«Il gioco è la medicina più grande», suggerisce Lao Tze e in tanti lo stanno scoprendo a causa della quarantena, dove il gioco – per uomini e donne di ogni età – diventa un modo per passare assieme un tempo qualitativo. Quindi non solo i videogame, o i giochi di carte, ma anche giochi da tavolo, giochi di ruolo, fino ai complessi wargame.
Ma cos’è un gioco?
Per Roger Caillois si tratterebbe di una qualsiasi attività umana in grado di soddisfare contemporaneamente queste quattro caratteristiche (ognuna delle quali corrisponde a un preciso bisogno psicologico): Agon (la competizione), Alea (il caso), Mimicry (il travestimento, la mimica, la finzione) e infine Ilinx (la vertigine e il terrore).
Ma qui entriamo in un’altra dimensione, quella degli archetipi: non c’è civiltà che non abbia conosciuto giochi e giocattoli.
O meglio, ancor prima che gli uomini e le donne incardinassero la propria vita in strutture sociali organizzate c’erano il gioco, la festa e il racconto.
Johan Huizinga, autore del famoso saggio Homo Ludens, divide i giochi in due grandi famiglie: la lotta per qualcosa (la competizione) e la gara fra chi rappresenta meglio qualcosa (la rappresentazione appunto).
E questa descrizione ci rimanda a un’ulteriore dimensione (da sempre legata a quella ludica), quella del conflitto nelle società premoderne – l’«antica festa crudele» (nella magistrale definizione di Franco Cardini) – la guerra prima che l’uomo conoscesse gli scannatoi della modernità (le trincee, i gulag, i lager, le rovine fumanti delle città europee tramutate in altrettanti campi di battaglia).
Una dimensione dove rappresentazione e scontro, torneo e duello, si sovrappongono fino a confondersi.
Di sicuro il gioco è un bisogno primario dell’uomo; «Si possono negare quasi tutte le astrazioni: la giustizia, la bellezza, la verità, la bontà, lo spirito. Si può negare la serietà» – scrive sempre Huizinga – «ma non si può negare il gioco».
In fondo, i nostri hobby, e tra questi i giochi che ci appassionano, ci servono per organizzare in modo bello e razionale, un determinato – pur piccolo – settore delle nostre vita.
I giochi – poi – rispecchiano le particolarità delle culture che li hanno generati.
Nell’Awéle – gioco tipico del Continente africano – per vincere una partita non è consigliabile prendere subito l’iniziativa: l’accumulo di semi (che all’inizio sono equamente ripartiti) ha l’effetto di ridurre la parte dell’“altro”, il cui margine di manovra si assottiglierà sempre più fino, a che si troverà a subire le decisioni dell’avversario.
Nel Taoismo, lo yin precede lo yang, come la notte precede il giorno; ed è per questo che nel Go (il gioco preferito del grande timoniere Mao Zedong) chi gioca con le pietre nere posiziona per primo: il “senza-forma” precede la “forma”, il cui divenire è “senza-forma”. Il Go è costantemente sospeso tra analisi e intuizione, con aspetti sia “cosmologici” che agonistici e si sviluppa su tutta la scacchiera (Goban) al principio vuota (in una visione che gli strateghi francesi definirebbero tous azimuts – in tutte le direzioni), e i giocatori devono sempre coniugare le priorità tattiche con la profondità strategica, sia in attacco che in difesa.
L’obiettivo è quello di costruire – posizionando le proprie “pietre” agli incroci tra le linee in cui è diviso il campo – territori in grado di autosostenersi e autodifendersi, mentre il combattimento e la distruzione delle pedine del nemico sono per lo più secondarie.
E come può essere drammaticamente poetica la descrizione di una partita a questo gioco cosmogonico: il “fuseki” è la fase iniziale, quando il gioco si sviluppa su tutta la scacchiera (goban). “Sabaki” è il tentativo di uscire da una situazione critica con una tattica rapida e flessibile. Si ha un “Seki” quando si determina una situazione di stallo e nessuno è in grado di ottenere un vantaggio. Quando si “sacrifica” volontariamente un proprio pezzo, si opta per un “Uttegae”, un “gambetto”. Un attacco senza quartiere è detto “Shicho”. “Tsuru no sugomori” (“Le gru ritornano nel nido”) è la definizione di un’abile manovra con cui si catturano i pezzi nemici.
