Nella rappresentazione hobbesiana dello stato di natura la vita umana è«solitaria, misera, ripugnante, rozza e breve». Questa immagine corrisponde alla descrizione del continente fantastico di Westeros, così come immortalata da George Martin nei romanzi “A Song of Ice and Fire” poi trasformati in serie televisiva “Game of Thrones” dall’emittente statunitense HBO. Come confermato dai numerosi articoli apparsi su riviste (ne hanno parlato in particolare “Foreign Affairs” e “Foreign Policy”), la saga si presta a essere interpretata in termini politologici e i suoi contenuti risultano tanto più significativi se si assume la prospettiva delle Relazioni internazionali.Sebbene la biografia dell’autore non presenti elementi che ne indichino la conoscenza sistematica dei principali paradigmi della disciplina, i suoi lavori si contraddistinguono per una consapevolezza e una capacità di rappresentare le dinamiche del potere nell’ambiente internazionale che, quanto meno, rende “Il trono di spade” uno strumento utile per illustrarne il funzionamento. La recente conclusione della settima stagione della saga televisiva (27 agosto), a cui l’articolo fa riferimento, fornisce lo spunto per abbozzare una riflessione in merito (attenzione: possibilità di spoiler nelle righe successive).
“Game of Thrones”, infatti, offre numerose rappresentazioni dei concetti chiave della disciplina. Il bellum omnium contra omnes, che si scatena tra i dignitari dei Sette Regni dopo l’assassinio di Aerys II Targaryen (il “re folle”), ha fatto parlare di un’interpretazione “realista”delle vicende umane. La condizione politica del continente occidentale, infatti, riflette efficacemente quella di anarchia internazionale in cui versano gli Stati e la loro conseguente necessità di agire come massimizzatori di sicurezza. Il perseguimento degli interessi, primo fra tutti quello della sopravvivenza, impone a tutti i personaggi della saga una condotta sostanzialmente amorale, la cui descrizione inevitabilmente non può essere unidimensionale. “Il trono di spade”, come sottolineato da Salvatore Santangelo in un articolo pubblicato di recente su “Tempi”, sfugge, infatti, alla dicotomia classica bene/male di molte altre saghe, prime tra tutte quelle di John Tolkien. È per questo che, nell’evoluzione della storia, con le eccezioni di Jon Snow (il polo positivo) e Cersei Lannister (il polo negativo), tutti finiscono col compiere sia azioni esemplari che atti malvagi (tra le figure più emblematiche della complessità della natura umana figurano quelle di Jaime Lannister e Sandor Clegane).
Se la condizione “anarchica” di Westeros costituisce la cornice del racconto, il suo filo conduttore è ineluttabilmente la lotta per il potere. L’interruzione della successione secondo il principio tradizionale della successione dinastica, anche se giustificata dalla crudeltà del sovrano, infatti, innesca delle spinte centrifughe che esplodono definitivamente con la morte del nuovo re Robert Baratheon. È così che Westeros scivola in una condizione di “quasi legittimità”, che ricorda quanto scritto da Guglielmo Ferrero nel suo volume sul potere. La concomitanza tra un ordine politico che volge al tramonto (quello delle vecchie famiglie nobiliari dei Sette Regni) e di un ordine emergente che, tuttavia, è ancora di là da venire (quello di Daenerys Targaryen o quello di Jon Snow), conferma di essere lo scenario foriero per eccellenza di lotte senza quartiere che trascinano gli abitanti del continente occidentale in una spirale di violenza.
Il potere è rappresentato secondo l’immagine weberiana della possibilità di vedere affermata la propria volontà anche in presenza di un’opposizione, così come magistralmente espresso da Cersei Lannister nella scena in cui ricorda a Petyr Baelish (Ditocorto) – mentre ordina ai suoi uomini prima di giustiziarlo, poi di liberarlo –che,a differenza del “sapere” (di cui è detentore Ditocorto),«il potere è ‘potere’». La lotta per il potere, quindi, è rappresentata come un “gioco a somma zero”, ben descritta nel dialogo tra Cersei e Ned Stark, in cui la donna ricorda al primo cavaliere del marito che «al gioco per il trono o si vince o si muore, non esistono vie di mezzo».“Game of Thrones”, inoltre, scioglie l’annoso nodo del rapporto tra il potere politico e quello economico prendendo una posizione netta (che risulta più smussata, invece, nei volumi di Martin). È il primo, infatti, a essere raffigurato come il principale bene scarso all’interno della società, per cui chiunque abbia risorse a disposizione è disposto a combattere. Il denaro, infatti, appare come uno strumento per ottenere il potere di decidere ma che, come dimostrato dal rapporto che i Lannister intrattengono con la Banca di Ferro e da come si vendicano per il tradimento della ricchissima famiglia Tyrell, non necessariamente si traduce in esso.
