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TematicheMedio Oriente e Nord AfricaLa Giordania tra stabilità e cambiamento

La Giordania tra stabilità e cambiamento

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Il regno giordano costituisce una realtà politica in costante evoluzione, a causa del peggioramento dei fattori economici dovuti alla pandemia e alle proteste sociali scaturite dal malcontento della popolazione, aumentato anche a seguito dei provvedimenti adottati dal governo per il contrasto della pandemia.

All’inizio del 2020 il governo giordano era riuscito ad arginare bene gli effetti sociali ed economici del Coronavirus, e a negoziare un prestito di 1.3 miliardi di dollari con il Fondo Monetario Internazionale in vista della ripresa economica. Tuttavia, una volta terminato il lockdown, le autorità giordane si sono dimostrate incapaci di mantenere le promesse fatte, come l’aumento degli stipendi dei dipendenti pubblici, e ciò ha comportato un incremento delle proteste sociali. In risposta a tale dissenso il Primo ministro Al-Khasawneh è intervenuto con misure draconiane, tra le quali l’utilizzo della legge d’emergenza, che da necessità per fronteggiare la pandemia è divenuta il pretesto per oscurare le contestazioni sia in piazza che sui social media.

Inoltre, la Giordania non sembra aver adottato misure efficaci di contrasto alla pandemia: la campagna vaccinale procede ancora a rilento, mentre nelle terapie intensive manca l’ossigeno necessario da somministrare ai pazienti. Ciò ha portato molte persone contagiate a perdere la vita. La pandemia ha poi ovviamente comportato un rallentamento della crescita economica nazionale, causando una drastica riduzione dell’affluenza turistica, da sempre principale fonte di entrate per l’economia hascemita, e l’incremento del tasso di disoccupazione soprattutto a discapito di donne e giovani.

Lo Stato deve fare i conti anche con la presenza dei profughi siriani, che emigrano in Giordania per chiedere la concessione di asilo politico e lo status di rifugiato. Il Paese, dal canto suo, ha sempre adottato notevoli misure di assistenza ai rifugiati, ma non ha a disposizione risorse sufficienti per il loro sostentamento. Basti pensare che questo fa da sempre i conti con la mancanza d’acqua, e l’arrivo di profughi costituisce un incremento di popolazione che non può essere rifornita delle razioni idriche necessarie.

Le elezioni politiche del novembre 2020 sono state un campanello d’allarme per la rappresentatività e la solidità della classe politica giordana. Innanzitutto, si è registrata una bassa affluenza alle urne, che ha comportato molte difficoltà di fondare la nuova classe politica basata sul multipartitismo. La maggior parte dei parlamentari eletti è composta da uomini d’affari di estrazione tribale o da componenti delle forze di polizia. La rappresentanza femminile è trascurabile, dato che si attesta sui livelli minimi previsti per legge, ossia la presenza di almeno quindici donne in Parlamento. Anche la rappresentanza islamista espressa dai Fratelli Musulmani ha ottenuto risultati infimi alle elezioni, segno che nonostante la Giordania sia considerata un paese arabo la sua società rispecchia appieno i caratteri dello Stato laico.

Inoltre, il clima politico e sociale del Paese ha subito un brusco cambiamento quando nell’aprile del 2021 il principe Hamza, fratello del re Abdullah II ha cercato di rovesciare il monarca con la forza. In realtà non è facile comprendere le reali ragioni che abbiano spinto Hamza contro il Re, ma quel che risulta ormai evidente è l’esistenza di un vasto dissenso sociale nei confronti della monarchia. La teatralizzazione degli eventi legati al tentato golpe, sia in Giordania che nel resto del mondo, potrebbe aver costituito il tentativo della monarchia di screditare e contrastare ancor più il dissenso sociale.

