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TematicheCina e Indo-PacificoEvoluzione della politica estera cinese

Evoluzione della politica estera cinese

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L’attuale politica estera della Repubblica Popolare Cinese è il frutto di un percorso evolutivo relativamente lungo. Dal 1949 ad oggi, essa è venuta strutturandosi sulla base di elementi di rottura e di continuità che meritano di essere considerati attraverso una breve analisi storica.

EPOCA MAOISTA (1949-76)

L’epoca maoista copre un arco temporale di quasi trent’anni. In questo periodo, un evento su tutti segna la politica estera cinese: la rottura, nel 1960, dei rapporti politici tra Mosca e Pechino. Assumendo quest’evento come spartiacque, si può dire che, dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese (RPC) fino alla morte di Mao Zedong, l’élite politica cinese abbia elaborato, in materia di politica estera, due differenti dottrine.

Nella fase pre-1960, le relazioni internazionali della RPC sono informate dall’ideologia politica. A prevalere è la visione manichea di un mondo diviso in socialisti e imperialisti, che, non ammettendo soluzioni intermedie, impone risolutezza nella scelta degli alleati. Esempio di ciò può essere l’affermazione di Mao Zedong secondo cui «bisogna pendere dalla parte dell’imperialismo o del socialismo: stare in mezzo è impossibile, una terza via non esiste» (Samarani, 2008). Alla RPC, dunque, non resta che schierarsi con il campo delle forze ritenute «democratiche e amanti della pace guidato dall’URSS» (Zhou, 1989) e impegnarsi, più o meno direttamente, nel contrasto agli imperialisti, come testimoniato dalle vicende della guerra di Corea (1950-53) o dalla marcata retorica antiamericana che emerge in diversi discorsi di Mao e degli altri dirigenti cinesi.

Nella fase post-1960, l’ideologia orienta ancora le relazioni internazionali cinesi, anzi è per essa che si determina la rottura con l’URSS, la quale, promuovendo un rapporto meno teso con gli USA, finisce per essere tacciata di revisionismo. Rimasta priva di ogni significativo sostegno esterno, la RPC prova ad accreditarsi come unica propugnatrice di un ordine mondiale davvero giusto, adottando un registro politico da Paese non allineato. È il momento, tra le altre cose, della c.d. “Teoria dei tre mondi”, ovvero di una classificazione delle nazioni, in ragione delle loro pretese egemoniche. In quest’ottica, URSS e USA vengono inserite nel primo mondo, data la comune volontà di dominare il pianeta; la Cina, assieme ai Paesi ex-coloniali, si ritrova nel terzo mondo, avendo una disposizione d’animo opposta a quella delle superpotenze; gli altri Paesi sviluppati d’Occidente, invece, sono inclusi nel secondo mondo, dacché ondivaghi nel loro atteggiamento (Evans, 1995).

Concludendo, nel 1960, la RPC fuoriesce dalla logica dei blocchi e, seppur sostanzialmente isolata, pone le basi per una politica estera relativamente libera. Grazie a questa scelta, solo in parte volontaria, il 25 ottobre 1971, la RPC, soprattutto sostenuta dalle altre nazioni non allineate, prende il posto di Taiwan all’ONU, facendo oltretutto valere l’idea dell’esistenza di “un’unica Cina”.

RIFORME E APERTURA (1978-2012)

La morte di Mao Zedong (9 settembre 1976) rivoluziona la politica interna e internazionale della RPC. Infatti, dopo un breve periodo di torbidi (1976-78), la leadership della Cina comunista è assunta da una dirigenza che accantona il radicalismo ideologico, in favore dello sviluppo economico. Questa dirigenza, ormai al comando da circa 40 anni, è ben rappresentata dalla figura del proprio capostipite: Deng Xiaoping, che instrada la RPC su una linea politica rimasta essenzialmente inalterata per più di tre decadi.

Il pragmatismo, finalizzato alla prosperità economica, è il cardine di questa nuova epoca. Esso, sul piano domestico, si traduce nell’attuazione di necessarie riforme economiche, mentre, su quello internazionale, nell’apertura verso l’esterno e nella salvaguardia della pace.

