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La “globalizzazione dell’insicurezza”. Una lettura dell’ultimo libro di Alessandro Colombo

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Che tipo di globalizzazione stiamo realmente vivendo dalla fine della Guerra fredda in poi? La riflessione di Alessandro Colombo, nel suo ultimo lavoro intitolato Il governo mondiale dell’emergenza, sembra essere incentrata su questo interrogativo, che ha caratterizzato anche altri suoi lavori come Tempi decisivi – che si soffermava sul tema della crisi – e La disunità del mondo – che affrontava il discorso della globalizzazione mettendone in luce le disarticolazioni e le dinamiche divisive che, al di là della più semplicistica retorica, essa naturalmente comporta.

In questo lavoro l’autore porta all’attenzione del lettore una lettura alternativa dell’ordine liberale post-Guerra fredda: ben lungi da quanto pronosticato e immaginato da illustri teorici come Francis Fukuyama e Kenichi Ohmae negli anni Novanta, che immaginavano un futuro di superamento della logica geografico-statuale in una prospettiva di kantiana pace perpetua, il cosiddetto ordine post-bipolare è in realtà coinciso con un disordine globale e con un continuo, incessante e pervasivo profilarsi di crisi, emergenze e allerte che, proprio in virtù dell’affermazione della scala globale, hanno unito il mondo sotto il segno dell’incertezza.

Insicurezza post-‘89

Se letta sotto questa chiave di lettura, dunque, la globalizzazione successiva al 1989 è una sorta di condivisione non di una prospettata pacificazione globale innervata sugli Stati Uniti, ma un progressivo vortice di insicurezza globale, capace di innescare irrimediabili paradossi che coinvolgono tanto la sfera individuale quanto quella collettiva. Se, infatti, il decennio successivo al conflitto bipolare aveva plasmato l’idea di un mondo pacificato e senza più la necessità di tener conto di divisioni statuali e di appartenenze nazionali, in virtù del predominio del modello politico ed economico incarnato dagli Usa, quanto avvenuto dal 2001 in poi ha rappresentato il tentativo di mantenere quell’ordine fragilmente stabilito negli anni Novanta nonché l’ingenua, quanto drammatica, esplosione della conflittualità e dell’instabilità derivanti dal tentativo di preservare il “momento unipolare”.

Tutta la strategia statunitense dalla fine della Guerra fredda in poi, sia di marca democratica sia repubblicana, in un richiamo costante a quel decennio irripetibile, è stata infatti tesa a contrastare e contenere le minacce esterne all’ordine unipolare per garantire una sicurezza internazionale in realtà impossibile da mantenere. Nell’individuazione di minacce esterne non più ai propri confini, ma a un presupposto ordine globale – la minaccia terroristica, quella delle fake news, del virus, del terrore, dell’ISIS, della Russia o della Cina –, si è stabilito un nuovo principio delle relazioni internazionali, secondo cui non sono più i confini tradizionali a stabilire l’azione dello Stato, ma principi di ordine più vago, di una sicurezza vaga da mantenere, in cui le minacce non sono più quelle esterne alle frontiere nazionali ma quelle esterne a un “ordine globale”, tali per cui l’emergenza diviene continua e la necessità difende l’ordine diviene altrettanto globale, diffusa, fluida.

Le sfide all’ordine unipolare

La “globalizzazione delle sfide”, che in realtà coincide geograficamente con il mondo occidentale e il blocco Nato, si è delineata dal 2001 prima con l’attacco dell’11 settembre, poi con la crisi economica, con la Primavera araba e l’affermazione dell’Isis, con la pandemia da Covid-19, con l’emergenza ambientale o climatica e con la guerra in Ucraina. In tale susseguirsi di crisi e di emergenze, il tentativo è stato quello di una condivisione globale (o meglio, occidentale) di tali minacce, appaltando di volta in volta la decisione a organismi sovrannazionali, agenzie di rating, attori privati, tecnici o esperti, oppure a coalizioni di Stati che annacquavano nei fatti la diretta responsabilità politica.

È questo il caso della “guerra globale al terrore”, che per definizione è stata incerta nell’obiettivo, nelle modalità di conduzione e nell’area di riferimento, oppure della stessa guerra in Ucraina, in cui alla sfidante Russia si risponde con l’invio di armi all’Ucraina e non con un impegno diretto sul campo. L’impiego di attori non-statuali e non-politici è invece stato ancor più evidente nella “guerra al virus” (in cui non casualmente la dialettica usata è stata quella propria dei contesti bellici), in cui hanno agito primariamente gruppi di tecnici e comitati tecnico-scientifici, o nell’emergenza ambientale, in cui gli Stati recepiscono passivamente le indicazioni fornite da consessi sovrannazionali.

Fake news e media 

Ancor più emblematico del clima diffuso di insicurezza collettiva e di indefinitezza degli attori in campo è la guerra fluida e permeante alla disinformazione e alle “fakenews”, che contribuisce alla sorveglianza continua: un campo, questo, in cui l’allarmismo è continuo e globale, per il quale si impiegano risorse e mezzi che altro non fanno se non alimentare il senso di insicurezza e stringere sempre di più le maglie del controllo statuale su cittadini e collettività, contribuendo inoltre a eradicare il senso critico e a costruire, al suo posto, un pensiero mediano e “omologato”, tema su cui l’autore torna a più riprese.

La riflessione sul ruolo che la tecnologia svolge non può dunque che farsi critico, agli occhi di Colombo: essa non è il mezzo che contribuisce a unire il mondo, come si immaginava con la diffusione di internet, della comunicazione di massa, dei social network, ma lo strumento ideale per alimentare un senso diffuso di insicurezza e innescare il relativo controllo, in una commistione sempre più indefinita tra Stato e organismi privati, per fugare le minacce a quell’ordine globale post-bipolare che sempre più appare nella sua reale natura: un mondo caotico in cui, paradossalmente, la ricerca di sicurezza produce continuamente e irrimediabilmente ulteriore insicurezza.

Il libro: Alessandro Colombo, Il governo mondiale dell’emergenza. Dall’apoteosi della sicurezza all’epidemia dell’insicurezza, Milano, Raffaello Cortina, 2022, pp. 221.

Alessandro Ricci

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