Relativamente alla politica estera, la Giordania ha da sempre costituito un punto di riferimento per la stabilità del territorio mediorientale, e oggi al Paese è riconosciuto il ruolo di mediatore terzo e imparziale nelle dispute e nei conflitti che affliggono la regione. Tuttavia, a seguito della stipulazione degli Accordi di Abramo, il regno hascemita ha perso molta della sua valenza mediatrice a discapito dei Paesi del Golfo.

Anche Israele, che sin dalla pace siglata nel 1994 riconosce la Giordania come un partner, non considera più il regno come interlocutore privilegiato per garantire la stabilità del Medio Oriente in linea con i suoi interessi principali. Come osservato in precedenza, a seguito della stipulazione degli Accordi di Abramo, la Giordania non ha accettato l’eventualità di vedersi relegata a svolgere un ruolo subalterno nella risoluzione del conflitto israelo-palestinese. Con l’avvio della presidenza di Joe Biden il Paese ha rafforzato le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti grazie alla stipulazione dell’accordo bilaterale di difesa nel febbraio 2021.

La stabilità del regno giordano è inoltre legata ai rapporti che i cittadini hanno con i palestinesi residenti all’interno dei propri confini. Negli ultimi anni le relazioni tra queste due comunità sono andate normalizzandosi, e i palestinesi non hanno più costituito una fonte di destabilizzazione per il regno, bensì un aiuto concreto nell’amministrazione di importanti settori dell’economia nazionale: oggi, infatti, mentre i giordani amministrano il settore pubblico, ai palestinesi è stata riconosciuta la gestione del settore privato. Tuttavia, i palestinesi benestanti rimangono una minoranza in Giordania. La maggior parte vive nelle aree urbane, sottorappresentate nelle istituzioni del regno.

La situazione di stallo politico e di crisi economica portata dalla pandemia di Coronavirus in Giordania ha aumentato il disagio giovanile, e per rispondere all’aumento della disoccupazione che attanaglia questa fascia di popolazione, il governo ha reintrodotto il servizio militare obbligatorio. Ciononostante, questa misura non può consentire al regno di risanare le finanze pubbliche, né permette di alleviare il disagio dei giovani dovuto all’aumento della disoccupazione. In questa fase di crisi dell’economia giordana, il governo è dovuto ricorrere a misure straordinarie come i prestiti finanziari del Fondo Monetario Internazionale. La crisi economica ha causato grande malcontento nella popolazione giordana, e l’insorgenza di proteste spesso messe a tacere. Il governo ha addirittura imposto lo scioglimento di associazioni ritenute scomode come quella dei Fratelli Musulmani, che costituiva un importante punto di riferimento per le rivendicazioni dei settori sociali più colpiti dalla pandemia.

La situazione economica non consente al regno di farsi valere nelle rivendicazioni e nella difesa dei suoi interessi con altri Paesi mediorientali, come l’Arabia Saudita, da cui la Giordania riceve ingenti aiuti monetari destinati al risanamento finanziario.

Pertanto, il regno hascemita si trova in una situazione di stallo, in bilico tra il soddisfacimento dei suoi interessi nazionali e la necessità di far ripartire la propria economia.

Il sovrano e il Primo ministro devono trovare valide strategie per invertire la tendenza che vede la Giordania ormai estromessa dal suo ruolo di mediatore dei conflitti in Medio Oriente, ruolo occupato dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti.

Se lo Stato giordano vorrà riconquistare il suo ruolo di mediatore imparziale dovrà vincere molte sfide: consolidare la propria stabilità interna messa a dura prova dal recente golpe e dalle frequenti dimostrazioni popolari, cercare di farsi accettare di nuovo dagli altri attori mediorientali aprendo ad una maggiore democratizzazione delle istituzioni e in ultimo cercare di risanare la sua condizione economica senza ricevere aiuti finanziari dai sauditi, in grado solo di minare la credibilità del regno come Stato imparziale in Medio Oriente ed aumentare la dipendenza economica del Paese da un attore sempre più conservatore.

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