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TematicheMedio Oriente e Nord AfricaLa fragile Syria Policy di Joe Biden

La fragile Syria Policy di Joe Biden

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La visita di Biden in Medio Oriente ha visto la crisi siriana trovarsi ai margini dei riflettori.
Il leader statunitense è infatti giunto nella regione mosso da altre priorità, ma recenti sviluppi in Siria evidenziano come il conflitto dovrebbe ricoprire una strategica importanza per gli Stati Uniti e per i paesi alleati. L’approccio politico di Washington sembra però evidenziare il contrario, e le policy strutturate non sembrano quindi in grado di tutelare, ed avanzare, gli interessi statunitensi ed occidentali.

Articolo precedentemente pubblicato nel trentaduesimo numero della newsletter “Mezzaluna”. Iscriviti qui

La Syria policy dell’amministrazione Biden è stata spesso oggetto di forte critica, in quanto non impegnata attivamente a plasmare l’esito del conflitto.

Vale la pena notare, innanzitutto, come Joe Biden non abbia dato seguito alla figura dello Special Envoy/Representative for Syria, ma abbia bensì retrocesso il dossier siriano affidandolo a Ethan A. Goldrich, “solo” Deputy Assistant Secretary of State for Near Eastern Affairs, with responsibility for the Levant and Syria engagement.

Come recentemente sottolineato in un briefing al Senato da Barbara Leaf, Assistant Secretary of State for Near Eastern Affairs, la Syria policy statunitense ruota attorno a tre priorità: 1) Assicurarsi la sconfitta dello Stato Islamico e di al-Qaeda; 2) mantenere minimo il livello di violenza nel paese sostenendo i diversi cessate il fuoco; 3) promuovere accountability per i crimini commessi dal regime di Bashar al-Assad, in parallelo ad una soluzione politica al conflitto secondo la Risoluzione 2254 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

La caccia ad al-Qaeda e all’IS

Le operazioni di counter-terrorism statunitense in Siria avvengono sul campo con l’aiuto dei partner locali, le Syrian Democratic Forces / People’s Protection Units nel nord-est e Maghaweir al-Thowra al confine con la Giordania, e attraverso l’utilizzo di droni e unità del Joint Special Operations Command. L’amministrazione Biden ha ottenuto alcuni discreti successi in questi anni, eliminando elementi vertice dello Stato Islamico, quali il Califfo Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurashi e Maher al-Agal, leader del gruppo in Siria.
Attraverso altre operazioni gli Stati Uniti hanno inoltre rivendicato l’uccisione di importanti leader di al-Qaeda, operanti in Siria all’interno del gruppo Tanẓīm Ḥurrās ad-Dīn, quali Abdul Hamid al-Matar e Abu Hamza al-Yemeni.

Tanẓīm Ḥurrās ad-Dīn sembra aver accusato particolarmente la campagna aerea degli Stati Uniti, anche a causa del parallelo sforzo “anti-terrorismo” di Hayʼat Taḥrīr aš-Šām, la fazione dominante in Idlib impegnata a limitare l’operatività di sigle ostili nella regione. La sigla qaedista è giunta a essere composta da poche unità, localizzate in clandestinità nella provincia di Idlib e incapaci di compiere operazioni di ampio profilo.

Lo Stato Islamico invece, seppur scottato dalla continua perdita dei propri principali leader, sembra riuscire a mantenere un discreto grado di operatività.
Cellule del gruppo conducono frequenti raid contro unità dell’Esercito Arabo Siriano nella Badia, mentre nel gennaio scorso dozzine di miliziani hanno assaltato la prigione di al-Sina ad Al-Hasakah, nel nord-est siriano, liberando secondo le Nazioni Unite tra i 100 e 300 prigionieri jihadisti.

Un conflitto congelato?  