Allo stesso tempo, tuttavia, la rappresentazione del potere non è ridotta alla mera forza, ma viene problematizzata. Anzitutto chi trasforma il potere nel semplice esercizio della violenza o nella minaccia del suo ricorso prima o poi rimane vittima della spirale che ha innescato o contribuito ad alimentare (il caso di re Joffrey Baratheon è il più eclatante), così come chi lo persegue facendo continuo ricorso al tradimento prima o poi ne rimane vittima (la fine di Ditocorto dimostra che alla lunga la slealtà non paga). In secondo luogo nella serie emerge l’idea che il potere agisce meglio laddove viene percepito dagli uomini come autorità o, in altre parole, quando ottiene il “consenso” dei soggetti nei confronti dei quali rivolge i comandi. Non solo i re o i guerrieri, infatti, possono essere detentori di potere, come dimostrato dal ruolo politico svolto da Cersei (una donna) prima di diventare regina o da Tyrion Lannister (un nano) che per ben due volte viene nominato primo cavaliere (una sorta di primo ministro). Il potere, al contrario, risiede «dove gli uomini credono che il potere risieda; è un trucco, un’ombra sul muro», come sottolinea Lord Varys a Tyrion in uno dei dialoghi più riusciti della saga. Per tale ragione i suoi detentori sono continuamente alla ricerca di legittimazione, risultando consapevoli che un deficit di legittimità rende impossibile od ostacola significativamente l’esercizio del potere.
A Westeros il tramonto del principio di legittimità tradizionale (la successione dinastica), fa sì che i personaggi cerchino di attingere ad almeno due fonti alternative di legittimazione. La prima è la religione, come dimostrato dal rapporto tra il pretendente al trono Stannis Baratheon e Melisandre, sacerdotessa del Dio della Luce. O anche dalla momentanea intesa tra Cersei, che cerca di rafforzare la posizione di suo figlio Tommen quale nuovo re, e l’Alto Passero (o Septon) del Culto dei Sette Dei. O, ancora, dall’identificazione degli Uomini del Nord con gli Antichi Dèi, da quella degli Uomini di Ferro con il Dio Abissale e da quella dei Dothraki con il Grande Stallone. La seconda fonte di legittimità è l’ideologia, a cui fa principalmente ricorso Daenerys Targaryen, la figlia del “re folle” che ambisce a riunire i Sette Regni sotto la sua autorità con l’ausilio di tre draghi. In “Game of Thrones” è lei a essere dotata di una vera e propria carica rivoluzionaria, fondata sul progetto di liberazione degli schiavi e di realizzazione di un ordine equo e senza più ingiustizie contro i deboli. Il potenziale politico delle idee di Daenerys, che nel corso della serie le permette di formare dal nulla un temibile esercito (altro indizio del primato del potere politico su quello economico), emerge in un dialogo con Tyrion. Quest’ultimo, che dopo essere stato rinnegato dalla sua famiglia ne diventa il primo cavaliere,prova a mettere in guardia la pretendente al trono di spade dalle insidie che l’attendono e sulla difficoltà di trovare alleati importanti a Westeros per la sua impresa. Lei risponde che le grandi famiglie nobiliari del continente rappresentano i raggi di una ruota che schiaccia le persone. Una ruota che non è interessata a fermare o a divenirne parte, ma che intende, piuttosto, distruggere.
Il mondo (o il sistema internazionale) in cui Daenerys vuole realizzare il suo progetto sembra essere passato da un assetto egemonico, quello del regno Targaryen,ad uno multipolare, in cui le grandi famiglie nobiliari non riconoscono un’autorità superiore e guadagnano sovranità su porzioni ristrette del continente occidentale. Nell’ambito di questo nuovo assetto Casa Lannister, di cui Joffrey Baratheon che siede sul trono di spade è membro (è il primogenito di Cersei e Robert Baratheon e il nipote di Tywin Lannister),è la prima a sviluppare ambizioni egemoniche (ripristino dell’autorità del trono sui Sette Regni). Il progetto dei Lannister, che controllano le Terre dell’Ovest e quelle prima appartenute ai Targaryen, è fondato sul differenziale in termini di hard power – sia nella componente militare che economica – che li favorisce rispetto alle altre casate. È questa la vera origine della Guerra dei Cinque Re, mentre le sue cause efficienti sono l’illegittimità di Joffrey e l’uccisione di Ned Stark. Quest’ultima assume le sembianze di una vera a propria “guerra egemonica” nell’accezione di Raymond Aron e Robert Gilpin. È, infatti, un conflitto che coinvolge tutti i principali attori del sistema, che si configura come “totale” per estensione geografica e intensità dei combattimenti (nonostante la sua durata sia relativamente breve) e che ha come posta in gioco la natura e il governo del sistema internazionale.