Si sventano le strategie avversarie inglobandole nella propria: prevalgono la curva, la seduzione, l’accerchiamento, la guerriglia, lo strangolamento, e per prevalere, occorre – come scrive Franco Battiato nella prefazione ai 36 Stratagemmi di Gianluca Magi (Bur) – «vibrare sulla stessa lunghezza d’onda di quegli elementi che in natura vincono senza combattere».
Pensiamo alla differenza archetipica con gli Scacchi, che il grande campione Kasparov ha descritto senza pudore come «in assoluto lo sport più violento»: la scacchiera (il cosmo?) è “piena” e divisa in distinte zone di schieramento; le pedine – fin dall’inizio – sono tutte posizionate sul campo di battaglia, al centro delle rispettive caselle; gli spostamenti (tranne quello del Cavallo) avvengono in modo “lineare” e infine l’obiettivo è quello di compromettere il sistema di comando dell’esercito avversario fino a distruggerlo: l’enfasi non è tutta sul combattimento e la manovra è finalizzata non tanto a sbilanciare il nemico, quanto ad arrivare a contatto con un vantaggioso rapporto di forze.
Il lettore tragga le suo conclusioni sulle distinte trasposizioni “operative” di queste due diverse visioni strategiche.
Una dedica
Ma prima di continuare questo intervento focalizzato sul mondo dei wargame, non posso non spendere qualche minuto per una duplice dedica.
I giochi – salvo rare eccezioni (di cui parleremo più avanti, affrontando la Teoria dei giochi) – prevedono sempre un avversario, e sono gli avversari che ci permettono di affinare la nostra strategia, ci sfidano al livello successivo.
Il mio ricordo va ai miei amici/avversari – Lorenzo Mancinotti e Piero Visani – entrambi prematuramente scomparsi.
Il sabato pomeriggio era sacro, per anni con Lorenzo (e con pochi altri adepti – Giorgio, Gino, Amedeo, Rudy, Luca, Stefano, Sante ed Emanuele) lo abbiamo consacrato al gioco: giochi di ruolo, ma ancor più wargame.
Che sapore che avevano quei sabati!
Alto, magro, i lineamenti affilati di un antico romano, Lorenzo dominava il campo di battaglia proiettando la sua personalità su tutti gli altri giocatori. E ciò era particolarmente vero durante gli scontri napoleonici: linea, quadrato, colonna; granatieri, volteggiatori; dragoni, ussari, corazzieri; batterie, batterie ippotrainate.
La grammatica di una nuova lingua prendeva forma mentre tramutava il suo pensiero in mosse, tattiche, strategie.
Quel mondo era totalizzante e sembrava dare un significato diverso alle nostre giovani e acerbe giornate, mentre eravamo in attesa che la vita ci mettesse alla prova.
A Churchill è stata attribuita una massima, secondo cui «le battaglie si vincono manovrando» (in realtà a Waterloo le giubbe rosse avevano manovrato ben poco e come ricordò il vecchio Wellington non avevano fatto altro che incassare, incassare bene certo, ma solo incassare. Anzi, proprio nei momenti più duri della battaglia i membri del suo staff gli sentirono esclamare: «Un bel duro pestaggio signori; vediamo chi pesterà più a lungo»), lui aveva fatto suo questo “motto”, ma lo aveva portato a un altro livello, come amava ripetere: «tutta la vita non è altro che una manovra».