Proseguendo con il secondo obiettivo dichiarato della Syria policy dell’amministrazione Biden, gli Stati Uniti hanno incontrato una crescente difficoltà nel perseguire una riduzione della violenza.
Se da un lato è vero che il conflitto siriano, come spesso definito da esperti ed addetti ai lavori, è da definirsi “congelato”, dall’altro l’equilibrio raggiunto è particolarmente fragile.
A sottolineare ciò vi sono le recenti dichiarazioni del presidente turco Erdogan, il quale ha chiarito il desiderio della Turchia di ampliare le aree direttamente sotto il proprio controllo militare in Siria.

Dal 2016  l’esercito turco ha infatti condotto tre diverse operazioni militari in terra siriana, con l’obiettivo di combattere la presenza lungo i propri confini delle People’s Protection Units (YPG), partner statunitense nella lotta allo Stato Islamico ma intimamente legato al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), designato dalla Turchia, e dagli USA stessi, come organizzazione terroristica. La Turchia mira ufficialmente alla creazione di una safe zone, o sarebbe meglio dire free-YPG zone, nel nord del paese; un corridoio profondo 30 chilometri lungo il proprio confine meridionale, dal Cantone di Afrin fino a giungere al confine siro-iracheno.
La scelta degli Stati Uniti di allearsi con le YPG nel 2014 in chiave anti-IS è negli anni quindi divenuta sempre più inconciliabile con l’alleanza storica tra Washington e Ankara.

Un esempio concreto e recente è la morte di Selwa Yusuf, comandante curda delle Women’s Protection Units (YPJ, formazione femminile e sorella delle YPG).
La combattente è stata eliminata da un drone dell’esercito turco, e lo US Central Command ha espresso le proprie condoglianze alla sua famiglia. La frattura tra Turchia e USA emerge analizzando il background di Selwa Yusuf la quale non era solo una comandante YPJ, ma bensì anche una militante di lunga data del PKK, e per questo obiettivo di Ankara.

Nel 2019 l’amministrazione Trump decise di cedere alle pressioni di Erdogan e accettò una limitata offensiva militare turca nel nord-est del paese, ordinando alle truppe statunitensi in loco di abbandonare le zone di contatto.
L’operazione turca si rivelò un disastro per la Syria policy americana.

La Defense Intelligence Agency chiarì nei mesi successivi come lo scoppio del conflitto avesse distratto le SDF dalla lotto antiterrorismo, e quindi permesso allo Stato Islamico di «ricostruire capacità e risorse in Siria, rafforzando la sua abilità nel pianificare attentati all’estero». Inoltre, visto il “tradimento” americano, la leadership SDF decise di chiedere aiuto alla Russia la quale mediò un cessate il fuoco con la Turchia, ottenendo però in cambio l’ingresso nelle regioni nord-orientali siriane dei propri soldati e di quelli di Bashar al-Assad. Da allora convogli russi e americani si sono spessi rincorsi e ostacolati a vicenda, nel tentativo di definire, o ridefinire, le proprie sfere di influenza.

È quindi chiaro come una ulteriore offensiva turca, ad est dell’Eufrate, danneggerebbe ulteriormente la postura statunitense nella regione, favorendo i diretti avversari di Washington, ovvero lo Stato Islamico, la Russia e la Siria (qui, per proiezione, anche l’Iran).

Ed il rischio che venga lanciata una nuova operazione è particolarmente concreto; diverse cariche pubbliche turche si sono impegnate nelle ultime settimane ad alzare la retorica ostile alle forze SDF, ed Erdogan ha sondato, con limitato successo, le opinioni di Mosca e Teheran. Il presidente turco, inoltre, ha ufficialmente dichiarato che «l’America deve lasciare l’est dell’Eufrate immediatamente […] è l’America che alimenta i gruppi terroristici nella regione».

Per Biden la situazione rischia di essere particolarmente critica; con gli Stati Uniti e la Russia impegnati su fronti opposti in Ucraina la Turchia, attore di mediazione nel conflitto europeo, potrebbe percepire maggiore spazio di manovra in Siria, dove nuovamente Mosca e Washington operano da avversari. Inoltre, Erdogan potrebbe far valere con gli US il proprio stato di paese membro della NATO in una fase di particolare delicatezza per l’Alleanza, con un ampliamento legato ai negoziati con la Turchia in corso.

