Gli ultimi giorni di dicembre del 2020 hanno visto la firma di un accordo tra la Cina e l’Unione Europea in materia di investimenti: il Comprehensive Agreement on Investment (CAI). Il documento mira a favorire gli Investimenti Diretti Esteri all’interno dei due blocchi firmatari; l’accordo giunge dopo quasi un decennio di trattative e, nonostante sia incompleto, nonostante non sia ancora giunta la ratifica da parte del Parlamento Europeo, segnala in modo chiaro la volontà di intensificare gli accordi commerciali fra le due parti, giocando d’anticipo rispetto al momento in cui il presidente Biden – fresco di insediamento – potrà mettere in pratica la propria agenda internazionale.
I punti salienti
I negoziati riguardanti il CAI si sono protratti pigramente per una decina anni, accelerando poi in modo del tutto inaspettato – e passando relativamente sotto silenzio nei media tradizionali – fino alla firma inattesa del 30 dicembre scorso. Al momento della firma, il testo ufficiale non era stato ancora pubblicato, e molti degli articoli risultavano ancora incompleti, una prova sufficiente per dimostrare l’importanza che questo accordo riveste in chiave strategica sia per l’UE, che anche per la Cina.
Passando in rassegna i punti principali, alcune peculiarità dell’accordo lo rendono in un certo senso rivoluzionario: al primo posto spicca inevitabilmente la rimozione del requisito di joint venture nel settore automotive, finanziario, degli ospedali privati, dei servizi ambientali e diversi servizi per affari – immobiliari, noleggi e leasing, riparazioni e manutenzione di trasporti e altro; ciò rappresenta senza dubbio un passo in avanti verso l’integrazione economica tra i due blocchi, sebbene i settori in questione siano fra quelli maggiormente competitivi e saturi di imprese.
Inoltre, la Cina si impegna a rendere il mercato non solamente più accessibile, come abbiamo appena visto, ma anche più trasparente, soprattutto per quel che concerne le SOE (State Owned Enterprises): la trasparenza in ambito di sussidi statali, e la rimozione dell’obbligo di trasferimenti di tecnologia, rappresentano il mezzo tramite il quale Pechino esprime questo impegno. Particolare attenzione è da prestare al settore finanziario, dal momento che il Dragone ha cominciato già nel 2020 ad allentare le stringenti barriere d’ingresso come, appunto, le joint venture e il tetto alle equity possedute da investitori esteri. Il CAI potrebbe rappresentare la consacrazione definitiva dell’apertura cinese agli investimenti esteri in questo settore.
Le controversie
Per quanto entusiasmo possa aver trasmesso la firma negli ambienti diplomatici, il terreno su cui si articola il CAI rimane costellato di zone d’ombra. In primis, sembra mancare a tutti gli effetti un piano dettagliato sulla tutela degli investimenti: la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è già espressa in passato contro i meccanismi asimmetrici che contrappongono uno stato al singolo investitore; al contrario, l’UE spinge per una corte internazionale di giustizia, benché la Cina sia tradizionalmente restia ad accettare autorità sovranazionali. Per ora questa sezione dell’accordo rimane incompleta, e la risoluzione delle controversie resta a carico dei singoli stati europei nei loro rapporti bilaterali con la Repubblica Popolare Cinese. Ad ogni modo, se la Multilateral Investment Court (MIC) proposta dall’UE all’interno della Commissione delle Nazioni Unite sulla Legge del Commercio Internazionale dovesse venire effettivamente costituita, questa andrebbe a sostituire di fatto i tribunali costituiti da accordi internazionali, contribuendo a livellare il playing field degli investimenti.
Un altro fattore riguarda l’annosa questione definitoria delle attività commerciali: appoggiandosi al sistema valoriale europeo, i meccanismi di risoluzione delle controversie dovrebbero applicarsi solo alle attività identificate come “sviluppo sostenibile”, che per la verità includono una vasta gamma di settori. Tuttavia, questa restrizione pone alcune questioni tutt’altro che irrilevanti: ad esempio, come si coniugano le pratiche di lavoro eque, proprie dello sviluppo sostenibile, con le imposizioni autoritarie recentemente registrate nella provincia dello Xinjiang? Dal momento in cui Pechino ratificherà l’accordo, questa vertenza acquisirà senz’altro primaria importanza in sede di Parlamento Europeo. In aggiunta, i settori che non rientrano nella definizione di “sviluppo sostenibile” non vengono facilitati dall’accordo, e per loro si prevede un complesso meccanismo di conciliazione molto simile a quello previsto dalla WTO.