Con Piero Visani ci siamo conosciuti a distanza nel 2005 grazie alla collaborazione a una rubrica di questioni strategiche (Strategika appunto): ogni settimana ci siamo alternati per quasi tre anni su quelle pagine, avvertendo fin da subito, che – come fa dire Maurice Dantec a uno dei protagonisti dei suoi romanzi – «avevano qualcosa in comune, una passione segreta per la strategia, una forma di addiction alla sopravvivenza, una paranoia attiva, e quasi ludica». Quello che mi colpiva leggendo i suoi articoli e saggi era la sua sensibilità per il fenomeno bellico, una sensibilità che non è quella grossolana e primitiva dei fautori di una sciocca ostentazione di muscoli, ma quella avveduta e consapevole di chi sa riconoscere – dietro le parole d’ordine “politicamente corrette” di un flusso mediatico narcotizzato e narcotizzante – come il conflitto permei l’esistenza contemporanea, in forme ben più marcate di quanto si sia disposti ad ammettere, e come esso si manifesti ovunque, dalla conflittualità individuale fino alla guerra guerreggiata, investendo ogni campo della società. Non a caso il massmediologo Andrea Fontana gli ha riconosciuto il merito di aver introdotto il concetto di “stratega mediatico” e il suo costante, appassionato contributo nel decifrare il nuovo volto del Dio della Guerra che domina – con la frammentazione e la parcellizzazione – una serie di dimensioni (finanziaria, mediatica, terroristica e oggi geopandemica) di cui soltanto a pochi è chiara la natura scopertamente polemica e polemogena. Tutto il suo impegno prometeico si è manifestato nel fare sì, in una parola, che il polemos potesse diventare logos. Con Piero non abbiamo mai giocato (anche se ci eravamo ripromessi di montare un Terrible Swift Sword della SPI; la Guerra civile americana è stata una grande, comune passione) ma abbiamo parlato tanto di giochi: «Dimmi delle tue pedine preferite. Quali ti sembrano le divisioni più belle (sì, alla lettera!) delle battaglie più difficili. Raccontami cose sui giochi» (Roberto Bolaño).
E ricordo con quanta commozione e immedesimazione ho letto queste righe sul suo blog: «Il giorno della visita a Waterloo faceva un caldo infernale, ma l’entusiasmo che animava me e mio figlio Umberto era tale che impiegammo tutta la giornata a vagare sul campo di battaglia, da Hougoumont a La Haye Sainte, fino al museo con il suo gift-shop, dove comprammo una marea di ricordi, diwargame, di soldatini».
Curriculum ludico
Soldatini.
Come per tutti noi giocatori, è cominciato tutto dai soldati: le prime scatole Atlantic regalate in un mese d’agosto.
I set più ambiti? Il Cavallo di Troia, i Gladiatori e poi tutta la panoplia Nato che all’epoca appariva così avveniristica. E poi, dopo Atlantic, Esci e il rito delle due scatole comprate sempre nello stesso posto, il giorno prima dell’Epifania.
Giammatteo era un negozio, un piccolo negozio, dove – a differenza degli attuali store – il colore prevalente era il marrone e dove trovavi fondamentalmente tre cose: modellini, soldatini e quelle che oggi si chiamano action figure.
Quei Masters of the Universe destinati a rivoluzionare l’immaginario di un’intera generazione.
Con i soldati si comincia a familiarizzare con le divise, gli armamenti, le epoche storiche, i secoli.
Diventa motivo di vanto saper riconoscere se quel figurino rappresenta un tedesco delle vittoriose campagne del ’40 e del ’41, dei drammatici combattimenti del ‘’43, oppure se fosse un protagonista delle ultime epiche battaglie del ’44 o ’45; lo stesso valeva per gli inglesi, gli americani, i russi, e per tutte le epoche: era come detenere un sapere segreto, quasi esoterico (chissà – per altri bambini – forse era lo stesso con le figurine Panini, oppure oggi con le carte dei mazzi di Pokemon o di YuGiOh!).
Quante battaglie con i cugini…
Poi è venuto il tempo di dismettere tutto questo.
Nessuno meglio di Lovecraft ha saputo rendere quello strano sentimento dei cassetti che si chiudono, di quelle scatole che non verranno più aperte se non per un rapido, nostalgico sguardo: «Allora mi resi conto che ero troppo cresciuto. Il tempo spietato aveva lasciato cadere su di me il suo artiglio ferino: ormai ero ragazzo e i ragazzi non giocano con le casette-giocattolo e con finti giardini. Perciò pieno di tristezza, dovetti cedere il mio mondo a un bambino che abitava dall’altra parte del terreno. Da allora non ho più scavato canali né tracciato sentieri e stradine; tali operazioni si associano a me a troppi rimpianti, perché la gioia fugace dell’infanzia non si riesce più ad agguantarla».
