L’ultima roccaforte dell’islam politico
Distratte dal frastuono ucraino, la stampa e l’opinione pubblica italiana sembrano prestare poca attenzione agli eventi che si rincorrono ormai da giorni sulle rive meridionali del mar Mediterraneo. Il riferimento corre al giovane Stato libico post-gheddafiano, teatro nell’ultimo triennio di costanti scontri armati tra milizie rivali, assassinii e rapimenti illustri che hanno coinvolto figure di spicco dell’establishment governativo, nebulose extraordinary rendition condotte da potenze straniere, traffico di armi e – ancor più recentemente – colpi di Stato.
Come tale può essere definito il voto di sfiducia espresso l’11 marzo contro il premier Ali Zeidan da un organo legislativo, il General National Congress, il cui mandato legale risulterebbe ormai scaduto da oltre un mese. La mozione, approvata col consenso di 124 dei 200 membri della camera, è stata perorata dai rappresentanti della città di Misurata con l’aperto sostegno della componente dell’assemblea facente capo al movimento dei Fratelli musulmani. Formalmente, un atto di delegittimazione motivato dalla accuse per le quali l’ex capo dell’esecutivo avrebbe tentato di corrompere con tangenti i gruppi armati che da tempo hanno posto in stato di fermo i terminal petroliferi dell’oriente libico. In termini politici, una ritorsione contro i tentativi di Zeidan di contenere il peso preponderante della Fratellanza musulmana negli equilibri sociali e religiosi del Paese.
Estromessi dall’Egitto dei nuovi colonnelli, mortificati da un regime siriano sopravvissuto grazie al sostegno russo, criticati a Gaza e – notizia di pochi giorni fa – messi in stato di clandestinità nella potente Arabia Saudita, i Fratelli musulmani in rotta nella maggior parte degli scenari geopolitici mediorientali preservano in Libia significative leve di potere. Fa riferimento alla Fratellanza Nuori Abusahmain, il presidente del General National Congress che in attesa della promulgazione di una definitiva carta costituzionale detiene la carica di capo dello Stato e, diretta conseguenza, i connessi poteri esecutivi sull’impiego dell’esercito. Non di meno, lo schieramento integralista può contare sull’eco carismatico del gran muftì Sheikh Sadik Al-Ghariani, somma autorità religiosa della Libia che non si esime dal prender apertamente e frequentemente parte al dibattito politico interno. Suo il recente proclama sulla legalità della proroga delle funzioni legislative auto-concessasi dal parlamento in febbraio, una dichiarazione accompagnata da un monito morale che interdirebbe i fedeli libici dal contestare i poteri del Congresso. Rispondono, infine, alla Fratellanza i governatori locali di Misurata in Tripolitania e di Derna in Cirenaica, così come – dato ancor più significativo – le rispettive milizie combattenti, tra le più attive e sfrontate nello scenario della Libia post-rivoluzionaria.
In un contesto macroregionale che vede persino il colosso della comunicazione Al Jazeera iniziare a riconoscere l’ormai evidente parabola fallimentare dell’islam politico, la Libia si configura come estrema roccaforte di un movimento che, privato dello slancio idealistico delle primavere arabe, potrebbe essere presto ricondotto nella generalizzata condizione di minoranza e ininfluenza del pre-2011. Una prospettiva che i Fratelli musulmani intendono sventare mantenendo e accrescendo il proprio ruolo negli equilibri sociali e religiosi dell’ex- Jamahiriya.
Le criticità del processo di state-building e l’ascesa del movimento sufista
Arginare la deriva confessionale nelle istituzioni e nella società civile ha rappresentato uno dei principali obiettivi promossi nell’ultimo anno dall’esecutivo guidato da Ali Zeidan, ma non l’unico. In un lento processo di state building il governo ha dovuto confrontarsi con problematiche ereditate dalla guerra civile e impreviste crisi politico-diplomatiche. Nella primavera dell’anno scorso la difficile epurazione dall’apparato burocratico dei funzionari e persino degli impiegati accusati di collusione con il regime del defunto Rais aveva richiesto uno sforzo organizzativo non minore di quello che aveva accompagnato la pianificazione della ricostruzione materiale e istituzionale dello Stato. Critici e spesso infruttuosi si erano rivelati i tentativi di mettere al sicuro le porose frontiere sahariane, zona franca per guerriglieri tuareg attivi nel fragile Mali, trafficanti d’armi e quelle cellule di Al Qaeda responsabili nel gennaio 2013 del sanguinoso assalto al centro petrolifero di In Amenas, nell’Algeria orientale. Il tutto senza far menzione delle – sfortunatamente – fallimentari politiche volte a risolvere i due più rilevanti ostacoli alla definitiva pacificazione dello Stato: il mancato inquadramento in un esercito regolare della costellazione di milizie armate sorte dalla rivoluzione del 2011 e la ricostruzione di un rapporto di cooperazione e fiducia tra le due anime storiche del Paese, la Tripolitania e la Cirenaica.
