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La geopolitica tedesca nello specchio della crisi dei profughi: Parte I – Eredità politica e storica del Novecento

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In estate la Germania ha aperto le porte ai rifugiati. Durante l’intero anno del 2015 oltre un milione di persone è entrato nella Repubblica federale in fuga dalla guerra o dalla povertà. Adesso la “locomotiva” d’Europa deve fronteggiare l’insorgere di problemi sociali, tensioni culturali e dilemmi morali che investono tanto il senso d’identità della Germania nel XXI secolo, quanto il suo stesso ruolo di potenza nel panorama globale.

Quando la cancelliera tedesca ebbe ad annunciare – erano i primi di settembre dell’anno scorso – che la Germania avrebbe accolto indiscriminatamente i profughi in fuga per motivi umanitari (segnatamente da Siria e Iraq), l’opinione pubblica internazionale rimase indubbiamente sorpresa. Furono le reazioni a dimostrarlo. Da una parte, alla stazione di Monaco o nei cortei di protesta nelle strade di Baghdad, venivano agitate fotografie di Angela Merkel: ovvero di una donna europea, “bianca e cristiana”, portata come esempio di buon governo e solidarietà umanitaria. Dall’altra, numerosi gruppi politici e organi di stampa dei paesi occidentali hanno istericamente gridato contro una scelta incosciente, probabilmente dettata da opportunità elettorali, che avrebbe inevitabilmente contribuito ad accrescere i flussi migratori. Non mancò neppure chi, in una rara trasversalità degli orientamenti partitici, preferì vedere in quella decisione di Berlino una sorta di complotto atto a favorire l’economia tedesca, mediante l’afflusso di manodopera a basso costo e specializzata.

Un passato che potrebbe passare

Per chi conosce i tedeschi e la loro storia – almeno recente – si è trattato tuttavia di un gesto abbastanza logico. Nell’insorgere di una crisi umanitaria e in netta controtendenza con il resto dei paesi sviluppati, la Germania di Angela Merkel ha aperto i propri confini ai richiedenti asilo per cogliere un’occasione forse irripetibile: superare agli occhi del mondo il binomio tra tedesco e nazista, recentemente rafforzato dalle voci che vorrebbero un Quarto Reich asservito al neoliberismo e oppressore dei più deboli. Si tratta in gran parte di ragioni inconsce, frutto di una certa elaborazione del passato – non affatto priva di contraddizioni – e del concetto di colpa collettiva, ma la spontaneità dell’accoglienza da parte dei singoli cittadini in quei medesimi giorni lasciava poco spazio ai dubbi. Le colonne di automobili dirette in Austria e in Ungheria per recuperare i profughi dovevano sostituire il ricordo dei vagoni merci carichi di deportati.

Il gesto fu logico anche per l’attuale direzione politica – entro cui si discute una riforma delle pratiche d’asilo almeno dalla primavera del 2015 – e per quella stessa Angela Merkel che, davanti al crescere di proteste anti-islamiche nel paese, ebbe a dichiarare: «l’Islam appartiene indubbiamente alla Germania». Un’affermazione rivolta alla minoranza musulmana (circa il 5% della popolazione) ma impossibile da comprendere senza ripensare a un’altra minoranza che venne dichiarata “estranea” alla germanicità, quella ebraica (appena l’1% della popolazione tedesca nel 1933).

Questa è una premessa necessaria per affrontare qualsiasi discorso sull’attuale problema dei migranti in Germania.

La politica tedesca alle prese con un fenomeno globale

In ogni caso stiamo parlando solamente di psicologia dei popoli e, molto spesso, la realtà si fa beffe delle speranze e dei sentimenti. Quando Angela Merkel dichiarò l’apertura dei confini, affermò anche che il paese sarebbe stato pronto ad accogliere fino a 500mila rifugiati l’anno. Allora il numero complessivo dei richiedenti asilo in Europa era di 650mila unità. Le “cause” dei flussi migratori non sono andate scomparendo mentre, nel caso del conflitto siriano, i motivi umanitari si sono resi sempre più drammatici. In appena quattro mesi la sola Germania ha visto crescere gli arrivi di migranti fino a superare il milione di persone.