Poi sono arrivati i giochi di ruolo e dopo «il rigore e la disciplina delle mappe esagonate».
Un percorso contrario a quello di Gary Gigax che come lui stesso racconta nell’introduzione di Little Wars di H.G. Well (quello, per intenderci, della Guerra dei mondi), proprio per inserire una variante durante la simulazione di un assedio medioevale giocato con il regolamento Chainmail!, decise con i suoi amici/avversari di aggiungere l’esplorazione di un sotterrano della fortezza cinta d’assedio, per poi passare a inserire elementi fantasy, come mostri e incantesimi.
E così prese vita Dungeons & Dragons: un dungeon è un gruppo di stanze e corridoi in cui possono essere trovati mostri e tesori, ovvero una struttura di ambienti, ma anche di situazioni collegate insieme, con un ingresso e un punto di arrivo in cui organizzare l’esplorazione di un gruppo di avventurieri-incursori alla ricerca di nemici e ricchezze.
Accanto al dungeon, Gygax e il suo coautore Arneson, scelsero – come simbolo del gioco – il mostro dei mostri, il Drago.
Si tratta di un mondo e una dimensione ludica che le nuove generazione hanno riscoperto attraverso la serie Stranger Things. Ma questa è un’altra storia.
Torniamo ora ai nostri amati wargame.
Come scrive sempre Bolaño: «Quanti libri bisogna leggere per giocare bene? Tutti e nessuno. Per giocare una partita senza troppe pretese basta conoscere le regole. (…). Questo genere di giochi genera una spinta alla documentazione abbastanza curiosa. È come se volessimo sapere tutto quello che venne fatto, per cambiare quello che venne fatto male».
Ricordo ancora che per affrontare la mia prima battaglia napoleonica, sulla scrivania si formò una torre con i tre volumi di David Chandler (i due dedicati alle Campagne dell’imperatore Napoleone I e quello antologico sui suoi marescialli) e in cima un bel libro di Bruce Quarrie, anche lui storico, wargamer, collezionista e pittore di miniature…
Allora a che giochi hai giocato?
I grandi tattici napoleonici della Clash of Arms, Richthofen’s War, Flight Leader, Panzer Leader e Squad Leader della Avalon Hill, i classici della GMT dedicati alle battaglie antiche. E oggi Twilight Struggle. Quante ore trascorse sugli scenari di Imperium Romanum II della Wes (ancor oggi rileggendo i commenti di Lorenzo, in particolare alla Crisi del III secolo resto affascinato dal suo acume e dalla sua visione d’insieme).
È incredibile come, partita dopo partita, gli ordini di battaglia, i teatri d’operazione, i nomi dei comandanti, e soprattutto quelli dei luoghi si imprimano dentro di noi: Stalingrado, Alesia, Kharkov, Sedan, Creta, Anzio, Lepanto, Malta, Sebastopoli.
La griglia esagonale intrappola i luoghi, donandogli una profondità che cambia la percezione della quotidianità: «ho disegnato sulla sabbia la mappa dell’Offensiva delle Ardenne (una delle mie specialità) o del Bulge (del Saliente), come la chiamano gli americani, e gli ho spiegato nel dettaglio i piani di combattimento, l’ordine di comparsa delle unità, le strade da seguire, gli attraversamenti dei fiumi, la demolizione e la costruzione di ponti, l’attivazione dell’offensiva della XV armata, la penetrazione reale e quella simulata del Kampfgruppe Peiper, eccetera. Poi ho cancellato la mappa con il piede, ho lisciato la sabbia e ho disegnato la mappa della zona di Smolensk. Lì, ho detto, il Panzergruppe Guderian ha combattuto una battaglia importante nel ’41, una battaglia cruciale. Io l’avevo sempre vinta» (Bolaño).
