A dispetto delle più utopistiche teorie sulla globalizzazione che avevano trovato ampio eco negli anni Novanta e che erano il frutto di un mondo che sembrava destinato a uniformarsi al modello statunitense uscito vincitore dal confronto col colosso sovietico, la realtà emersa dalle ceneri di quella breve fase di globalizzazione è assai più caotica, critica e conflittuale di quanto ci si potesse aspettare. Se infatti, in buona parte di quelle teorie espresse da politologi dell’Occidente allargato si prospettava l’avvio di un mondo pacificato e senza più barriere, a conti fatti non si osservava quanto già il sistema mondiale emergente negli anni Novanta fosse già intriso di barriere e di dinamiche territoriali e identitarie destinate a deflagrare di lì a poco, come poi effettivamente avvenne in maniera dirompente dal 2001 in poi.
La stessa globalizzazione sembra essere figlia anzitutto di un primo equivoco concettuale: quello che ritenevamo essere un mondo globalizzato e unitario era in realtà solo una certa versione più estesa di un solo e unico modello di riferimento, quello incardinato sugli Stati Uniti e che vedeva nella centralità del mercato capitalistico un fulcro della nuova realtà mondiale. Sia nella sua versione economica – di scambi commerciali e finanziari – sia in quella politica e di relazioni internazionali, quella che ci siamo ostinati a definire come “globalizzazione” appariva infatti come il prodotto di una visione profondamente incentrata sul modello occidentale, incapace di concepire ciò che ribolliva all’esterno dei confini a noi più noti.
Questo lo si era in realtà già visto negli anni Novanta, che ancora oggi vengono interpretati come il momento più fulgido e rappresentativo di quella stessa fase della globalizzazione. Un esempio su tutti è rappresentato dalla guerra nei Balcani occidentali: una decennale guerra fratricida nel cuore dell’Europa e che, sebbene con un qualche rilievo mediatico, quasi venne dimenticata dalla storia, tanto che ancora oggi nella comune e stucchevole retorica eurocentrica sui 70 anni di pace si dimentica di menzionarla. Eppure, fu una guerra intra-europea, prolungata e che fece riemergere barriere, confini e identità latenti riscoppiate proprio mentre il mondo sembrava – sempre agli occhi occidentali – avviato verso destini globalizzati.
Il paradosso vuole che le teorie di una fine della storia, come sequenza di eventi traumatici e conflittuali (si veda Francis Fukuyama) così come quelle del superamento dei confini e degli Stati nazionali (Kenichi Ohmae) furono elaborate proprio in quegli anni Novanta che vedevano il ribollire di conflitti dettati proprio da un profondo riemergere del fattore identitario nazionale e delle appartenenze confessionali.
Tanto che il secondo equivoco della globalizzazione è rappresentato proprio da un falso presupposto della globalizzazione, derivante ancora una volta da una prospettiva geografica molto parziale. Si era infatti ritenuto che, in virtù degli altri equivoci menzionati – più unità mondiale e meno confini – si sarebbe inevitabilmente andati verso un mondo meno conflittuale e più pacifico. Non a caso la stessa guerra in Ucraina viene spesso descritta come un “errore della storia” più recente, quasi fosse un fulmine a ciel sereno negli ultimi trent’anni di storia. Anche in questo caso, però, una certa retorica incentrata sul mondo dell’Occidente allargato dimentica quanto avvenuto dagli anni Novanta in poi nei Balcani, nel contesto africano, gli interventi militari (tutti occidentali) in Afghanistan e in Iraq, quelli nel Medio e nel vicino Oriente nel corso della cosiddetta Primavera araba, compreso in quei contesti la cui destabilizzazione si è ripercossa proprio contro il nostro territorio – italiano ed europeo – come i casi di Libia e Siria stanno a indicare.
Il terzo grande equivoco della globalizzazione è relativo proprio al presunto venir meno dei confini. Certo, il crollo delle barriere che dividevano gli emisferi mondiali, incarnato dall’epifenomeno dell’abbattimento del Muro di Berlino, aveva fatto ben sperare. Senza dubbio era lecito aspettarsi il progressivo sgretolamento dei confini nazionali in virtù di un sempre più stringente rapporto di connessione tra le economie nazionali e ancor di più a livello macroregionale, così come lo stagliarsi di internet a livello mondiale faceva presupporre una maggiore capacità di connessione globale, non solo economico-finanziaria ma anche umana e interpersonale. Al tempo stesso, però, concentrati com’eravamo sui destini mondiali che noi stessi – in quanto Occidente allargato – ritenevamo di poter imprimere, non vedevamo, o meglio facevamo finta di non vedere, quanto in realtà il mondo intero e le dinamiche geopolitiche continuassero a ruotare attorno agli stessi perni fondamentali della storia umana.
Ben al di là delle capacità che la tecnica offriva, gli stessi elementi che furono individuati dai più eminenti esponenti del realismo politico (e geopolitico) in differenti connotazioni e contesti, da Niccolò Machiavelli a Giovanni Botero, da Jean Bodin a Thomas Hobbes, di crucialità dell’interesse personale e nazionale, l’importanza del fattore identitario e di appartenenza, l’inevitabilità del conflitto che deriva dalla natura umana e dalla preminenza di tali fattori, permeavano ancora la realtà mondiale che pensavamo globalizzata. La cruda verità è che non si trattava di una vera globalizzazione, ma di una forma estesa di “occidentalità” politica ed economica.
Lo stesso errore di non voler ammettere che non tutto il mondo desiderava andare nella medesima direzione impressa dal blocco occidentale, che non aveva acquisito le stesse lenti interpretative delle relazioni internazionali e, soprattutto, che non tutta la realtà mondiale intendeva uniformarsi al modello statunitense, continuiamo a commetterlo ancora oggi.
Questo lo osserviamo nell’offuscamento mediatico – o, nella migliore delle ipotesi, nel fortissimo ridimensionamento – del vertice dei BRICS che si è tenuto a Johannesburg tra il 22 e il 24 agosto scorso, in cui si annunciava l’inedito e rilevante allargamento ad Arabia Saudita, Argentina, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia e Iran. Lo vediamo nelle continue domande sull’assenza di Xi Jiping all’ultimo G20, trascurando forse quella più rilevante e che meno ci aggrada: cioè che è stata dovuta probabilmente al tentativo di Pechino di lanciare un messaggio di vicinanza indiretta a Mosca. Lo ravvisiamo poi nel continuare a non voler comprendere le ragioni profonde della guerra in Ucraina, adducendo motivazioni spesso fantasiose all’intervento militare del 24 febbraio dello scorso anno. In tutte queste fasi che appaiono cruciali per la rivisitazione degli assetti di forza e degli equilibri a livello regionale e globale, il mondo sta inevitabilmente cambiando volto.
La globalizzazione che – come si è sommariamente visto – non è mai stata tale, sta mutando i suoi connotati: ormai ingenti porzioni della realtà mondiale (i BRICS dal 2024 rappresenteranno il 47% della popolazione mondiale e il 36% del PIL mondiale), perseguono una strada che sembra andare verso una nuova direzione, seguiti da un rapporto che appare fondato su diversi presupposti con il Sud del mondo. Basti pensare a quanto le rivolte nel Sahel stiano a disegnare una nuova traiettoria di “post-neoecolonialismo”.
Anche se nei media occidentali ne trascuriamo il reale impatto o preferiamo fingere di non vederlo. Così come dobbiamo rivedere per sempre la categoria di globalizzazione: non un mondo più uniforme, ma più sfaccettato, più diviso, più pregno di barriere e tremendamente più conflittuale.