Nella realpolitik dei paesi industrializzati del G7, gli Stati Uniti propongono un “fronte unito” contro Cina e Russia, e rilanciano il Build Back Better Word (B3W) contro la Belt and Road Initiative. Ma per gli accademici di Foreign Affairs c’è il rischio di un nuovo “Clash of Systems”. La mediazione dell’UE e dell’Italia: “Con la Cina bisogna innanzitutto cooperare, poi competere ed anche essere franchi sulle cose che non condividiamo”. In questi scenari saranno importanti le ulteriori tappe del G20 a guida italiana, che finora ha preparato il terreno per promuovere un modello di multilateralismo “inclusivo”.
La Cina al centro del G7
Senza ombra di dubbi, c’è stato un grande convitato di pietra all’ ultimo vertice del G7 svoltosi a Carbis Bay, in Cornovaglia, tra il 10 e il 14 giugno scorso: la Cina. Il tema centrale su cui si è sviluppato il forum dei 7 Paesi più industrializzati – Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti d’America – è stata la richiesta americana di un “fronte comune” contro l’espansionismo cinese. E anche le anticipazioni su una “nuova Carta Atlantica” insieme alle sessioni finali allargate ad Australia, Corea del Sud e India hanno plasticamente evidenziato la scelta di rilanciare una nuova versione del containment, la strategia di Kennan formulata alle origini della “Gguerra fredda”.
Le preoccupazioni di Biden probabilmente sono state confermate dalle proiezioni di crescita che danno la Cina prossima a divenire la prima potenza mondiale in pochi anni, in sorpasso sugli Stati Uniti, come già dimostra un più 18,3% di avanzata del Pil cinese nei primi tre mesi dell’anno. Soprattutto la sfida è avvertita sulla competizione commerciale della One Belt One Road (OBOR), cui l’Italia e i Paesi europei, ma anche gli altri continenti hanno sinora manifestato grande interesse per gli sbocchi commerciali e l’accesso alle materie prime. La competitività è anche sul monopolio dei semiconduttori, sulla tecnologia del 5G, dell’intelligenza artificiale e dei nuovi software. E proprio recentemente l’allarme è stato ripreso anche dalla Germania che, in un documento del suo Ministero degli esteri, ha segnalato iniziative volte a realizzare “strutture sino-centriche parallele alle istituzioni che non sono nel nostro interesse (…), per estendere l’influenza politica a livello globale, dare una propria impronta agli standard e alle norme mondiali, e per avanzare nella politica industriale, specialmente promuovendo le imprese di Stato”.
In sostanza è il modello espansionistico del capitalismo di stato di Xi Jimping a incutere timori, anche in ragione delle capacità di attrazione in altre aree regionali del successo ottenuto nel sollevare dalla povertà 750 milioni di cinesi negli ultimi trenta anni, invero anche a prezzo di gravi pregiudizi per i diritti umani, i diritti civili e per l’ambiente. Ma su quest’ultimo aspetto va sottolineato che, nonostante le accuse di essere il principale produttore di CO2 con oltre il 30% delle emissioni globali, il modello economico cinese si accinge a diventare competitivo anche nella transizione verde, posto che detiene il 90% del mercato dei pannelli fotovoltaici.
Una prospettiva particolare del “pericolo cinese” per gli USA è stata poi enunciata l’8 aprile u.s. quando il National Intelligence Council, nell’analisi strategica “Global Trends 2040: A More Contested World”, ha tratteggiato anche un possibile scenario in cui l’Unione europea e la Cina “uniranno le forze” per condividere interessi economici e delineare la nuova governance globale.