La Cirenaica stessa appare sotto molto profili la vera chiave di volta per la comprensione della complessità dello scenario libico. Ricca delle materie prime energetiche che hanno a lungo rappresentato la principale se non unica fonte di reddito delle casse statali, la regione di Benghazi ha paradossalmente sofferto nei lunghi decenni della dittatura di Muammar Gheddafi una cronica mancanza di risorse economiche dovuta al dirottamento delle rendite petrolifere su Tripoli e suoi clan fedeli alla Guida della Rivoluzione quali i Warfallah. Una stortura che non ha trovato piena soluzione nemmeno a seguito dell’atteso regime change e che, scontatamente, ha inasprito il risentimento dell’oriente verso la Capitale e le ricostituite strutture istituzionali, finendo così per alimentare la retorica dei movimenti federalisti di natura pacifica e insurrezionale. Rispondono a quest’ultimo tipo le brigate della Petroleum Facilities Guard guidate da Ibrahim Jadhran, figura in grado di riassumere su se stesso il ruolo di intransigente guerrigliero disposto a occupare manu militari la totalità delle hub portuali cirenaici e quello di leader carismatico di una battaglia federalista che nel novembre scorso l’ha portato ad auto-proclamare la nascita del proprio governo locale, il Political Bureau of Cyrenaica. Jadhran, a detta dell’accusa, sarebbe il destinatario delle tangenti che il premier Zeidan avrebbe voluto usare per sollecitare la riprese delle attività estrattive poste in stato di arresto.
È, tuttavia, nella componente più pacifica del movimento di protesta cirenaico e nei rapporti coltivati da quest’ultimo con il capo del governo che sembrerebbero emergere motivazioni le sostanziali e meno pretestuose che spiegherebbero le ragioni del recente golpe istituzionale. Nello specifico, le motivazioni andrebbero ricercate nei timori manifestati dalla Fratellanza musulmana in corrispondenza della progressiva legittimazione storico-politica concessa da Zeidan alle figure di spicco della famiglia Al Senussi. Oltre a promuovere rivendicazioni autonomistiche tramite il Cyrenaica Transitional Council, soggetto antitetico al Bureau di Jadhran, gli esponenti di rilievo del movimento Senussita risultano essere i diretti eredi di re Idris I, il sovrano che traghettò la Libia nel processo di decolonizzazione post-bellico, favorendo la creazione delle prime istituzioni rappresentative nelle storia del Paese. Deposto dal colpo di Stato militare di Gheddafi nel 1969, re Idris si era fatto alfiere di quell’interpretazione degli insegnamenti coranici che risponde al movimento sufita, una scuola filosofica che affonda le sue origini negli albori medievali della storia islamica. Trattasi di una dottrina dai caratteri mistici tradizionalmente diffusa in buona parte dei Paesi che costituiscono la ummah musulmana, diversificata nelle sue molte correnti nazionali, ma resa coesa da un comune approccio di tolleranza religiosa e diffidenza verso le interpretazioni delle sacre scritture che vorrebbero una piena identificazione tra teologia, diritto, clero e politica. Un impianto ideologico particolarmente presente nel Maghreb che proprio nella Libia ottomana, coloniale e poi monarchica aveva trovato maggior fioritura e, al contempo, un impianto ideologico ostensibilmente avverso a quello propagandato dalla Fratellanza musulmana, responsabile di diversi, recenti, attacchi ai centri di culto sufiti.
L’inedito asse con i sufi e la prospettiva di una loro riaffermazione capillare su scala nazionale hanno costituito con grande probabilità la veritiera causa della defenestrazione di Zeidan. Già oggetto il 5 settembre scorso di un sequestro da parte di miliziani integralisti che lo accusavano di diretto coinvolgimento nella extraordinary rendition americana di Al Liby, attuale numero due di Al Qaeda, l’ex premier ha risposto all’inatteso voto di sfiducia allontanandosi dal Paese con un volo privato, ma benché il parlamento abbia già provveduto a nominare il ministro della difesa Abdullah Al Thinni vertice provvisorio dell’esecutivo per le prossime due settimane, la tensione interna rimane altissima.
La dinamica energetica e il coinvolgimento dell’Occidente
Non diversamente dal suo predecessore, Al Thinni non dispone degli strumenti politici e materiali per affrontare le problematiche già citate. Ciò si configura come una diretta conseguenza dell’evidente sbilanciamento dei poteri istituzionali in favore dell’organo legislativo, una misura preventiva volta a scongiurare il pericolo di governi forti e potenzialmente in grado di trasformarsi in nuove dittature. Posta in evidenza dai fallimenti registrati nell’ultimo biennio, la limitatezza delle effettive capacità esecutive del gabinetto Zeidan era apparsa ancor più evidente nel corso della recente crisi che aveva visto coinvolto un mercantile petrolifero battente bandiera nordcoreana e operante per conto di una compagnia del Golfo. La nave, accusata di aver caricato illegalmente petrolio di proprietà per il 41% del consorzio americano Marathon in, era riuscita lo scorso 8 marzo ad abbandonare uno degli scali portuali controllati dai ribelli nonostante il primo ministro avesse impartito alle forze aree nazionali espresso ordine di fermarla con ogni mezzo. Ridotto all’impotenza e costretto a richiedere il comunque non risolutorio intervento delle milizie di Misurata, Ali Zeidan aveva dovuto assistere come mero osservatore alle operazioni di ripiego dei Navy Seals americani che nella giornata successiva – su espresso ordine del presidente Obama – erano riusciti a prendere il controllo del naviglio, privo di bandiera nordcoreana (e dunque considerabile nave pirata) e ormai catturabile in quanto lontano dalla giurisdizione delle acque territoriali libico.