In ultima analisi, risulta anche che nelle misure di risoluzione delle controversie non rientrano alcuni elementi tipici dello sviluppo sostenibile in quanto concetto esteso, come le pratiche di responsabilità sociale e di salvaguardia dell’ambiente; anche il pressing forzato della Francia sui diritti dei lavoratori pare non aver scalfito l’inamovibile volontà cinese di privilegiare la propria sovranità nazionale. Per questi elementi, il CAI impone come unico requisito la trasparenza e accessibilità delle udienze, senza però specificare eventuali meccanismi di sanzione o esecuzione effettiva. Le mancanze sopra elencate non vanno assolutamente a inficiare i regolamenti della WTO, che ne sono ugualmente sprovvisti, ma non depongono certo a favore dell’impegno europeo volto alla trasmissione dei suoi valori fondanti.
La seconda ombra proiettata dal Comprehensive Agreement on Investment fa emergere forse l’indefinitezza istituzionale dell’Unione Europea: se da una parte il Parlamento Europeo condanna la Cina per le sue controverse iniziative sul lavoro forzato, dall’altra ecco Commissione e Consiglio che si affrettano al tavolo delle trattative per i negoziati del CAI. Ed è proprio su questi punti che l’accordo desta un certo sospetto: sebbene si tratti della prima volta che la Cina si impegna a ratificare le Convezioni fondamentali dell’ILO (International Labour Organisation), questa promessa si andrà a scontrare con le politiche autoritarie ancora in voga in alcune aree del paese, come già menzionato sopra. In seguito alla ratifica, le varie istanze acquisteranno maggiore visibilità in ambito internazionale, anche in relazione all’impegno assunto dal Dragone rispetto a due particolari articoli delle convenzioni ILO, la C29 e la C105, rispettivamente in materia di “Lavoro Forzato o Obbligatorio” e “Abolizione dei Lavori Forzati”. Nell’analizzare questo scenario, ci si pone la seguente domanda: in caso di violazione dell’accordo, su quale meccanismo si andrà a incardinare il rispetto dei vincoli sottoscritti?
Questioni domestiche e contesto internazionale
Nell’impianto piramidale del mercato cinese, l’economia e i processi imprenditoriali corrono nei binari indicati dalle decisioni politiche. Fra i tanti casi che confermano questa tendenza spiccano la recente disfatta di Alibaba al momento di presentare la sua quotazione, i grandi e intoccabili monopoli statali, e la perenne difficoltà normativa che ha sempre angustiato le aziende straniere alla scoperta del Celeste Impero. Negli ultimi decenni, diverse iniziative sono state annunciate come punti di svolta, senza mai impattare particolarmente l’infrastruttura portante del sistema cinese. Nelle prime settimane del 2021, dopo l’anno traumatizzante del Covid-19, la firma di questo storico accordo sugli investimenti stipulato con l’Unione Europea sembra poter nuovamente rivoluzionare lo stato delle cose. Si tratterà di un altro buco nell’acqua, oppure servirà davvero a segnare una nuova era del commercio internazionale?
Un accordo del genere sottintende che entrambe le parti riconoscono al proprio partner l’efficacia dello stato di diritto; a prescindere dalla solidità delle istituzioni cinesi, si tratta questo di un passo senz’altro coraggioso da parte dell’UE, considerando quante volte l’operato di Pechino è stato messo in dubbio negli ultimi anni, specialmente nella gestione delle istanze locali. La percezione di un eventuale laissez-faire europeo potrebbe prendere forma nelle stanze pechinesi anche a partire dal momento storico: L’UE ha strizzato l’occhio alla Repubblica Popolare proprio mentre l’alleato tradizionale, gli Stati Uniti, era distratto sul fronte interno da una significativa transizione politica. Lo stesso discorso si potrebbe fare a parti invertite, con i cinesi che cercano di accaparrarsi una concessione dagli europei prima che questi ricadano irreparabilmente nel blocco occidentale resuscitato dalla presidenza Biden.
