Lo scorso marzo, i segretari di stato e della difesa Blinken e Austin si sono recati a Tokyo per il vertice 2+2, l’incontro noto anche come US-Japan Security Consultive Committee, durante il quale i rappresentanti statunitensi discutono con i corrispettivi colleghi giapponesi di questioni bilaterali e problemi di rilevanza globale che possano avere ripercussioni per l’alleanza nippo-statunitense. A seguito dell’incontro, Giappone e USA hanno rilasciato una dichiarazione congiunta nella quale hanno riaffermato l’importanza dell’alleanza come mezzo per garantire la pace, sicurezza e prosperità nell’Indo-Pacifico. Tra i punti salienti della dichiarazione, troviamo una serie di affermazioni esplicite che rivelano le preoccupazioni dei due alleati per il comportamento cinese nella regione.
Oltre a identificare le principali sfide che i due partner si trovano ad affrontare a livello regionale, la dichiarazione congiunta si sofferma brevemente, inoltre, su alcune dinamiche bilaterali riguardanti la struttura e gestione dell’alleanza stessa. Una di queste è il problema del cosiddetto “burden sharing,” la ripartizione equilibrata degli oneri dell’alleanza. In particolare, la dichiarazione riafferma l’impegno di Tokyo a potenziare le proprie capacità di difesa e menziona le negoziazioni per l’Host Nation Support (HNS), l’accordo, stipulato per la prima volta nel 1978 e rinegoziato ogni 5 anni, con cui i due alleati delineano il contributo monetario che il Giappone si impegna a sostenere per supportare le forze USA presenti nel suo territorio.
Burden sharing e un Giappone “free rider”
La ripartizione di oneri e doveri tra i paesi membri è un problema che accomuna varie tipologie di alleanze. Nel caso dell’alleanza nippo-statunitense, disaccordi su come equilibrare il burden sharing rimangono una costante nelle relazioni tra i due partner. Tale problema è, inoltre, complicato dalla natura stessa dell’alleanza. A differenza delle altre alleanze americane, infatti, il trattato di sicurezza che lega Giappone e USA delinea un rapporto essenzialmente privo di reciprocità. Secondo le disposizioni del trattato, stipulato nel 1960, gli USA si impegnano ad intervenire in caso di attacco ai territori sotto amministrazione giapponese, senza però l’obbligo che il Giappone intervenga in supporto degli Stati Uniti in caso di un attacco che non abbia immediate ripercussioni sulla sicurezza del paese del Sol Levante. Inoltre, secondo l’accordo, Tokyo si impegna a rafforzare le proprie capacità difensive, tuttavia, sempre in conformità con i limiti previsti dalla costituzione giapponese. Tali disposizioni hanno delle profonde ripercussioni sulle modalità con cui i due alleati possono ripartire oneri e doveri e sono spesso oggetto di critiche a Washington.
Durante la guerra fredda, gli USA hanno più volte esortato Tokyo a espandere il proprio contributo. Uno dei temi al centro delle critiche era la questione del budget di difesa giapponese che, secondo gli americani, era insufficiente per poter garantire capacità difensive soddisfacenti. Il budget di difesa di Tokyo non superava (e continua tutt’oggi a non superare) l’1% del PIL, un livello che, secondo Washington, era troppo basso se paragonato al budget degli altri alleati USA. Tali critiche si sono intensificate soprattutto durante gli anni Settanta e Ottanta, a seguito del boom economico del Giappone. È in questo periodo che il paese del Sol Levante viene accusato di essere un “free rider,” ovvero di godere della sicurezza dell’ordine internazionale garantita a sole spese degli USA. Durante questo periodo, consapevole dei limiti previsti dalla Costituzione giapponese, la leadership americana ha, tuttavia, limitato le proprie pressioni in ambito economico-finanziario, richiedendo, in particolare, un incremento del budget di difesa giapponese fino al 3% del PIL, l’uso strategico degli ODA (il programma giapponese di assistenza allo sviluppo), e la progressiva espansione del HNS.
Con la fine della Guerra fredda e, in particolare durante la prima guerra del Golfo, le critiche riguardo al contributo insufficiente dell’alleato asiatico hanno progressivamente oltrepassato la dimensione puramente monetaria. In seguito al rifiuto del Giappone di partecipare alla coalizione ONU istituita in risposta all’invasione irachena del Kuwait e nonostante l’enorme supporto finanziario offerto (circa $13 miliardi), Tokyo è divenuta oggetto di intense critiche da parte della comunità internazionale e, in particolare, degli USA. Secondo le accuse, la cosiddetta “checkbook diplomacy” giapponese costituiva un contributo inadeguato a risolvere una crisi che minacciava la sicurezza delle rotte commerciali del Giappone stesso. A partire da questo periodo, Washington ha quindi cominciato ad insistere affichè Tokyo riconsiderasse la propria posizione riguardo alla partecipazione delle forze di autodifesa in operazioni di assistenza umanitaria ma, soprattutto, riguardo alla possibilità di esercitare il diritto di autodifesa collettivo, una questione risolta soltanto nel 2014 con la reinterpretazione dell’Articolo 9 da parte del governo Abe, che per la prima volta, ha introdotto tale facoltà, seppur sempre mantenendo alcune condizioni restrittive.
