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Famiglia italiana rapita in Mali. Quali sono le politiche di deterrenza contro i rapimenti

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Come è capitato gli anni passati in occasione della liberazione di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo prima, e di Silvia Romano poi, il recente rapimento di una famiglia italiana in Mali rischia di riaprire il mai sopito dibattito sull’opportunità di garantire alcune concessioni, tra cui il pagamento di un riscatto, per salvare la vita dei prigionieri. Prima che, come probabile, si riaccenda questa vecchia polemica, questo articolo cerca di fare luce su una questione spinosa ma tuttavia centrale: come si deve comportare lo Stato? È giusto pagare il riscatto per salvare chi è finito nelle mani di gruppi terroristici od organizzazioni criminali?

Prima di rispondere a queste domande, è necessario delineare i contorni del problema. I rapimenti sono una particolare tipologia di quello che in letteratura viene chiamato hostage taking incident, e possono essere definiti come «la detenzione illegale di una o più persone contro la loro volontà (anche mediante l’uso della forza, minaccia, frode o adescamento) allo scopo di chiedere per la loro liberazione un guadagno illecito o un qualsiasi altro vantaggio economico o materiale; o per obbligare qualcuno a fare o non fare qualcosa» (UN-CTS M5.5). Rispetto alle altre tipologie, tra cui ad esempio i dirottamenti aerei, i rapimenti sono azioni più complesse da eseguire, ma tuttavia meno rischiose e più remunerative, tanto da rappresentare tutt’oggi la più importante fonte di finanziamento per i gruppi terroristici. Sono perciò la forma più comune di hostage taking incident, costituendo l’87,8% di questo tipo di eventi nel Global Terrorism Dataset (GTD), un database che raccoglie tutti gli attentati occorsi tra il 1970 e oggi. Se si considerano solo le democrazie occidentali, i numeri mostrano come negli ultimi 50 anni i cittadini di tali paesi siano stati spesso scelti come obiettivi: considerando un campione di 28 democrazie aderenti all’OECD, sono stati 1251 i casi tra il 1970 e il 2019, con una media di 25 rapimenti per anno. Ovviamente ci sono Paesi – USA, UK, Francia, Italia e Spagna su tutti – che per ragioni storiche o di politica estera sono stati maggiormente afflitti, ma il problema a ben vedere riguarda tutte le democrazie occidentali.

Essendo un fenomeno di lungo corso, sono assai diverse le soluzioni che sono state adottate per arginarlo, tra cui la più importante e controversa è sicuramente la “politica delle non-concessioni”. Implementata a partire dagli anni ‘70 da molte cancellerie occidentali, questa strategia vieta qualunque tipo di trattativa con i carcerieri. Ovviamente il lato negativo è di facile intuizione: a meno che non scappi o non venga liberato tramite una missione di salvataggio, entrambi scenari abbastanza improbabili, il prigioniero va incontro a un destino terribile fatto di torture e lunga detenzione. Tuttavia, non di rado la politica ha derogato a questa linea. Negli USA, uno dei Paesi che più ha perseguito questa politica, l’FBI era solita aiutare le famiglie dei rapiti a pagare il riscatto, almeno prima dell’11 settembre 2001. Un caso famoso è quello del giornalista americano Thomas Hargrove, catturato in Colombia il 23 settembre 1994 e liberato l’anno seguente tramite il pagamento del riscatto alle FARC. Altri esempi si possono trovare in Israele: a seguito del rapimento di 90 bambini il 15 maggio 1974, la premier israeliana Golda Meier, fino a quel momento una fervente sostenitrice della “politica delle non-concessioni”, decise di negoziare e accettare uno scambio di prigionieri che portò alla liberazione di alcuni terroristi, tra cui Kozo Okamoto dell’armata rossa giapponese.

La questione diventa quindi: questa strategia funziona? Quali sono le sue conseguenze nel lungo periodo? Per rispondere a tali questioni, la ricerca accademica ci viene in aiuto.