Idlib: dove USA e Turchia si incontrano

Gli interessi di Washington e Ankara invece convergono nella Siria occidentale, più precisamente nella regione di Idlib dove la Turchia ha dispiegato migliaia di truppe a sostegno di un cessate il fuoco tra il regime di Bashar al-Assad e l’opposizione siriana.

È negli interessi degli USA infatti che il cessate il fuoco regga, in quanto un suo collasso porterebbe ad una disastrosa crisi umanitaria e alla fuga di milioni di persone verso l’Europa. E proprio la situazione umanitaria in Idlib è stata recentemente oggetto di discussione alle Nazioni Unite. Nel corso degli anni la Russia ha infatti posto il veto a diverse risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, riducendo gradualmente il numero di valichi transfrontalieri autorizzati a processare l’ingresso di aiuti umanitari. Questo perché l’obiettivo di Mosca è elevare Damasco ad unico ingresso in Siria degli aiuti umanitari internazionali, costringendo quindi le aree controllate dall’opposizione siriana a dipendere dal regime per la propria sopravvivenza.
Un chiaro caso di weaponization of humanitarian aid.

Nelle scorse settimane Mosca ha quindi posto il veto al prolungamento di 12 mesi del meccanismo umanitario che, attraverso il valico di Bab al-Hawa tra Turchia e Siria, forniva ai più di 4 milioni di residenti della regione di Idlib innumerevoli beni essenziali.

Con la Risoluzione 2642 il consiglio ha successivamente approvato un rinnovo del meccanismo per soli 6 mesi, fino al 10 gennaio del 2023. La Russia ha inoltre negoziato con successo l’inserimento nel testo dell’elettricità come «humanitarian activity», con l’obiettivo di continuare a sfruttare a favore di Damasco i progetti regionali per il trasferimento di energia attraverso la Siria.

Per l’ennesima volta Mosca ha quindi dimostrato di poter strumentalizzare la propria posizione all’interno del Consiglio di Sicurezza per avanzare i propri personali obiettivi in Siria; già in passato, la Russia aveva infatti concesso rinnovi solo dopo aver ottenuto un maggior engagement tra la comunità internazionale e il regime di Assad. L’amministrazione Biden dovrebbe prendere atto del fatto che i meccanismi negoziati in sede ONU negli anni precedenti non sono più sostenibili, e che la Russia è sempre meno interessata a giungere a dei compromessi con l’Occidente.

Anna Borshchevskaya, Louis Dugit-Gros e Andrew J. Tabler al riguardo hanno sottolineato come sia giunto il momento di sviluppare un “Piano B”, per quando la Russia deciderà di chiudere anche il passaggio di Bab al-Hawa. Una possibilità, simile ad un presunto schema studiato dal Regno Unito, è quella di lanciare un fondo fiduciario coinvolgendo Stati e ONG. Gli autori però notano come l’iniziativa sì circumnavigherebbe la Russia, ma garantirebbe al tempo stesso una maggiore influenza, strumentalizzabile, alla Turchia, come già detto profondamente coinvolta nella Siria settentrionale.

La farsa del Syrian Constitutional Committee

Infine, la promozione americana di una condivisa soluzione politica del conflitto si riflette nel sostegno alla Risoluzione 2254, ovvero nell’operato dello United Nations Special Envoy for Syria, Geir O. Pedersen, impegnato a mediare il lavoro del Syrian Constitutional Committee a Ginevra. Proprio il 16 luglio scorso, in un comunicato, Pedersen ha annunciato l’annullamento del nono round di negoziati, verosimilmente a causa del boicottaggio del regime siriano. Gli otto incontri precedenti si sono spesso conclusi in un nulla di fatto, data la distanza tra le tre delegazioni (regime, opposizione, società civile) e l’ostruzionismo di Damasco.