Allora, accade quello che dice il grande storico israeliano Harari: «Quanto meglio si conosce un periodo storico, tanto più difficile diventa spiegare perché le cose sono accadute in un certo modo invece che in un altro. Chi abbia solo una conoscenza superficiale di una certa fase tende a concentrarsi su ciò che si è effettivamente realizzato tra le varie possibilità. Fornisce una ricostruzione ad hoc, col senno di poi, per spiegare come mai proprio quel particolare esito fosse inevitabile. Chi invece conosce più approfonditamente tale periodo è molto più consapevole rispetto alle strade che la storia non ha preso».
La sabbia dell’arena, i dadi, il rigore delle mappe esagonali.
Martin van Creveld è un importante storico militare di origine ebraica, autore di più di 20 monografie che affrontano i più diversi aspetti della sfera bellica: dalla logistica, all’impiego delle donne in combattimento fino alle trasformazioni dei conflitti contemporanei.
Il suo ultimo libro, pur rientrando in questo filone, non è propriamente un testo accademico, quanto un’investigazione su un tema ritenuto marginale, ma che, stando all’autore, ha giocato e gioca un ruolo più centrale di quello che immaginiamo.
Tutto è già nel titolo: Wargames – From Gladiators to Gigabytes (Cambridge University Press).
Ci troviamo di fronte a un excursus lungo 2000 anni, durante i quali l’uomo ha non solo combattuto, ma anche “giocato” alla guerra: la caccia e i ludi gladiatori, l’addestramento e le esercitazioni, le giostre cavalleresche e infine, per non farci mancare nulla, i giochi da tavola (boardgame, wargame o, come li chiamano i tedeschi Kriegspiel), le rievocazioni in costume, il softair, il paintball, i giochi di ruolo, le simulazioni politiche e militari, i videogame. Quindi tutto ciò che secondo Van Creveld si configura come una sorta di «violenza codificata», «i combattimenti ritualizzati o tutte quelle attività inerenti ai conflitti che attengono al confronto tattico/strategico tra due o più partecipanti».
Il libro è affascinante e riporta una mole impressionante di informazioni.
Ciò che stupisce è il fatto che, nonostante alcune delle più importanti campagne militari siano state anticipatamente simulate a tavolino con dovizia di particolari, i decisori raramente si sono fidati dei risultati ottenuti. È accaduto per il famoso Piano Schlieffen nella Prima Guerra Mondiale, per la Barbarossa e per l’attacco a Midway durante la Seconda: tutte e tre fallite, prima sul tavolo da gioco e poi anche nella realtà.
Nell’ottobre del 1961, lo Stato maggiore della Difesa Usa mise in campo la simulazione Sigma per testare le implicazioni di un ingaggio statunitense in Indocina. Il risultato fu assolutamente profetico: la reazione cinese avrebbe portato a un’escalation della presenza militare americana che avrebbe sottoposto a sua volta l’opinione pubblica del Paese a una pressione insostenibile. Nel 1944, lo Stato maggiore del generale Model aveva da poco iniziato un gioco riguardante l’offensiva americana alla linea Sigfrid e le eventuali contromosse tedesche, quando dal fronte giunse la notizia che l’attacco era giunto davvero. Model, senza scomporsi, ordinò di proseguire con il “gioco” utilizzando i rapporti che arrivavano dal fronte e inoltrando ordini operativi in base all’andamento della simulazione. Allo stesso modo, l’ammiraglio Nimitz a guerra conclusa ebbe a dichiarare che lo scontro contro il Giappone era stato combattuo prima sui tavoli per le simulazioni – da tante persone e in tante maniere diverse – che nulla di quanto accaduto nella realtà (persino l’uso delle armi atomiche) aveva costituito per loro una sorpresa, nulle, tranne i kamikaze.
Comunque questi “strumenti”, e più in generale la “Teoria dei giochi”, sono sempre più utilizzati per testare crisi finanziarie, situazioni di emergenza o le possibili evoluzioni degli scenari più delicati.
Per assonanza e con un salto concettuale giungiamo così a parlare di uno dei più raffinati strumenti di analisi: la Teoria dei giochi, appunto. Si tratta di una disciplinarelativamente giovane, esoterica, visto che è per lo più confinata negli ambiti degli istituti di ricerca universitari e governativi.
