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La ventiseiesima conferenza Onu (COP26) sul clima: quale esito e quale prospettive per il contenimento della emergenza climatica?

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La ventiseiesima conferenza  delle Nazioni Unite sul clima (COP26) ha chiuso i battenti a Glasgow dopo  due settimane di negoziati frenetici protrattisi oltre il tempo regolamentare nell’intento di raggiungere un accordo accettabile da parte dei 196 Paesi parti della conferenza in quanto aderenti alla Convenzione sui Cambiamenti Climatici del 1992.

Le intese raggiunte in sede di COP26  organizzata dal Regno Unito con il supporto del Segretariato delle Nazioni Unite e in partenariato con l’Italia si prestano a varie interpretazioni. Alcuni vedono in esse un compromesso al ribasso rispetto all’Accordo di Parigi del 2015 e alle notevoli attese della vigilia, mentre altri le considerano un ulteriore passo avanti nella giusta direzione di mantenere entro i 1,5°C a fine secolo l’aumento della temperatura media terrestre.

Come spesso accade, l’analisi più credibile è a metà strada tra le due posizioni.

In primo luogo i Paesi partecipanti hanno convenuto su alcuni punti chiave all’ordine del giorno portanti sulla necessità di:

– rafforzare gli impegni a ridurre le emissioni di CO2 entro il 2030 onde mantenere raggiungibile l’obiettivo di limitare a 1,5°C l’aumento della temperatura terrestre; 

– elevare e accelerare l’appoggio finanziario ai Paesi in via di sviluppo;

– creare un organo di coordinamento tecnico e finanziario per la compensazione dei danni e delle perdite già causati in detti Paesi dall’impatto climatico;

– formulare le regole per la completa applicazione dell’Accordo di Parigi, con riferimento alla creazione del mercato del carbonio e alle esigenze di trasparenza  e di controllo dei seguiti dati dagli Stati all’accordo stesso.

Per la prima volta poi dopo ventisei anni di riunioni annuali, i Paesi hanno convenuto sulla necessità di accelerare l’azione per ridurre l’energia proveniente dal carbone non abbattuto (unabated) e di eliminare i sussidi inefficienti ai combustibili fossili. La formulazione del fondamentale passo, proposta in primo tempo dalla presidenza, era ben più stringente e prevedeva l’eliminazione tout court del carbone come combustibile e dei sussidi alle industrie dei fossili.

Tale proposta inedita spalleggiata dalla stragrande maggioranza dei delegati ha incontrato all’ultimo momento la ferma opposizione dell’India, notoriamente grande  produttore e consumatore di carbone. I rappresentanti indiani hanno così chiesto ed ottenuto con procedura poco trasparente di diluire la portata dell’articolo e ciò ha sollevato le obiezioni di vari delegati e indotto la presidenza a scusarsi per quanto accaduto, motivando il cedimento alle richieste indiane con la necessità di preservare il raggiungimento del consenso sull’accordo finale. Alquanto promettente, invece, appare l’impegno dei Paesi a riunirsi l’anno prossimo in Egitto per sottomettere dei piani più ambiziosi di riduzione delle emissioni entro il 2030 e di formulare delle strategie a lungo termine per una giusta transizione verso l‘obiettivo di azzerare  le emissioni entro metà secolo.

Sul piano finanziario l’accordo di Glasgow richiede ai Paesi sviluppati di onorare la promessa fatta nel 2009 di mettere a disposizione entro il 2020 la somma di 100 miliardi di dollari a favore dei Paesi in via di sviluppo per l’azione di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici e di procrastinare tale impegno fino al 2025, prevedendo nel contempo un nuovo schema di aiuti per gli anni successivi. Accanto ai negoziati formali, sono state inoltre raggiunte importanti intese tra attori statali e non statali comprendenti il blocco della deforestazione, il taglio delle emissioni di metano,il passaggio alla mobilità elettrica,l’agricoltura sostenibile e l’allineamento degli investimenti privati alle esigenze della decarbonizzazione. Tali intese hanno coinvolto governi centrali, quelli di regioni e città, imprese, società di investimento e centri di ricerca scientifica e tecnologica, dando avvio a significativi progetti e collaborazioni  trasversali per contenere gli effetti dei cambiamenti climatici.

Forse è questo il risultato più tangibile della COP26: l’aver trasmesso al mondo intero il senso dell’urgenza e dell’importanza dell’azione globale collettiva per affrontare l’emergenza climatica. Anche se l’obiettivo è ancora lontano, le trattative che hanno preceduto e accompagnato la conferenza sono servite auspicabilmente a mantenere vivo l’impegno per la salvaguardia della vita sul pianeta.

La vera sfida però comincia adesso. Si tratta di vedere se i 196 Paesi vorranno e potranno accelerare i propri sforzi e passare dalle parole ai fatti nell’ambito delle loro responsabilità comuni ma differenziate a seconda delle rispettive circostanze e capacità. Prima si attiveranno nel rispetto dei loro impegni e meglio sara’ per le generazioni presenti e future. Saranno infatti gli interventi immediati, anche se parziali ma costanti e determinati, da effettuare in questo decennio per ridurre le emissioni di CO2 e altri gas climalteranti nell’atmosfera,ad evitare il raggiungimento del punto del non ritorno oltre il quale tali riduzioni potranno avere scarso effetto.

In questo caso è meglio concentrarsi sulle azioni da intraprendere a breve termine ed entro il 2030 più che su quelle a lungo termine che rimangono imperscrutabili alla politica, all’economia e forse anche alla scienza.

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