Per la prima domanda, possiamo usare un caso-studio molto noto in letteratura, quello italiano. Tra rapimenti a scopo estorsivo condotti dalla criminalità organizzata e dai principali gruppi terroristici, tra gli anni 70 e 80 l’Italia era tra i paesi più colpiti da questo fenomeno. Anche grazie alla pressione dell’opinione pubblica, Roma decise quindi di risolvere questa piaga cercando di bloccare ogni possibile forma di pagamento. La legge n.82 del 1991, anche nota come “legge sul blocco dei beni”, prevedeva il congelamento dei beni della famiglia del sequestrato e di chiunque fosse sospettato di poter pagare il riscatto, punendo con il carcere chi non avesse comunicato alle autorità contatti o richieste di riscatto da parte dei carcerieri. Inoltre, le assicurazioni anti-rapimento vennero dichiarate illegali. Questa scelta, assieme ad altre riforme che agivano sul sistema penale, permise di mettere fine alla stagione dei rapimenti: negli anni 90 l’Italia perse infatti il triste primato di capitale dei rapimenti, spodestata da Colombia, Messico e Brasile. Dallo studio di questo caso pare quindi che la scelta di non negoziare con i terroristi alla fine abbia pagato e abbia permesso all’Italia di arginare il problema.

Tuttavia, ora è necessario rispondere alla seconda domanda: quali sono gli effetti di lungo periodo di questa strategia, o del suo mancato utilizzo? Anche in questo caso, la letteratura scientifica sembra dare un giudizio positivo alla politica della non-concessione. Diversi studi, in particolare quelli condotti da Todd Sandler e Patrick Brandt, hanno dimostrato come tali politiche limitino il numero dei rapimenti. Dal 2001 in poi, gli Stati che hanno deciso di garantire concessioni ai rapitori hanno visto un aumento fino all’87% di connazionali rapiti rispetto al numero mediano di rapimenti. Al contrario, in USA e UK, due Paesi che dal 2001 in poi hanno deciso di seguire pedissequamente la linea della fermezza, il numero mediano di rapiti è rimasto pressoché stabile. In definitiva, nel periodo preso in esame dai due autori citati, 1978-2013, il successo negoziale ha incoraggiato un aumento tra 26% e il 57% dei rapimenti. Se infatti nei Paesi che seguono la linea della fermezza il numero mediano di rapimenti si attesta 0,62, pagare il riscatto fa schizzare il numero mediano a 1,42.  Questi studi dimostrano quindi l’efficacia nel lungo periodo di tale politica, la quale però non elimina il problema alla radice: casi di rapimento continueranno a esserci, ma questa strategia permette di limitarne il numero in maniera sensibile. Al contrario, perseguire una politica più morbida pare avere l’effetto opposto, spingendo i gruppi terroristici a sfruttare questi eventi per finanziarsi.

Ciò detto, qual è la scelta migliore? Nessuna decisione è priva di conseguenze, tutte presentano aspetti dolorosi che è sempre bene tenere a mente. Decidere di negoziare salva le vite dei rapiti ma rischia allo stesso tempo di mettere in pericolo altre persone. Non negoziare invece agisce da deterrente per futuri rapimenti, ma il costo di tutto ciò è la vita stessa di chi si ritrova nelle mani di gruppi terroristici o criminali. Una scelta che per certi aspetti ricorda il “dilemma del tram” della filosofa inglese Philippa Ruth Foot. Immaginiamo che ci sia un tram capace solo di cambiare rotaia (tramite deviatoio) senza la possibilità di frenare. Sul binario percorso si trovano cinque persone legate e incapaci di muoversi e il tram è diretto verso di loro. Tra il tram e le persone legate c’è però un secondo binario, sul quale è presente una persona legata e impossibilitata a muoversi. La persona nei pressi del deviatoio si trova di fronte un’alternativa che comporta due sole opzioni: lasciare che il tram prosegua dritto la sua corsa, uccidendo le cinque persone, oppure azionare lo scambio e ucciderne una sola. Meglio deviare la corsa ma investire una persona invece che cinque, o non deviare e non assumersi la responsabilità di una scelta che mette in pericolo una vita? Una scelta giusta non c’è, ma una che possa minimizzare i danni futuri forse sì: non negoziare e non concedere nulla a gruppi armati di qualunque natura essi siano.

Francesco Baraldi,
Università di Genova

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