Rispetto alla minaccia costituita dai Lannister, gli Stark,le due fazioni dei Baratheon (quella che fa capo a Stannis e quella che fa capo a Renly, entrambi fratelli di Robert), i Greyjoy e – inizialmente – i Tyrell optano per il bilanciamento, ma senza cooperare. Stannis Baratheon fa uccidere suo fratello Renly, mente i Greyjoy approfittano della situazione per attaccare gli Stark. Gli Arryn e i Tully – con l’eccezione del “Pesce nero” che sostiene gli Stark – scelgono una neutralità volta a guadagnare il tempo necessario per rafforzarsi e poi schierarsi dalla parte dei vincitori. Tra le grandi casate dapprima i Martell e poi i Tyrell fanno – momentaneamente –bandwagoning con i Lannister, salvo poi comprendere di esserne stati fagocitati. La stessa scelta, ma più comprensibile alla luce delle dinamiche di sicurezza, è compiuta da alcune potenze minori, come i Frey e i Bolton, che sperano di prendere il posto delle casate a cui erano fedeli in passato nel nuovo ordine guidato dai Lannister. La ricerca della sicurezza e l’accumulazione di potere, quindi, impongono agli attori in gioco di adattarsi alle contingenze ed essere disposti a stringere e mutare alleanze. È la logica suggerita in più occasioni ai membri della famiglia Stark da Ditocorto, secondo cui «la pace di fa con il nemico, per questo si chiama pace» e «occorre combattere ogni battaglia prima nella propria mente, considerando ognuno come proprio nemico e ognuno come proprio amico».
La fine della Guerra dei Cinque Re si conclude con una vittoria tattica dei Lannister che, tuttavia, non ottengono il loro obiettivo strategico. Il continente occidentale, infatti, continua a essere connotato da un assetto multipolare e assomiglia per la sua instabilità, nonché per la vacanza di un attore capace di portare un livello minimo di ordine, all’Europa descritta da Edward Carr in “The TwentyYears’ Crisis”. A rendere ancora più instabile il sistema di Westeros intervengono nuovi attori contraddistinti da una carica “rivoluzionaria”. Da un lato irrompe definitivamente sulla scena Daenerys, che in nome del suo progetto politico riesce a unire intorno a sé, oltre ai barbari Dothraki e alle truppe di Immacolati già arruolati nel continente di Essos, le case Martell, Tyrell e Greyjoy (la parte fedele a Yara) unite principalmente dalla comune minaccia rappresentata dai Lannister. Questa scelta, tuttavia, avvicina ai Lannister altre potenze minori in cerca di emancipazione, come i Tarly (prima legati ai Tyrell) e i Greyjoy (la componente fedele a Euron).
Dall’altro lato, incombe ormai sul continente l’esercito degli Estranei (i non morti) guidato dal Re della Notte, che costituisce un pericolo condiviso da tutti gli esseri viventi. Grazie all’abile politica di Jon Snow, nel frattempo diventato re del Nord, tutte le grandi casate del continente occidentale sembrano unirsi in nome della nuova minaccia comune, rinviando nel futuro una rivalità che al cospetto di questo pericolo sembra priva di senso. Tuttavia Cersei conferma ancora una volta le sue doti di realpolitiker. Dopo aver scongiurato l’assedio delle truppe di Daenerys contro Approdo del Re (la capitale dei Sette Regni) in cambio della sua alleanza contro gli Estranei, non può fare a meno di pensare a una strategia di lungo termine sebbene sia consapevole della minaccia che sta prendendo forma nell’immediato. Ordinando al fratello Jaime di non muovere l’esercito verso Nord, spera che Daenerys e Jon ottengano l’obiettivo comune (sconfiggere il Re della Notte), ma a un costo tale che non saranno in grado di sostenere un nuovo scontro con i Lannister alla fine della Grande Guerra. Così viene definita nell’ultima puntata lo scontro degli uomini del continente occidentale con l’esercito degli Estranei. Nella prossima stagione, quindi, assisteremo a una nuova “guerra egemonica”.
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