L’alternativa americana: il Build Back Better World (B3W)
Da qui l’alternativa del Presidente Biden al modello cinese presentata al G7, tutta incentrata su una forte affermazione dei valori delle “democrazie liberali”, e quindi sulla ferma condanna della politica repressiva cinese contro gli Uiguri del Xinjang – che risulterebbe anche la comunità più impiegata in condizioni di coercizione nelle produzioni strategiche, come quella dei pannelli solari – contro i dissidenti del Tibet e di Hong Kong, e con la richiesta di nuove inchieste sulla origine della diffusione del Covid 19. Tuttavia, la sfida epocale proposta dal leader democratico americano è il Build Back Better World (B3W), “Ricostruire un Mondo Migliore”, una variazione del Build Back Better presentato negli USA per la ripresa economica dopo la pandemia. Il piano si presenta esplicitamente in risposta alla One Belt One Road promossa dalla Cina, offrendo una partnership “guidata da valori di alto livello e trasparente”, con l’obiettivo di “aiutare a costruire infrastrutture soprattutto nei Paesi a basso e medio reddito”. Gli sherpa della Casa Bianca hanno quindi propagandato “un’agenda positiva concentrata sull’unire i Paesi che condividono i nostri valori sui temi che contano di più”, sottolineando l’intendimento di promuovere un’azione “concreta sul lavoro forzato (…) un affronto alla dignità umana e un esempio della concorrenza economica sleale della Cina (…) Il messaggio deve essere che il G7 è serio nel difendere i diritti umani”.
La posizione dell’UE e dell’Italia
Rispetto alla proposta americana, in un primo momento la risposta europea è stata senz’altro di rassicurante vicinanza e adesione agli obiettivi posti per l’affermazione del modello delle democrazie liberali, e quindi per la tutela dei valori occidentali anche rispetto ai diritti umani e per le strategie di aiuto ai paesi a basso reddito. In tale senso si è sviluppato anche l’incontro bilaterale tra il presidente Biden e il premier italiano Draghi, che ha confermato le due guidelines della politica estera italiana: l’europeismo e l’atlantismo, comunque sempre nell’ottica di guardare con attenzione ai Paesi che si trovano in difficoltà economiche e sociali.
La Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen è poi intervenuta anche a sostegno dell’altro fronte del containment americano: “La Russia continua a minare l’ordine europeo” – ha indicato in un tweet, precisando – “poiché la Russia continua a minare l’ordine di sicurezza europeo, possiamo contare su una forte alleanza transatlantica per affrontare questa sfida”. Ha quindi ricordato che l’Ucraina è in cima nell’agenda europea e che il G7 “sostiene l’integrità territoriale dell’Ucraina ed è pronto a fornire assistenza nei suoi sforzi di riforma”, richiamando quindi anche le preoccupazioni per la situazione in Bielorussia.
Tuttavia, come è emerso dagli ulteriori approfondimenti maturati nella Commissione UE, l’approccio europeo sui rapporti con la Cina è stato più strutturato e attento a calibrare i rischi di eccessive polarizzazioni, inopportune e deleterie proprio in questi momenti decisivi per la governance globale, specie per gli accordi che dovranno a breve aggiornarsi sugli obiettivi climatici. Da qui le indicazioni della Commissione, frutto soprattutto dell’intesa tra Francia, Italia e Germania: “la Cina è un partner per le sfide globali, un concorrente economico e un rivale sistemico”. Il richiamo al partenariato cinese sulle sfide globali era dunque necessario per salvaguardare la possibilità di dialogo sulle emergenze sanitarie e climatiche, che altrimenti rischierebbero di travolgere l’occidente e l’umanità intera. E d’altra parte non può sottacersi che l’Europa abbia interessi propri da tutelare nei rapporti con la Cina che non può precludersi definitivamente, pure nel contesto di una assolutamente preferenziale e indiscussa scelta filoamericana. Dunque, i leader europei hanno dovuto correggere il tiro, anche al fine di evitare che il G7 si trasformasse “in una sorta di piattaforma anti-cinese”.
In proposito è stato particolarmente incisivo quanto il premier italiano Draghi ha avuto occasione di precisare, confermando anche in questo caso di saper cogliere con indiscussa autorevolezza la più giusta chiave di lettura del problema: “Rispetto alla Cina il comportamento di governi come quelli del G7 deve essere fondato su tre principi. Innanzitutto, bisogna cooperare, poi bisogna competere. Nessuno disputa che la Cina debba essere una grande economia. Quello che è stato messo in discussione sono i modi che utilizza, è una autocrazia che non aderisce alle regole multilaterali, non condivide la stessa visione del mondo che hanno le democrazie. Il terzo punto fondamentale è essere franchi: l’ho già detto in altre occasioni, bisogna essere franchi sulle cose che non condividiamo, Biden a un certo punto ha detto che il silenzio è complicità”.
