La visita di Francesco ha un esito tanto locale quanto regionale: locale in quanto riguarda la salvezza dei cristiani d’Iraq, regionale perché la sua eredità si estende all’azione politica dei diversi numi tutelari del Paese.
E’ lontano il 2000, anno in cui il Segretariato di Stato statunitense, rappresentando anche la posizione britannica, dissuadeva Giovanni Paolo II dal visitare il Paese ed un documento di alcuni intellettuali iracheni sottolineava la distanza che esiste fra la visione islamica e quella cristiana del patriarca Abramo, ieri come oggi (e non a caso) riferimento dei Pontefici. La volontà anglo-americana era quella di impedire un involontario assist papale a Saddam Hussein, quella degli intellettuali (che dovevano conoscere bene la Chiesa) evitare che succedesse allora quanto avrebbe poi fatto Francesco. Quale la lettura della visita di Francesco da parte degli Stati Uniti di Israele e dei Paesi del Golfo?
Cosa significa il viaggio di Francesco per gli USA?
L’Iraq post-baathista è un vaso di Pandora scoperchiato. I territori che lo compongono, prima di essere racchiusi in uno Stato all’europea con confini fatti col righello a cura della Signora Bell, erano saggiamente divisi ed amministrati dagli Ottomani in tre diversi Vilayet: Basra, Baghdad, Mosul. Dopo la caduta dell’Impero (britannico) ed i tumulti dell’era di Qassem, il mantenimento dell’unità del Paese era stato garantito con pugno di ferro del regime ba’athista. La desiderata democraticità del regime successivo ha reso ineluttabile il considerare che la maggioranza dei cittadini iracheni è di fede sciita, cosa con la quale ha dovuto fare i conti anche l’amministrazione provvisoria a guida statunitense che ha traghettato il Paese verso il varo della Costituzione del 2005.
L’Iran ha giovato molto della condizione nella quale si è trovato lo Stato iracheno senza più un governo a trazione sunnita, con conseguente possibilità di costruire una cintura di sicurezza attorno al pianeggiante e prevalentemente arabo Khūzestān (che tanto pericolosamente si era dimostrata essere “ventre molle” durante la guerra ’80-‘88) e di creare un continuum fino al Libano, area di importanza vitale per la proiezione strategica persiana verso il Mediterraneo. Il mantenimento di tale corridoio è stato reso particolarmente difficile dall’inasprirsi della condizione dell’economia e della società persiane, fiaccate dal mancato rispetto statunitense del JCPOA. Ora l’Iran si trova impantanato fra la scelta di continuare una strenua resistenza contro le avances statunitensi e quella di accettare una pacificazione con gli Stati Uniti che porterebbe conseguenze ben diverse da quelle che si sarebbero generate da un’effettiva realizzazione del JCPOA ai tempi di Obama. Il viaggio di Francesco si inserisce in questa situazione perché interessa una zona, l’Iraq appunto, che non è semplice giardino di casa persiano ma parte integrante dell’Iranshahr, quella “grande Persia” che tanto vitale è per l’Iran moderno e che ospita luoghi fondamentali per lo sciismo, una delle colonne portanti dell’identità dell’Iran – Repubblica Islamica. Uno fra questi luoghi è appunto la Scuola di Najaf, che è ospitata su un fazzoletto di terra dove la tradizione vuole riposino, oltre ad Ali, anche Adamo, Eva e Noè. La mossa del Grande Ayatollah Sistani di prendere le distanze dall’Iran taglia la possibilità di quest’ultimo di agire in Iraq senza suscitare uno scisma (fitna) nella comunità sciita. La massa di voti ed il peso politico mobilitabili da Sistani è già stata causa della caduta di un Esecutivo negli ultimi anni, e se ora Teheran volesse sfidare Sistani otterrebbe solo la venuta a galla dell’evidente spaccatura della società iraniana, con l’indice demografico a favore di Sistani. La leva di azione di Teheran ne viene dunque molto limitata non solo perché riduce di molto il peso delle masse mobilitabili, ma anche perché rompe il principio stesso dell’unità della linea di comando nella società irachena. Washington sa che questo aggiunge una freccia al suo arco. Il punto di vista statunitense è racchiuso dallo statement rilasciato dalla Presidenza a viaggio papale già terminato, secondo il quale “vedere il Papa visitare…il luogo di nascita del biblico Abramo, passare del tempo col Grande Ayatollah Ali al-Sistani in Najaf, e pregare a Mosul, città fino a pochi anni fa provata dalla depravazione di un gruppo come l’ISIS…è segno di speranza per il mondo intero”.
Le parole trasmesse dalla Presidenza statunitense non potrebbero esprimere meglio la soddisfazione per una visita che sposta molta della massa sociale irachena in una zona di maggiore confort per gli Stati Uniti: quella, appunto, controllabile dello sciismo di Najaf. Sistani è nominato di persona, lo è Abramo. Mosul viene menzionata di passaggio giusto per menzionare l’ISIS. E’ interessante il rimando che viene poi fatto alla “comuni connessioni della nostra umanità”, un evidente assist alla visione universalistica della Chiesa gesuitico-francescana.
Israele è presente solo nel viaggio di andata quando, sorvolandolo, il Pontefice rivolge un affettuoso saluto al Presidente Rivlin per tramite dei sistemi di comunicazione dell’aereo. A Ur, dove pure dovrebbe essere rappresentato l’ecumene monoteista, non era presente alcun ebreo.
I Paesi del Golfo
I Paesi del Golfo sono presenti prima e a latere del viaggio. L’Iraq è la fase successiva dei viaggi preparatori in Egitto e negli Emirati e non sarebbe stato possibile senza Tayyb ad al-Azhar. Il viaggio in Iraq avrebbe dovuto avvenire già nel 2019, in modo da avere “Fratelli tutti” pubblicata nel 2000 dopo la visita a Sistani. Probabilmente lo sgambetto all’Iran non era nemmeno voluto in questo specifico momento. Fatto sta che alcuni Paesi arabi hanno potuto costruire un percorso di riavvicinamento ad Israele chiamato “Patto di Abramo” solo grazie alla firma di Tayyb sotto il documento sulla fratellanza umana.