Il 3 aprile le autorità giordane hanno comunicato l’arresto di una ventina di personalità di spicco, provenienti dall’establishment della sicurezza, dai ranghi tribali e dalla corte reale. Tra le figure coinvolte più note compare l’ex Principe ereditario, Hamzah bin Hussein, il quale in un video preregistrato trasmesso dalla BBC ha dichiarato di essere stato messo agli arresti domiciliari. Le autorità giordane non hanno mai parlato di colpo di Stato, bensì di indagini volte a interrompere azioni contrarie alla “stabilità e alla sicurezza” del Regno. Pertanto, sono ancora molti gli interrogativi che devono essere risolti per fare piena chiarezza su tale vicenda.
Il Principe Hamza, leader golpista o vittima inconsapevole?
Per sbrogliare almeno parzialmente la matassa è necessario partire dalla testimonianza di uno dei maggiori protagonisti di questa vicenda, l’ex Principe ereditario Hamzah bin Hussein. In un video trasmesso dalla BBC, il Principe compare dalla sua residenza di Amman. Secondo la sua ricostruzione, nella mattinata del 3 aprile avrebbe ricevuto una visita del Chief of General Staff, Yousef Huneiti, il quale gli avrebbe notificato la notizia dei suoi arresti domiciliari e del divieto di intrattenere comunicazioni con l’esterno. La decisione sembra essere stata condivisa con l’intero establishment della sicurezza: le forze armate, la polizia e il General Intelligence Directorate (GID), il servizio di intelligence giordano. Nelle ore successive, tuttavia, lo stesso Huneiti ha pubblicato un comunicato in cui ha smentito parzialmente la ricostruzione sopradescritta. Il capo delle forze armate giordane ha affermato che Hussein non si trova agli arresti domiciliari, pur confermando la sua visita nella mattinata del 3 aprile e la richiesta di cessazione di attività contrarie alla stabilità e la sicurezza del Paese.
Nel corso dello stesso video il Principe Hamzah ha ribadito le sue critiche alle “strutture di governo” del Regno, riferendosi implicitamente sia al governo che alla Corte reale. Ha parlato di una corruzione e inefficienza endemica che ha colpito la Giordania negli ultimi 15-20 anni, causa dello scollamento tra le istituzioni e la popolazione. Il Principe ha continuato la sua invettiva sostenendo che nel Paese si sta progressivamente assottigliando la libertà d’opinione e di espressione, con arresti, molestie e minacce che sono all’ordine del giorno. È proprio quest’ultimo il passaggio su cui è necessario focalizzare l’attenzione, per comprendere le motivazioni che hanno portato alla limitazione della libertà di Hamzah bin Hussein. Infatti, varie ricostruzioni sostengono che nelle ultime settimane il Principe avrebbe intrattenuto incontri con alcuni importanti leader tribali giordani che gli avrebbero concesso il proprio sostegno. Potrebbe essere stata questa la red flag che ha fatto scattare l’allarme negli apparati giordani e indirettamente nel Re Abdullah II, che potrebbero aver tentato di bloccare sul nascere l’emersione di un blocco dissidente interno al regime, interessato ad esautorare l’attuale regnante. Si ricordi, infatti, che Hamzah bin Hussein è una figura molto popolare nel Paese. Si tratta del fratellastro di Abdullah II, nonché Principe ereditario dal 1999 al 2004, anno in cui Abdullah II lo ha destituito dalla successione alla corona a favore del suo giovane primogenito, il Principe Hussein. Nella giornata del 4 aprile, inoltre, il Vice-Primo Ministro, Ayman Safadi, ha tenuto una conferenza stampa in cui ha spiegato le motivazioni dietro gli arresti. Tra queste ci sarebbero anche dei contatti tra Hamzah e non meglio specificate entità esterne. Anche la moglie avrebbe collaborato al piano. Da capire, tuttavia, se si tratta solo di elementi provenienti dall’opposizione giordana residente all’estero o di servizi di intelligence stranieri.