In apparenza, il CAI appare favorire nettamente Bruxelles sul lato geopolitico (si pensi al vantaggio guadagnato su Washington in sede di futuri negoziati con la Cina), mentre è richiesta maggiore cautela nell’analizzare il contenuto prettamente tecnico dell’accordo sugli investimenti. A questo proposito, bisogna specificare che il bisogno di investimenti esteri è ora in Cina più forte che mai: nonostante l’invidiabile ripresa post-pandemica, infatti, Pechino dispone di liquidità limitata e di una possibilità di stimolo economico assai ridotta rispetto agli altri paesi di prima fascia. I sussidi hanno beneficiato prevalentemente le grandi aziende, pompando linfa vitale nei pilastri dell’economia nazionale, e tralasciando tutta una costellazione di entità minori che erano ormai abituate a un solido sostegno pubblico.
Prospettive future
Il CAI non solo introduce delle importanti novità per le possibilità di investimento tra i due blocchi, come la rimozione del requisito di joint venture e l’apertura dei mercati finanziari, ma ambisce in egual modo a “portare il Dragone sulla retta via”: la ratifica delle Convenzioni ILO e la spinta verso un meccanismo multilaterale delle controversie riguardo gli investimenti internazionali rappresentano le aspirazioni ultime di questo accordo.
Benché le promesse di ratifica siano piuttosto lasche, lo strumento politico sembra giocare a favore dell’UE: vengono infatti preventivati incontri a cadenza semestrale per i vari gruppi di lavoro, nonché un incontro annuale fra il vicepresidente della Commissione Europea e il vicepresidente della Repubblica Popolare Cinese. Questo piano d’azione sembra promettere un’accettabile parvenza di impegno; tuttavia, su molti altri fronti la scommessa di Bruxelles sembra appoggiarsi a probabilità pericolanti; i grandi vantaggi che l’accordo in apparenza promette – trasparenza, collaborazione, uniformità di trattamento – si trovano a bilanciare numerose zone d’ombra. Al contrario, proprio la Cina potrebbe beneficiarne sul lungo periodo, con la beffa geopolitica ai danni degli Stati Uniti, e la garanzia di un partner occidentale che mantenga un piano industriale stabile e continuativo.
Indubbiamente, l’accordo sembrerebbe confermare il cambiamento di rotta economica che Pechino ha intrapreso negli ultimi anni; la necessità di intensificare, sebbene in determinati e ristretti settori, interventi stranieri nel Paese di Mezzo, denota il bisogno cinese di agire con forza sulla domanda interna rinforzando un ampio numero di vettori. Inoltre, l’internazionalizzazione della propria economia procede inevitabilmente in direzione opposta rispetto alle politiche protezioniste maggiormente condannate dai media occidentali, basti pensare alla recente firma della Regional Comprehensive and Economic Partnership (RCEP), oltre che a quella del già menzionato CAI; al di là della baldanza politica, è forse questo il segnale più evidente che il Dragone teme sempre meno la concorrenza estera, anche in quei settori che storicamente non hanno trainato lo sviluppo economico del paese.
Il CAI deve comunque superare la ratifica del Parlamento Europeo, che richiede la partecipazione di tutte le parti in causa, incluse quelle che hanno ormai adottato per consuetudine un atteggiamento testardo in materia di politiche comunitarie, a prescindere dal tema di riferimento. Non è detto, quindi, che all’interno dei blocchi parlamentari prevalga la volontà di discostarsi nettamente da Washington, o perlomeno di prediligere un’alleanza verso Oriente. Bisogna anche tenere in considerazione che nel 2021 avranno luogo le elezioni federali tedesche, per la prima volta dopo tanti anni orfane di Angela Merkel: la Cancelliera ha avuto un ruolo centrale, insieme ad Emmanuel Macron, nel sostenere una spinta decisiva alla definizione del CAI; dal momento che le primarie del CDU hanno confermato Armin Laschet come segretario di partito e successore di Merkel, non si può escludere una diversa postura della Germania sui punti salienti sottolineati dall’accordo. In attesa che venga pubblicato il testo finale, il Comprehensive Agreement on Investment rimane un oggetto meraviglioso che mal si presta alle supposizioni, con tanti potenziali punti di svolta, e altrettante questioni ben lungi dall’essere chiarite.
Marco Suatoni e Alessandro Vesprini,
Geopolitica.info