L’apertura verso l’esterno è uno dei punti focali della c.d. “Teoria di Deng Xiaoping” (Zhang, 2010) e, dal 1997, dello Statuto del Partito Comunista Cinese (PCC); il suo fine è quello di assorbire capitale e conoscenza tecnico-scientifica d’avanguardia dal resto del mondo (Deng, 1995; Jiang, 2010), così da colmare il divario economico con i Paesi più sviluppati. Sulla scorta di ciò va letta, ad esempio, la normalizzazione dei rapporti diplomatici con gli USA (febbraio 1979) oppure l’istituzione progressiva (dal 1980), in territorio cinese, delle Zone Economiche Speciali, dove gli stranieri possono fare impresa, godendo di regimi fiscali favorevoli.

La salvaguardia della pace, invece, discende dal bisogno di evitare esborsi eccessivi per la difesa. Essa dipende, secondo la RPC, dall’osservanza, nelle relazioni internazionali, di cinque principi: 1) rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale, 2) non-aggressione, 3) assenza di interferenze negli affari interni, 4) eguaglianza e mutuo beneficio nei rapporti economici, e 5) coesistenza pacifica (Deng, 1994). La RPC, in più, si impegna a preservare la pace evitando alleanze vincolanti (principio della “politica estera indipendente”), promuovendo lo sfruttamento condiviso delle risorse dei territori contesi (principio dello “sviluppo congiunto”) e perseguendo una riunificazione territoriale che intende lasciar libera Taiwan, in futuro, di praticare un’economia capitalista di stampo occidentale (modello “un Paese, due sistemi”).

Riassumendo, la Cina post-maoista conserva e aumenta la libertà di manovra in politica estera, rifuggendo un’ideologia foriera di isolamento e arretratezza. Con ciò, la RPC riesce a trasformarsi in una potenza economica, capace, oltretutto, di guadagnarsi l’ingresso nel WTO (11 dicembre 2001).

SOGNO CINESE (2012-)

La linea pragmatica di Deng, adottata anche da Jiang Zemin e Hu Jintao, impone alla RPC di aprirsi rispetto al mondo, ma anche di mantenere un basso profilo politico internazionale, per crescere indisturbata. Questo precetto, riassunto dal motto «nascondere la forza, aspettare il momento», viene messo in discussione, a partire dal 2012, da Xi Jinping, attuale leader della RPC, e dalla sua politica incentrata sul «sogno del grande ringiovanimento della nazione cinese».

Il corso politico avviato da Xi, mirato a una decisiva rinascita della Cina, può essere descritto come l’intento di «costruire una società moderatamente prospera in ogni suo aspetto entro il centenario del PCC nel 2021; [e di] rendere la Cina un Paese socialista moderno, prospero, forte, democratico, culturalmente avanzato e armonioso entro il centenario della fondazione della RPC nel 2049» (Xi, 2016).

Il sogno cinese, come descritto sopra, non contempla ulteriormente l’idea di una Cina passiva sul piano internazionale; la rinascita della nazione cinese passa attraverso una politica estera più assertiva e proattiva. In altre parole, la RPC, in quanto “Paese prossimo allo sviluppo”, deve iniziare a farsi carico di certi doveri a livello globale, tra cui: l’edificazione di una civiltà ecologica, la difesa e lo sviluppo di un’economia mondiale aperta, la promozione e l’approfondimento della cooperazione win-win e delle relazioni multilaterali (Xi, 2016).

L’assunzione di simili responsabilità, però, implica il superamento di una certa soglia di rilevanza geopolitica, pena l’impossibilità d’incidere sulla comunità internazionale. Detto altrimenti, la RPC deve aumentare la propria visibilità, così da essere ascoltata con la dovuta attenzione dagli altri Paesi. Il crescente sostegno alle missioni di peace-keeping dell’ONU, il considerevole numero di viaggi all’estero di Xi, l’istituzione dell’Asian Infrastructure Investment Bank, il lancio della One Belt One Road Initiative sono tutte operazioni utili allo scopo.

In conclusione, la RPC, sotto Xi Jinping, prosegue nella politica estera impostata da Deng Xiaoping, ma con uno spirito nuovo. Nascondersi e attendere non sono più parole d’ordine, sostituite come sono da certi sogni di grandeur, che, per giunta, hanno trovato nelle recenti politiche isolazioniste americane un alleato insperato.

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