Arresti illustri, trame internazionali e misure anti-golpiste deterrenti
Tra gli arrestati figurano alcune delle personalità più vicine al Principe Hamzah, come Yasser Suleiman al-Majali, a capo del suo ufficio, ma anche figure illustri come Bassem Ibrahim Awadallah. In passato Awdallah è stato tra i più stretti collaboratori del Re Abdullah II, ricoprendo la carica di capo del suo ufficio dal 2006 e di capo della Corte reale hashemita dall’anno seguente. Inoltre, ha servito anche come Inviato speciale in Arabia Saudita, ed è ritenuto una figura molto vicina ai reali sauditi. Proprio questa sua vicinanza a Riad ha dato adito a congetture che farebbero ricadere la paternità della trama cospirativa ad attori esterni.Una lettura che, tuttavia, per il momento non trova alcuna evidenza fattuale, tanto che tutti i maggiori paesi della regione si sono espressi a sostegno di Abdullah II: dall’Arabia Saudita agli Emirati Arabi Uniti, passando per il Consiglio di Cooperazione del Golfo e la Lega araba. Anche gli Usa, tramite il portavoce del Dipartimento di Stato, Ned Prince, hanno ribadito il loro sostegno all’attuale regnante. Non è quindi chiaro a quale entità straniera si riferisse Safadi.
Mettendo insieme le scarse informazioni emerse fino ad ora, non emergerebbe un vero e proprio colpo di Stato in atto né una chiara ingerenza di attori internazionali. Più che di un golpe si potrebbe trattare del tentativo della corona stessa di anticipare, sopprimendole sul nascere, future trame cospirative che potrebbero coinvolgere una fazione critica della famiglia reale stessa, magari con il supporto di influenti leader tribali e attori esterni. Quindi, una misura anti-golpista deterrente, posta in essere in assenza di un pericolo attuale e imminente all’integrità della corona giordana, bensì volta a dissuadere determinati ambienti dall’intraprendere crociate anti-sistema volte a cavalcare il malcontento popolare acuito dalla crisi pandemica. A conferma di ciò, due elementi. In primo luogo, su un piano formale, la scelta lessicale fatta dalle autorità giordane per comunicare l’ondata di arresti, definita come una misura atta a disinnescare azioni contrarie alla “stabilità e sicurezza” del Paese. Mai si è parlato in maniera esplicita di un tentativo di colpo di Stato. In seconda battuta, una considerazione ben più sostanziale. I vertici degli apparati di sicurezza del Regno hashemita si sono mostrati compatti nel sostegno a tali misure cautelative. È inverosimile, pertanto, che ci fosse un reale disegno golpista privo del sostegno attivo di una porzione delle forze armate o degli altri apparati di sicurezza del Regno.
In definitiva, quindi, è possibile che si sia trattato di un affare di palazzo, tipico di sistemi istituzionali come quello giordano che si reggono su fragili equilibri da corte rinascimentale. Un evento assimilabile all’ondata di arresti del Ritz-Carlton dell’autunno 2017, quando il Principe ereditario dell’Arabia Saudita, Mohammed bin Salman (MbS), fece rinchiudere nell’hotel di lusso svariati membri della famiglia reale saudita, accusandoli di corruzione. Una mossa che gran parte degli analisti hanno interpretato come un tentativo di MbS di rafforzare il proprio status in via preventiva, in vista della sua futura ascesa al trono. La Storia, fin dall’antichità, è ricca di congiure inventate, auto-inflitte o soppresse sul nascere a uso e consumo del potere costituito, interessato a serrare i ranghi in fasi di crisi.
Crisi di legittimità interna e marginalizzazione internazionale: il futuro del Regno è incerto
Si faccia attenzione. Pur ridimensionandone la portata contingente, gli eventi appena presentati non possono essere derubricati a mero affare di famiglia. Pertanto, per comprenderne appieno il significato è necessario allargare la prospettiva, inserendo tali avvenimenti all’interno della fase storica e politica che sta attraversando il Regno hashemita da un decennio a questa parte: una fase di endemica crisi di identità, sia sul piano domestico che internazionale, che nel medio e lungo periodo ne riduce la probabilità di sopravvivenza. Le Primavere arabe scoppiate nel 2011, pur lambendo solo marginalmente Amman, hanno in realtà posto un pesante interrogativo sulla sostenibilità del modello giordano che, anche a causa di un mutamento complessivo degli equilibri regionali, sembra aver perduto la propria ragion d’essere. Da quel momento in avanti si è aperta per il Regno hashemita una fase di riflessione su due livelli attraverso cui Amman sta tentando timidamente di abbandonare schemi del passato che non sembrano più funzionare.