Il rischio di un nuovo clash of systems
Una riflessione significativa sulla richiesta americana di un “fronte comune” contro l’espansionismo cinese è stata fatta proprio in questi giorni dagli analisti del Council on Foreign Relations di Foreign Affairs. L’11 giugno, in pieno G7, sull’autorevole rivista è apparso un articolo dal titolo significativo: Clash Of Systems?, a cura di due accademici della Cornell University, Thomas Pepinsky e Jessica Chen Weiss. “Scontro di sistemi”, un titolo chiaramente evocativo di un altro interrogativo, quel “The Clash of Civilizations?”, lo scontro di civiltà preconizzato da Huntington nell’ormai lontano 1993, da cui lo studioso aveva cercato invano di metterci in guardia. Lo stesso dilemma sembra venire posto ora con il rischio di un nuovo scontro globale tra “sistemi”, che gli stessi Stati Uniti e l’Occidente, ma in genere tutta l’umanità, hanno più motivi di evitare piuttosto che alimentare, per tutto ciò che ne conseguirà nella ulteriore progressione della crisi governance globale. E tutto questo specie ora che vanno ricercati – come ha cercato di fare la Presidenza italiana del G20 – motivi di condivisione piuttosto che temi divisivi, quando il mondo è in piena emergenza pandemica, ha necessità di pervenire tempestivamente a scelte decisive sui cambiamenti climatici, sulle diseguaglianze globali e sull’effettività dell’international law, anche sul tema dei diritti umani.
Dunque, quello che è emerso nel contesto del G7 è ancora l’hardware del sistema delle relazioni internazionali, in cui ricompaiono le frizioni geopolitiche, e probabilmente la scelta strategica americana è stata orientata dalla natura stessa del G7, il forum dei grandi paesi industrializzati in cui non compaiono Russia e Cina. Ha certamente un senso il rilancio del “modello delle democrazie liberali” nel contrastare i nuovi autocrati e nell’affermare il primato della tutela dei diritti umani anche sulle sfide economiche e commerciali. Ma occorre grande cautela in uno scenario globale in cui potrebbero maturare risentimenti e reazioni scomposte degli esclusi, fra cui figurano principalmente la Russia e la Turchia e i loro alleati, attuali e potenziali – diffusi in varie propaggini continentali – che potrebbero anche convergere su posizioni filo-cinesi, ancora maggiormente in funzione anti-occidentale. E la Cina, pur non intervenendo al momento con una dichiarazione che sarebbe stata clamorosa di Xi Jinping, ha lasciato che fosse un portavoce dell’ambasciata a Londra a commentare causticamente: “Sono finiti i tempi quando un piccolo gruppo di Paesi poteva decidere i destini del mondo (…) noi crediamo che i Paesi, grandi o piccoli, forti o deboli, poveri o ricchi, siano tutti uguali, e che gli affari del mondo devono essere gestiti attraverso la consultazione tra Paesi”.
Conclusioni: meglio il multilateralismo del G20
Meglio pensare, dunque, ad altri contesti, come ad esempio lo stesso G20, in cui non è stata contraddetta l’apertura al multilateralismo che Biden aveva annunciato nel suo programma di governo, tanto che all’arrivo in Europa il 9 giugno è stato salutato dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel con le parole: “È tornata l’America, è tornato il multilateralismo”. Non c’è dunque che sperare che il tema torni più chiaramente nell’agenda della politica estera degli Stati Uniti e dei Paesi che intendono perseguire una ripresa più efficace dell’ordine internazionale liberale. Il G7, fortunatamente, non conclude gli impegni della politica estera: in questi giorni si è tornati a discutere nei vertici della Nato e USA-UE, e, soprattutto, ci sono altre tappe per il G20 guidato dalla Presidenza italiana. Si tratta del G20 che finora ha ottenuto due risultati importanti: ha preparato il terreno per promuovere un modello di multilateralismo “inclusivo”, e ha visto riaffermare il ruolo di mediazione dell’UE nella ricomposizione delle polarizzazioni, in uno scenario in cui l’Italia esce rafforzata, anche nella ritrovata intesa con Francia e Germania.
Maurizio Delli Santi (* Membro dell’International Law Association, dell’Associazione Italiana Giuristi Europei e dell’Associazione Italiana di Sociologia).