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TematicheMedio Oriente e Nord AfricaVecchi nemici e affari di famiglia

Vecchi nemici e affari di famiglia

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Nel 2020, con l’obiettivo di offrire per 12 mesi un percorso non solo militare ma anche tecnico professionale, il governo giordano ha espresso l’intenzione di voler ripristinare la leva per i disoccupati di età compresa tra i 25 ed i 29 anni, assicurando un compenso pari a 120 euro mensili; si tratta ovviamente di un palliativo che rimarca la gravità della situazione sostenuta dagli aiuti del FMI con 400 milioni di USD, ma comunque resa più difficile dalla contrazione dei finanziamenti elargiti da Arabia Saudita e Paesi del Golfo, necessari al mantenimento della diplomazia economica saudita e della solidità finanziaria giordana.

Il bilancio, a lungo adulterato dagli aiuti internazionali, è di fatto divenuto insostenibile.
Non a caso il rapporto della Banca Mondiale del 7 ottobre 2021 ha evidenziato un peggioramento della situazione economica derivante dal calo delle entrate da turismo e dazi all’importazione, dai prezzi dell’energia e dalle misure fiscali e umanitarie adottate per fronteggiare la pandemia. 
Tra la fine del 2021 ed il 2023 il rapporto tra debito pubblico e PIL raggiungerà presumibilmente il 115,2 %, un tasso che renderà difficile per il governo giordano richiedere ulteriori prestiti. Infine, l’intento iraniano di realizzare una sfera d’influenza tra Teheran e Libia passando per Iraq e Siria induce all’ennesima preoccupazione Re Abdullah, che deve impedire l’avanzata delle milizie sciite mantenendo salda l’alleanza con USA e Arabia Saudita, evitando però di chiedere la deposizione del Presidente siriano, visto che la Siria potrebbe tornare ad essere uno dei principali partner commerciali nonché detentrice del porto di Latakia; il tutto senza mettere in gioco indipendenza politica e sovranità, per l’integrità della quale si sono temute le dinamiche azionate dall’affaire che ha visto protagonista il Principe Hamza, fratellastro del Re, che ha visto svanire il trono per la sua giovane età benché fosse il prediletto di Re Hussein.

Ad Hamza, privato del titolo di erede al trono nel 2004 e sopravanzato da Hussein, figlio di Abdullah, è stato attribuito un complotto durato poco più di 48 ore, ordito con Bassem Awadallah ex alto funzionario del palazzo con cittadinanza USA, un intrigo che parte dell’analisi giordana ha ritenuto eterodiretto da entità politiche regionali ed altra parte ha considerato quale strumento utile per porre in risalto la figura del Re; una congiura che ha indotto Gerusalemme a preoccupazioni securitarie, e che ha tratto ispirazione dalle notizie pubblicate dalla stampa internazionale, riguardanti  investimenti segreti da parte della Corona tramite società operanti in paradisi fiscali. 
Il MO multipolare e post guerra fredda si è rivelato imprevedibile: l’affaire Hamza era già stato preceduto nel 2019 dalla rimozione del vertice dell’intelligence, Adnan Jundi, e dall’allontanamento del consigliere personale del Re, Faisal Jibril Al-Shoubaki. Abdallah non può non essere cosciente del fatto che l’ispirazione che ha mosso Hamza ha dei fondamenti, perché un Paese privo di risorse ma affollato da profughi ha bisogno di riforme e di contrasto alla corruzione. Il problema, semmai, è trovare chi abbia lanciato il Principe all’attacco del Re, salvo poi lasciarlo in balia degli eventi.
Di fatto già il 2020 aveva rivelato turbolenze nell’imminenza del centenario del regno che, nelle elezioni politiche di fine anno, e pur con l’infuriare della pandemia, ha ricercato legittimità e consenso popolari scossi dal peggioramento dei dati macroeconomici.
La consapevolezza dell’esistenza di un quadro politico multipolare, che non potrà mai tornare agli scenari ante covid, ha evidenziato le carenze strutturali giordane, richiede nuove strategie, magari mediando tra Riyadh, Abu Dhabi e Doha, anche alle luce di quelli che si sono rivelati ben più che dei dissidi familiari di cui si è reso interprete Hamza.