Il grande pubblico l’ha scoperta grazie al biotopic dedicato a John Forbes Nash: A Beatiful Mind, dove il grande matematico statunitense viene magistralmente interpretato da Russell Crowe.
Una definizione accademica ci dice che questa disciplina analizza soluzioni competitive e cooperative tramite delle matrici, ovvero studia le decisioni individuali in situazioni in cui vi sono diversi soggetti e le decisioni di un singolo possono influire sui risultati conseguibili da parte di uno o più attori coinvolti, attraverso un meccanismo di retroazione.
Questo modello ha molteplici applicazioni che spaziano dall’economia, alla finanza, passando per la politica, la psicologia, la cibernetica fino alla biologia e allo sport. La sua nascita si fa risalire al 1928, grazie alle intuizioni di John von Neumann, papà del primo prototipo di calcolatore elettronico noto con la sigla ASCC (la cui esistenza è rimasta a lungo coperta dal segreto militare): le sue prime applicazioni furono chiaramente in campo bellico. La Teoria dei Giochi venne utilizzata per elaborare le rotte e le quote di volo dei bombardieri alleati che riversavano il loro carico di morte sulle città tedesche, oppure i percorsi dei convogli, allo scopo di minimizzare la probabilità di intercettazione da parte dei caccia nemici e degli u-boot.
Un ulteriore sviluppo si ebbe a Princeton grazie al fecondo incontro tra lo stesso Neumann e l’economista Oskar Morgenstern, incontro che portò alla nascita del volume Teoria dei giochi e comportamento economico destinato a rivoluzionare i rapporti tra matematica e scienze economiche. L’obiettivo di questo nuovo approccio sarà quello di “matematizzare” il comportamento umano al fine di comprendere come i diversi protagonisti – in quei casi in cui è prevista l’interazione – possono conseguire la vittoria o una spartizione delle risorse scarse.
Le decisioni sono interdipendenti: quando un soggetto si accinge a prenderne una, deve anche valutare quelle della controparte. La mossa o l’insieme delle mosse che un individuo compie è chiamata strategia, e in relazione a quella adottata dagli altri giocatori, ognuno riceve una vincita finale, secondo un’adeguata unità di misura, che può essere positiva, negativa o nulla (in caso di vittoria, sconfitta o pareggio).
Ombre senza nome: gioco e letteratura.
Prima di chiudere questa carrellata non possiamo non far riferimento all’incursione nella cultura pop di questi temi: oltre al film del 1983 Wargames (di John Badham), parlano di simulazioni e giochi di guerra anche David Gemmell, Maurice G. Dantec e il più volte citato Roberto Bolaño
Lo scrittore franco-canadese Dantec dopo studi incerti (dovuti a motivi di salute) e sforzi da autodidatta all’università, esordì alla fine degli anni Settanta sulla scena della musica psichedelica, fondando un paio di complessi, Etat d’urgence e Artefact, in quest’ultimo gruppo sperimentale suonava il piano e firmava i testi futuristi. Poi, si riciclò come pubblicitario, ma anche questo fu un passaggio a vuoto. Lasciatasi alle spalle questa esperienza, si cimentò con la stesura del suo primo romanzo di fantascienza: La Sirène Rouge. Una rivelazione: il volume vinse premi su premi, vendendo migliaia di copie, e divenne anche un film (nel 2002, per la regia di Olivier Megaton); fu seguito da altri gialli fantascientifici, come Les Racines du Mal, Villa Vortex e Babylon Babies. Proprio in quest’ultimo romanzo, ambientato nella seconda metà del XXI secolo – forse uno dei suoi testi più riusciti (ma che ha dato vita a un’incomprensibile trasposizione cinematografica diretta da Mathieu Kassovitz, che si è rivelato assolutamente incapace di gestire questo ambizioso progetto) – uno dei protagonisti è il colonnello del Gru (il Servizio segreto militare russo) Romanenko, che coltiva due occupazioni: il “traffico” (di armi, droga e di esseri umani) e la storia militare: «Si era connesso con il suo Kriegspiel programmabile preferito. Un programma sperimentale proveniente da Vancouver, concepito da ingegneri canadesi, cinesi e francesi, funzionante con la dose richiesta di intelligenza artificiale. Il Kriegspiel aveva in memoria secoli di storia militare; si chiamava Mars, ovviamente, vale a dire Modellatore avanzato di ricerche strategiche. Al momento gli aveva chiesto di ricostruire il corso della guerra civile così come si stava svolgendo in Cina, in quello stesso momento. La Cina era diventato un concentrato a grandezza naturale di tutte le guerre del XX secolo. Vi si trovavano all’incirca tutti i tipi di terreno: montagne, steppe, deserti, grandi pianure erbose, praterie coltivate, paludi, fiumi, regioni costiere, giungle e mega-centri urbani. Tutti i tipi di scontro avevano lasciato la loro impronta: grandi battaglie di carri, offensive aeroterrestri, guerriglia e controguerriglia, battaglie navali, terrorismo e anti-terrorismo, attacchi cibernetici e massacri di civili su grande scala».