Proprio l’asse filo-governativo ha di recente criticato l’utilizzo di Ginevra come luogo designato ai negoziati, proponendo soluzioni alternative giudicate più “neutrali”, quali Abu Dhabi, Muscat, Manama, Algeri, e Nur-Sultan.

Secondo l’affermato giornalista siriano Ibrahim Hamidi Bashar al-Assad avrebbe addirittura proposto come nuova sede Sochi, Mosca o Damasco stessa.

La giustificazione principale pare sia la decisione svizzera di unirsi alle sanzioni alla Russia in seguito all’invasione dell’Ucraina, ma è chiaro comunque come questo sia un segnale alla comunità internazionale ed ai sostenitori del cosiddetto UN-facilitated Syrian-led peace process.  Assad e Mosca non ritengono utile ai loro interessi una soluzione politica condivisa, bensì preferiscono l’attuale status quo, il quale ritengono stia gradualmente mutando a loro favore.

Perché è necessaria una svolta

In conclusione, è chiaro come la Syria Policy statunitense non sia realmente strutturata sul lungo periodo, non miri a influenzare la direzione del conflitto e i suoi pilastri chiave, quali le difficilmente conciliabili intese con le SDF e la Turchia, o l’appoggio alla Risoluzione 2254, siamo sempre più fragili o oramai obsoleti.

Il processo costituzionale a Ginevra è servito solo a garantire un palco internazionale e legittimità al regime di Bashar al-Assad, non intenzionato a scendere ad alcun compromesso politico. La strutturazione stessa del meccanismo negoziale è controversa, con le delegazioni dell’opposizione e della società civile che annoverano tra i loro ranghi oppositori di stanza a Mosca o ritenuti vicino a Damasco. Inoltre, è sempre bene ricordare come gli Stati Uniti stessi abbiano fallito nell’ottenere la partecipazione al Syrian Constitutional Committee di una delegazione curdo-araba vicina alle SDF, a causa del veto turco. L’amministrazione Biden dovrebbe quindi chiedersi se sia ancora opportuno sostenere politicamente un processo politico che non coinvolge i propri alleati in Siria, ma benefici perlopiù i suoi diretti avversari.

In merito alla situazione nel nord-est siriano, la continuità della presenza statunitense in chiave anti-IS è un dichiarato obiettivo di Biden.

Eppure, lo status quo attuale, ovvero l’alleanza degli US con le SDF/YPG e l’opposizione della Turchia a questa sembra poter portare solo ad un graduale e forzato ritiro del contingente americano.

Un tale scenario avrebbe conseguenze devastanti, quali lo scoppio di una gravissima crisi umanitaria, probabili violenze settarie contro la popolazione curda da parte delle milizie arabe filo-turche (accadute ogni qual volta la Turchia ha operato contro le SDF/YPG), una maggiore penetrazione russa nel nord-est siriano e infine una ripresa delle attività dello Stato Islamico nella regione.

È quindi necessario che l’amministrazione Biden lavori a un nuovo framework strategico che riesca ad armonizzare la propria alleanza con le SDF e le minacce percepite dalla Turchia alla propria sicurezza nazionale.

Al riguardo, proprio le SDF dovranno chiarire il proprio rapporto con il PKK, la natura della propria leadership (composta spesso di membri del PKK) e fornire delle garanzie ad Ankara in merito all’operatività concessa al gruppo armato sul proprio territorio.

Infine è necessario che gli Stati Uniti, in quanto tra i principali donor verso la Siria, sfruttino i prossimi sei mesi per studiare con i partner europei e la Turchia una possibile alternativa al meccanismo ONU che ad oggi ancora sostiene la regione di Idlib.

Non si può infatti escludere che la Russia il prossimo gennaio decida di terminare l’accordo, ponendo a rischio la vita di milioni di innocenti.Inoltre, un maggiore e più chiaro sostegno militare, oltre che politico/diplomatico, al contingente militare turco in Idlib andrebbe a diretto beneficio della popolazione locale, limitando eventuali operazioni ostili al cessate il fuoco da parte di Mosca e Damasco.

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