La crescente assertività cinese nell’Indo-Pacifico e la conseguente politica di contenimento da parte degli Stati Uniti implicano conseguenze politiche non indifferenti per gli Stati dell’Unione Europea, chiamati dall’alleato statunitense a prendere posizione in merito alle politiche di Pechino. Altrettanto carica di conseguenze a livello geostrategico per gli Stati europei è la tensione tra gli Washington e Mosca, con quest’ultima sempre impegnata a salvaguardare la sua sfera d’influenza nell’Europa orientale, dove molti Paesi, un tempo suoi satelliti, sono entrati nell’orbita euro-atlantica. Dinanzi a tali imprevedibili scenari in continua evoluzione, la ritrovata concordia tra gli USA e l’UE, cementata negli ultimi mesi durante appuntamenti internazionali di rilievo quale il G7, rischierebbe di incrinarsi qualora i governi del Vecchio Continente lascino aperti spiragli troppo ampi di dialogo con la Cina, competitor strategico di Washington, o con la Russia, potenza regionale che appare sempre più vicina a Pechino.
Il contrasto ai progetti cinesi legati alla Belt and Road Initiative (BRI) è un tema quanto mai sentito nella politica estera statunitense, divisa su molti temi, ma concorde nella necessità di contrastare l’ascesa economica e politica di Pechino, impegnata ad erodere gli spazi di manovra americani nell’area indo-pacifica, regione che per la Cina rappresenta “l’estero vicino”. Sin dall’annuncio del progetto nel 2013, le iniziative connesse alla Via della Seta sono andate avanti nel corso degli anni senza subire significative interruzioni, gettando le basi per quello che nelle intenzioni di Xi Jinping dovrà essere in futuro un nuovo sistema di rotte commerciali incentrato sulle esigenze economiche, politiche e geostrategiche della Cina. Le iniziative del Dragone sembravano procedere senza alcuna apparente contestazione sino all’elezione di Donald Trump, il quale, da presidente degli Stati Uniti, ha ingaggiato con Pechino una vera e propria guerra economica con annesso contenimento geostrategico che prosegue tuttora con il successore Joe Biden. Dinanzi alla politica di esplicito contenimento, il leader cinese Xi Jinping ha sempre rimarcato le differenze tra la BRI e il piano Marshall, messo in campo da Washington per l’Europa all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, sostenendo che, a differenza di quest’ultimo, la Via della Seta non ha intenti politici.
Contrariamente a quanto proclamato a gran voce dai vertici politici cinesi, la lunga serie di Paesi caduti nella trappola del debito contratto con la Cina per finanziare i progetti infrastrutturali promossi proprio da quest’ultima ha dimostrato quanto la dimensione politica non sia affatto estranea ai progetti economici portati avanti da Pechino. Casi come quello dello Sri Lanka, del Pakistan e di svariati altri Stati della regione indo-pacifica, indebitatisi per sostenere i progetti infrastrutturali al punto tale da cedere alla Cina il controllo di quelle stesse infrastrutture, nonché di basi strategiche, dimostrano l’intento di affermare la supremazia politico-economica della Cina in quella parte del globo. Se da un lato gli USA hanno posto in essere già da qualche anno delle contromisure all’avanzata economica della Cina, dall’altro lato l’Europa è rimasta in larga parte a guardare, visto che numerosi Stati hanno continuato a fare affari con Pechino arrivando persino, nel caso dell’Italia, a sottoscrivere il memorandum d’intesa per l’adesione al progetto della Via della Seta. Dopo lo scoppio dell’emergenza pandemica, e ancor più in seguito all’elezione di Joe Biden, la posizione di molti Stati europei nei confronti dell’espansionismo cinese sembra tuttavia essersi riallineato con quella di Washington.
Dinanzi alla crescente assertività cinese sul piano internazionale, e soprattutto di fronte ai tentativi di nazionalizzazione degli spazi marittimi del Mar cinese orientale e del Mar cinese meridionale, gli Stati Uniti hanno messo a punto da anni una strategia di contenimento consistente nel tutelare la libertà di navigazione nell’Indo-Pacifico attraverso periodiche esercitazioni congiunte con gli Stati della regione. Le sanzioni economiche introdotte durante la presidenza Trump hanno poi ampliato lo spettro del contenimento anche al settore finanziario e a quello dell’innovazione tecnologica, lasciando al successore Biden una situazione di conflitto latente destinata a protrarsi nei prossimi anni. L’attuale inquilino della Casa Bianca ha infatti designato Pechino quale principale competitor strategico degli Stati Uniti, cercando al contempo una sponda solida presso gli alleati europei, chiamati a ribadire il loro sostegno all’ordine liberale internazionale di cui Washington si pone come capofila anche attraverso atti concreti quale l’esclusione dei colossi tecnologici cinesi da ampie parti dei rispettivi mercati nazionali. Questa ritrovata “special relationship”, ribadita in occasione del G7 tenutosi nel giugno 2021, sembra avvalorata dalle decisioni prese da Francia, Germania e Gran Bretagna, che hanno inviato o programmano di inviare navi da guerra nella regione indo-pacifica, laddove parteciperanno ad alcune esercitazioni militari congiunte con Stati Uniti e Giappone.
Dinanzi a tali scenari globali, che vedono una potenza emergente come la Cina sfidare apertamente gli equilibri internazionali consolidati trovando intese sempre più strette con la Russia, desiderosa di controbilanciare le pressioni del blocco euro-atlantico nello spazio post-sovietico, gli Stati europei saranno prima o poi chiamati a scelte di campo decisive. L’idea europea di continuare a conciliare fedeltà euro-atlantica, stretta cooperazione economica con Pechino e sanzioni nei confronti di Mosca, si presenta strategicamente perdente se vista in una prospettiva di medio e lungo periodo in cui il Dragone continua ad erodere spazi di manovra in termini di dominio dei mercati ed esercizio del soft power mentre “il Cremlino guarda sempre più verso Oriente”. In ogni caso, in tale contesto geopolitico, la linea politica adottata dal presidente americano Biden sembra aver trovato una sponda favorevole in un’Europa che ha ormai perso da tempo la sua centralità sul piano geopolitico. La fine del periodo di “autoisolamento” degli Stati Uniti dalle vicende europee sembra aver riportato in auge l’idea della necessità di un contributo europeo alla salvaguardia dell’ordine internazionale a guida atlantista, l’unico assetto ad oggi in grado di tutelare il modello di società occidentale esistente.