Proprio l’evoluzione di questa simulazione è una delle sotto-trame che sorreggono l’impalcatura del romanzo.
David Gemmel, nel primo dei romanzi dedicato a Parmenion, descrive una scena, in cui i giovani spartani dimostrano la propria sagacia tattica guidando degli eserciti di soldatini: «Riscuotendosi da quei cupi pensieri, fissò lo sguardo sul campo di battaglia modellato nella sabbia che misurava tre metri quadrati. I soldati intagliati nel legno erano schierati: Oro a sinistra, Rosso sulla destra; grezzi e privi di decorazioni, essi apparivano comunque splendidi. Le figure erano intagliate con grande cura per ogni particolare, perfino il gonnellino di cuoi e gli schinieri in bronzo, soltanto gli elmi erano ormai fuori moda, strutturati da coprire tutto il volto e piumati, erano stati accantonati trent’anni prima. Quei guerrieri intagliati antichi e quasi sacri, perché il grande Leonida della leggenda li aveva usati quando aveva vinto gli XI giochi».
Nel 2000 lo scrittore antifascista cileno Roberto Bolaño, alla domanda di quale fosse la sua maggiore stravaganza, rispose: «La mia collezione di wargame da tavolo e la mia piccola collezione di giochi strategici per computer».
Bruno Montané, suo amico dai tempi del Messico, racconta che Bolaño era sempre alla ricerca di romanzi di guerra e biografie di generali, in particolare del maresciallo Zhúkov, che ebbe un ruolo chiave nella disfatta nazista; egli coltivava inoltre una passione per i giochi di strategia come riflesso della storia, o meglio delle “possibilità” della storia. Gli interessava la II guerra mondiale, che vedeva come un archetipo dell’orrore, e interpretava i wargame come vere e proprie strutture narrative.
A volte trascorreva fino a 10 o 12 ore di fronte al campo di battaglia: giocava alla guerra, lanciava i dadi, muoveva le pedine e provava strategie per “riscrivere” il corso degli eventi.
Bolaño giunse a scrivere: «Giocare esige una mente fredda, speculativa e temeraria».
E questa passione diventa un romanzo, Il Terzo Reich, pubblicato postumo nel 2010.
Il titolo rimanda a uno dei suoi giochi preferiti, Terzo Reich, appunto, una simulazione edita dalla Avalon Hill negli anni settanta in cui viene ricostruita tutta la II Guerra mondiale in Europa.
Tra le maglie di questo noir dai molti livelli di lettura, affiora una domanda: «Quante erano le divisioni di fanteria indebolite, inesperte che sostennero il fronte occidentale? Quali quelle che malgrado il tradimento frenarono l’avanzata in Italia? E quanti, innumerevoli gruppi di combattimento si immolarono per rallentare il nemico su tutti i fronti?».
Bolaño risponde con una certezza: «Solo la memoria che gioca lo sa».
Salvatore Santangelo,
Geopolitica.info e Università degli Studi di Roma Tor Vergata