C’è del marcio nel Regno creato 100 anni fa da Londra?
Sicuramente c’è l’abitudine all’alternanza di governi che, a protezione della casa reale, procedono a rimpasti frequenti, come quello effettuato per la seconda volta dal 2020 dall’attuale primo ministro, Bisher al-Khasawneh. Se la stabilità giordana deve poter continuare ad essere considerata la chiave di volta dell’architrave politico mediorientale, in cui si ravvede il sostegno offerto da Ankara, non può venir meno la funzione mediatrice della casa hashemita che sembra aver tuttavia perso smalto sia in Israele che nel Golfo, dati i contatti diretti tra i soggetti politici regionali favoriti dagli Accordi di Abramo; in una sorta di disforia politica, Amman, pur apprezzata per stabilità e sicurezza, rischia di ritrovarsi relegata in una posizione periferica e priva del bilanciamento politico ottenuto negli ultimi anni mediando le istanze palestinesi, intrattenendo relazioni con Mosca ma senza incrinare i rapporti con Washington ora sostenuti dall’Amministrazione Biden e rafforzati dall’accordo di difesa del febbraio 2021, e conservando le relazioni con i maggiori attori regionali quali Israele, per i vitali approvvigionamenti idrici ed energetici che hanno caratterizzato buona parte dei conflitti arabo israeliani e che sono stati contestati sia dalla base popolare sia dal Parlamento; Egitto, che ha ospitato incontri trilaterali con la partecipazione palestinese; Iraq per una più ampia cooperazione volta a realizzare una nuova alleanza economica ribattezzata Nuovo Oriente tesa ad esaltare la rilevanza dei porti di Bassora ed Aqaba sul Mar Rosso massimizzando l’uso delle risorse disponibili; Libano per le tematiche connesse all’importazione di gas egiziano tramite l’Arab Gas Pipeline.
Del resto, che nelle corde di Amman non ci siano effettivi intenti bellicosi nei confronti di Gerusalemme, è testimoniato anche dagli incontri che si sono succeduti tra il Presidente Herzog, il premier Bennett e Re Abdallah, e che hanno toccato i consueti problemi idrici, ma anche la Cisgiordania e le relative cointeressenze geopolitiche.

La Giordania rimane dunque un Paese destinato a rimanere in bilico, con una casa regnante impegnata a mantenere in vita equilibri che toccano interessi che uniscono aspetti interni ed internazionali in un’unica trama: convivere con Israele dopo averlo combattuto, mantenere i contatti con Washington e paesi arabi trattando con la Fratellanza musulmana, non è da tutti, è un paradosso di successo sia pur ad un passo dal collasso economico ed istituzionale. In termini giornalistici nostrani, rimanere ancora sulla cresta dell’onda dopo le primavere arabe, è un segno di cerchiobottismo di classe. Forte di una rendita di posizione che negli anni ha supplito alla carenza di risorse, Amman contempla punti di continuità e di discontinuità, dove i rapporti regionali rimangono vitali e dove sulla Corona, periodicamente, aleggia il ricordo della destituzione dello Shah di Persia. I problemi di gestione dinastica e familiare sono, in fondo, comuni all’area: basta vedere quel che è accaduto (ed accade) in Arabia Saudita, dove le dinamiche interne alla casa reale pongono sempre in dubbio la tenuta dello Stato: in linea di massima, estremizzando, i parenti richiedono il pagamento di un prezzo spesso molto caro. La politica di Hussein prima e di Abdallah ora, insegna che l’avvento di personalità inedite mette in pericolo lo Stato, e che è impensabile rischiare per ottenere qualcosa in più: le puntate d’azzardo, su un potenziale terreno di scontro tra sciiti e sunniti creerebbero zone incontrollabili, delle intercapedini dove gli assi delineati non possono essere toccati. In un contesto dove tutti ambiscono a segnare almeno un punto a loro favore, e dove la politica non offre spunti di particolare ambizione, vale sempre il principio del tit for tat.

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