Sebbene il Giappone abbia, negli ultimi anni, introdotto importanti modifiche in campo di strategia di difesa e sicurezza, modifiche che hanno permesso una maggiore partecipazione del paese a livello regionale ed internazionale, critiche riguardanti il suo insufficiente contributo sono riemerse durante l’ex Amministrazione Trump, la quale ha cercato di convincere Tokyo a sostenere un’incremento esorbitante del HNS, corrispondente a circa il doppio del costo corrente.
Burden sharing e il futuro dell’alleanza nippo-statunitense
La dichiarazione congiunta emessa in seguito al vertice 2+2 di marzo rivela che il problema del burden sharing continua ad essere un dossier di fondamentale importanza per gli USA in prospettiva della ricalibrazione dell’alleanza e vista la crescente esigenza di irrobustire l’integrazione e il coordinamento delle due forze alleate. Il dibattito sul burden sharing rimane un problema bidimensionale. Gli USA continuano a premere Tokyo affinché rafforzi le proprie capacità difensive attraverso un incremento del budget di difesa. Allo stesso tempo, Washington vuole scaricare su Tokyo un’ulteriore porzione del costo per il mantenimento delle truppe americane presenti in Giappone. Riguardo a ciò, le negoziazioni per raggiungere un accordo sul nuovo HNS avevano raggiunto un’impasse durante l’Amministrazione Trump, viste le richieste esorbitanti di Washington. Con la ripresa delle negoziazioni sotto la nuova Amministrazione Biden, l’accordo, la cui scadenza era prevista per lo scorso marzo, è stato esteso a coprire l’anno fiscale 2021, dal momento che le parti tardavano a raggiungere il consenso necessario per il rinnovo. Tale estensione garantisce a Tokyo la possibilità di rivedere le proprie carte in gioco. Le prospettive per le negoziazioni rimangono, tuttavia, complesse.
Sebbene la posizione di Biden sarà sicuramente più ragionevole rispetto a quella dell’Amministrazione precedente, è improbabile che le pressioni americane sia per un incremento del HNS che del budget di difesa svaniscano completamente, considerate le difficoltà economiche e l’intensa polarizzazione della società americana. Secondo Colby, ex deputy assistant del segretario alla Difesa sotto Trump, tale incremento è necessario per poter continuare a sostenere l’alleanza tra i due paesi. Da un lato, l’aumento del budget di difesa e il rafforzamento delle capacità del paese sono di fontamentale importanza per mantenere una parvenza di equilibrio nella regione, vista la modernizzazione delle forze militari cinesi. Dall’altro, un incremento del budget e dei costi a sostegno delle forze americane minimizzerebbe il rischio di alienare l’alleato. Nonostante Biden si sia espresso fortemente a favore della cooperazione con gli alleati, numerosi rappresentanti del Congresso continuano, infatti, a contestare il peso finanziario di tali alleanze.
Una delle principali difficoltà rimane la diversa percezione tra i due alleati riguardo all’idea che il Giappone possa offrire di più. Dal punto di vista dell’opinione pubblica giapponese, Tokyo già offre un contributo sufficiente: garantisce agli USA l’utilizzo di basi sul proprio territorio minimizzando le spese sostenute dall’alleato. Secondo l’accordo HNS corrente, infatti, il Giappone sostiene circa il 70% delle spese associate al mantenimento delle forze americane, il livello di HNS più alto tra tutti gli alleati USA. Un ulteriore aumento di tali costi è, pertanto, visto come ingiustificato dato che le basi americane in Giappone garantiscono la difesa del paese tanto quanto gli interessi strategici americani nella regione. Non bisogna, inoltre, dimenticare il costo sociale imposto dalla presenza di tali basi, onere prevalentemente a carico delle comunità ospitanti tali strutture. Si pensi a problemi quali la degradazione ambientale, inquinamento acustico, o i crimini commessi dal personale militare americano.
Inoltre, pressioni per il rafforzamento delle capacità del paese continuano a suscitare preoccupazioni riguardo la possibilità che il Giappone venga chiamato ad espandere ulteriormente il proprio coinvolgimento in missioni a supporto della stabilità regionale. Tale scenario riapre una serie di questioni dolenti riguardo la costituzionalità delle capacità militari giapponesi e delle recenti politiche di sicurezza del paese. Ad esempio, considerata la linea sottile tra capacità difensive e offensive, la misura in cui il paese possa espandere le proprie capacità militari senza violare le disposizioni costituzionali rimane una domanda aperta che continua a mettere a disagio gran parte della società giapponese.
Considerate le crescenti tensioni nella regione dell’Indo-Pacifico e l’importanza della collaborazione tra i due paesi per la stabilità regionale, non sorprende che le discussioni relative al burden sharing continuino a condizionare le relazioni tra i due alleti. Una soluzione che lasci entrambi gli attori e le rispettive società pienamente d’accordo sembra rimanere, tuttavia, alquanto improbabile.
Alice Dell’Era,
Geopolitica.info