I malumori all’interno dell’opinione pubblica tedesca non hanno tardato a farsi sentire. Seppur numericamente contenute, sono aumentate le partecipazioni di “cittadini preoccupati” ai vari cortei indetti contro l’“islamizzazione” del paese e contro un’indiscriminata politica di accoglienza. A un livello più rappresentativo, ha preso corpo una considerevole fronda interna allo stesso partito di Angela Merkel, guidata dal leader della CSU (la costola bavarese della CDU) Horst Seehofer. Dapprima queste frange hanno voluto precisare come le misure volute dalla cancelliera fossero da considerarsi “temporanee” e legate esclusivamente all’eccezionale situazione venutasi a creare in estate. Successivamente si è prodotto un vero e proprio scontro interno ai cristianodemocratici, in cui una parte consistente del partito ha iniziato a invocare una pronta revisione in senso più restrittivo delle politiche di accoglienza. Un effetto immediatamente tangibile si è dato nella ridefinizione della lista dei cosiddetti “paesi d’origine sicuri” (da cui non fare dunque valere il diritto d’asilo), in cui ad esempio è stato inserito – non senza polemiche – l’Afghanistan, ma anche nella frenetica attività diplomatica del governo per modificare la disposizione dei partner europei e per guadagnare la collaborazione degli attori mediorientali.

Mentre nel paese si moltiplicano gli attentati incendiari contro gli edifici adibiti a ospitare i profughi, la crisi interna alla CDU/CSU minaccia di provocare fratture anche con l’altro pilastro della Grande coalizione, i socialdemocratici. Abbastanza esplicativa è la questione del “dovere di integrazione” proposto dal partito di Merkel. Si tratterebbe di offrire e sostenere diverse pratiche atte a favorire una rapida assimilazione dei migranti nel tessuto sociale tedesco, tra le quali un ruolo importante è svolto dall’accesso nel mondo del lavoro. In proposito, la CDU avrebbe proposto una sospensione degli obblighi di salario minimo per chi assumesse i profughi. Tuttavia l’opposizione dell’SPD su questo punto si è rivelata inamovibile e il partner della Grande coalizione potrebbe essere pronto a far saltare l’alleanza di governo se dovesse venir introdotta una misura simile, il cui unico effetto – secondo i massimi esponenti del Partito socialdemocratico – sarebbe quello di aumentare la conflittualità tra i rifugiati e i cittadini tedeschi.

La sfida da destra

In termini politici più ampi, se anche la Grande coalizione dovesse sopravvivere – come il pronto ritiro della proposta sul salario minimo parrebbe suggerire – la questione dei profughi e, soprattutto, la decisa intenzione della cancelliera a proseguire sulla strada dell’accoglienza, minacciano di ledere la base elettorale (circa il 40%) del Partito cristianodemocratico, dando probabilmente luogo a un superamento di quella che potremmo indicare come l’“anomalia” politica della Germania – ovvero l’inesistenza di un partito a destra della CDU/CSU. L’opportunità potrebbe essere sfruttata dall’Alternativ für Deutschland, il partito nato euroscettico e virato sempre più su posizioni di estrema destra che, stando agli ultimi sondaggi, si porterebbe attorno al 10-12% dei consensi, diventando quindi la terza forza politica del paese davanti ai Grüne e alla Linke.

Ciò detto, le elezioni sono ancora lontane e ogni previsione deve sottostare al beneficio del dubbio. Il malcontento verso le politiche di accoglienza adottate e difese dal governo può sì portare a una significativa migrazione a destra dell’elettorato cristianodemocratico, ma è altrettanto vero che la linea dura espressa dalla portavoce dell’AfD Frauke Petry (che ebbe a dichiarare legittimo l’uso delle armi per la difesa dei confini contro i migranti) difficilmente può pagare in una Germania educata al rispetto, alla tolleranza e al mantra di «nie wieder» (mai più, rivolto al passato nazionalsocialista). In ogni caso, anche i pronostici più pessimisti sulle dichiarazioni di voto mostrano una salda maggioranza del paese orientato in favore dei partiti di sinistra (SPD, Linke e Grüne rappresenterebbero circa il 43% dell’elettorato) o ancora fedele alla CDU di Angela Merkel (35%), suggerendo come la popolazione tedesca sia sostanzialmente d’accordo con la linea politica adottata finora.

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