L’assenza di un potere esecutivo in grado di adottare provvedimenti risolutori costituisce il più evidente limite alle capacità delle forze laiche e moderate di affrontare le sfide del processo di state-building e quelle poste dall’attivismo dei Fratelli musulmani. Non sorprende, dunque, apprendere dell’ufficiale richiesta di aiuto che il governo provvisorio ha lanciato alle Nazioni Unite e per diretta conseguenza all’intera comunità internazionale il 20 marzo scorso. Pur senza specificare in che termini ciò debba concretizzarsi, appare evidente che tale appello si configuri come un invito a trasformare l’indiretto sostegno logistico finora prestato dalla missione Unsmil in un aperto intervento di peace enforcement che coadiuvi le forze militari nelle operazioni di controllo e repressione dei focolai di rivolta. L’appello, anche in virtù dei recenti avvenimenti nell’est europeo, potrebbe incontrare una positiva e rapida risposta. Se il quadro delle relazioni dell’Occidente con la Russia dovesse peggiorare al punto da sfociare in una drastica interruzione dei rapporti commerciali, l’Europa – e con essa l’Italia – si troverebbe costretta ad affrontare un macroscopico razionamento degli approvvigionamento energetico capace di compromettere qualsivoglia speranza di oltrepassare definitivamente gli effetti della perdurante crisi economica e produttiva. Una prospettiva che accrescerebbe a dismisura il già rilevante ruolo della Libia e dell’Algeria quali fornitori privilegiati – e obbligati – del mercato europeo e, per diretta conseguenza, un incentivo a garantire con ogni mezzo la sicurezza di tali rifornimenti.
Conclusioni
Le concrete possibilità di un coinvolgimento militare esterno, il vivo interesse dei Fratelli musulmani a preservare le proprie posizioni di comando e le trasversali manifestazioni di solidarietà raccolte dall’ex premier Ali Zeidan negli ambienti politici e paramilitari di Zintan, Sabrat, Zuara, nonché dalla stessa Tripoli, lasciano presagire una prossima resa dei conti tra la complessità degli attori coinvolti. Un confronto aperto e risolutorio che si muoverebbe su almeno tre dei diversi piani ideali nei quali si concentrano le tensioni del Paese. Il primo luogo il piano delle tensioni tribali: pur a fronte di una massiccia urbanizzazione, la presenza di clivage clanici nella società libica è stata rivitalizzata dal conflitto del 2011 al punto da cristallizzare alcune pericolose rivalità locali particolarmente evidenti nel contesto della Tripolitania. I contrasti tra Misurata e Zintan o quelli tra Zawya e Washfana nascondono un potenziale di esplosività che, se fatto detonare, potrebbe trascinare la Libia in una seconda guerra civile con esiti catastrofici per la popolazione civile e per le già provate infrastrutture nazionali. Non meno pericoloso appare il piano istituzionale, nel quale i sostenitori di una configurazione federale dell’architettura statale si oppongo a coloro che promuovono il mantenimento dell’attuale status quo centralista. L’incapacità di trovare una sintesi tra le due posizioni è all’origine dell’occupazione militare con cui i miliziani di Jadhran impediscono l’accesso dei governativi e dei loro partner commerciali occidentali ai porti della Cirenaica, una dinamica divenuta ormai insostenibile per entrambi. Infine, il fondamentale piano ideologico-religioso: minacciati dalla ricostituzione del movimento sufista, privati di buona parte dei propri sostenitori e finanziatori stranieri e posti in condizione di minoranza nella composizione del recentemente eletto comitato costituzionale dei Sessanta, i Fratelli Musulmani hanno reagito alla prospettiva di una possibile sconfitta nella prossima tornata elettorale legislativa di luglio con quello che può definirsi, probabilmente, un golpe bianco contro il governo Zeidan.
Un quadro complessivo che potrebbe presto dar luogo a un’escalation di violenza capace d’infiammare nuovamente la Libia e con essa l’intero quadrante mediterraneo. Con gravi conseguenze per le nazioni rivierasche dell’Europa Meridionale e buona pace dei propositi di normalizzazione geopolitica che circondavano il segretario di stato americano John Kerry e il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov nel meeting in tema di Libia tenutosi a Roma soltanto poche settimane fa.