERD, i confini e i flussi migratori. Intanto, il valore della sterlina sudanese, che a partire dal febbraio 2021 si era stabilizzato, è nuovamente precipitato, mentre la domanda di dollari americani nel Paese cresce esponenzialmente.
A gennaio sono iniziate consultazioni interne all’ONU volte a supportare il raggiungimento di un accordo e il superamento della crisi, anche se l’Inviato Speciale Perthes ha chiarito che l’organizzazione non sta sviluppando alcun progetto o visione. Dal canto suo, l’esercito sudanese e i suoi sostenitori hanno annunciato di rifiutare l’ingerenza straniera nel Paese, e di accettare solo che l’ONU faciliti le trattative senza fare da mediatore.
I militari sanno di non poter permettere che il Paese si trovi nuovamente isolato dal resto del mondo, comprese e soprattutto le potenze occidentali. La transizione democratica che univa forze civili e militari stava incontrando sfide ingenti ma stava (a rilento) procedendo, mentre ad oggi non si vedono strade percorribili che portino sia alla fine della crisi sia all’unione delle forze politiche e dei cittadini. Come sostenuto da Ahmed Soliman di Chatham House, un ‘reset’ delle fondamenta del processo di transizione sarebbe faticoso, ma potrebbe costituire l’unica soluzione efficace.