Su un piano domestico, la corona hashemita dovrà ripensare il patto costituente su cui ha fondato la propria autorità nei decenni passati. Un modello tradizionale che si fonda su due fonti di legittimazione distinte. La prima, la discendenza diretta dal profeta Maometto, propria della dinastia hashemita, regnante in passato anche in Siria e in Iraq. Un’autorità di derivazione religiosa a cui la corona giordana non può rinunciare al fine di giustificare la sua stessa esistenza. Proprio a ciò si lega la rinnovata attenzione di Amman per lo status della Spianata delle Moschee di Gerusalemme, terza città santa per l’Islam, la cui custodia è affidata alla casa reale hashemita, che pertanto percepisce tale dossier come un affare di sicurezza nazionale. I recenti interessamenti di Turchia – su spinta palestinese – e Arabia Saudita – favorita da Israele come una pedina di scambio per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche – per mettere le mani sui luoghi sacri gerosolimitani hanno allarmato non poco Amman, che non può permettersi di perdere anche il controllo di al-Aqsa dopo aver perso ad opera dei Saud la custodia di La Mecca e Medina nel 1925. La seconda fonte di legittimazione è di carattere sociale, e riguarda il legame con il tessuto tribale, quindi con il territorio, su cui si reggono anche le altre istituzioni che affiancano la corona reale nell’impianto istituzionale del Regno: dal governo al Parlamento sino agli apparati di sicurezza, con una selezione della classe dirigente che avviene per cooptazione. La spinta popolare sta mettendo in discussione tale modello, come si evince dai consensi che negli ultimi tempi sta raccogliendo la branca locale della Fratellanza musulmana, unico movimento politico di massa del Paese, messa fuori legge nel luglio scorso da una sentenza della Cassazione.
Sul piano internazionale, la Giordania sta subendo un processo di progressiva marginalizzazione, acuito dalla firma degli Accordi di Abramo, che ne hanno ridimensionato il ruolo agli occhi degli Usa e di Israele. La classica posizione di moderazione – emersa sin dai negoziati segreti con gli israeliani nei mesi precedenti alla Guerra arabo-israeliana del 1948 e poi manifesta dall’Accordo di pace israelo-giordano del 1994 – è sempre meno spendibile dinnanzi a un processo di generale avvicinamento tra il mondo arabo e lo Stato ebraico. Amman sta perdendo l’esclusiva nell’interlocuzione con il vicino israeliano a favore dei più ricchi attori del Golfo. Non a caso, in concomitanza con la nascita del formato di Abramo, Amman ha irrigidito la propria posizione a favore dei palestinesi, per crearsi un nuovo spazio politico-diplomatico che possa farle recuperare terreno all’interno della nuova competizione intra-araba. Una rivalità che scorre sulla direttrice Nord-Sud, Levante-Penisola arabica, come è stato almeno dalla Prima Guerra mondiale, quando gli arabi sceriffiani, appunto hashemiti, guidarono la Grande Rivolta araba di matrice britannica contro l’Impero ottomano e gli arabi levantini, in gran parte rimasti fedeli a Costantinopoli.
Due sono le direttrici su cui Amman sta tentando di innestare un nuovo corso di politica estera. Da un lato, l’obiettivo è quello di approfondire la propria postura filo-occidentale. Risale al 31 gennaio, ad esempio, la firma di un accordo di cooperazione in materia di difesa con gli Usa. La nuova intesa faciliterà il trasferimento di uomini e mezzi americani su suolo giordano, di fatto rendendo il Regno hashemita una piattaforma su cui gli americani potranno muoversi indisturbati. Infine, nell’ultimo anno sta prendendo forma un allineamento trilaterale con l’Egitto e l’Iraq, definito dal premier iracheno Kadhimi il Nuovo Mashreq. Lo scorso agosto è stato creato un segretariato congiunto a livello di Ministeri degli Esteri e gli incontri al più alto livello politico sono sempre più frequenti. L’obiettivo immediato è quello di esplorare forme di cooperazione economica, energetica e infrastrutturale. Nel medio periodo, tuttavia, è probabile che i tre Paesi, attori protagonisti negli anni della Guerra fredda, possano approfondire le relazioni strategiche per evitare il loro declassamento a comparse dinnanzi allo spostamento del baricentro di potere del mondo arabo dalle parti del Golfo.
Pietro Baldelli
Geopolitica.info