Ad accoglierci, all’aeroporto in una notte di fine novembre, in mezzo a una distesa pressoché desertica, ci sono una ventina di persone eritree. Ci troviamo in mezzo a chi, con noi, è sceso dall’aereo perché lavora in organismi internazionali, all’estero. Le strade che ci portano fino all’albergo ad Asmara sono sgombre e buie, e la città sembra essersi fermata ad almeno cinquant’anni fa: lo si vede dagli edifici, dal loro stato d’usura e dalla condizione delle infrastrutture e dei percorsi stradali. Questa è la prima impressione, che ci viene confermata anche dopo una settimana di permanenza nella capitale, dove ancora gli echi dell’affondamento del barcone al largo di Lampedusa, con circa trecento persone morte di origine eritrea, si fanno sentire, nei commenti oltre che nelle relazioni istituzionali.
Siamo, con colleghi di diverse università italiane, parte di una escursione scientifico-culturale della Società Geografica Italiana, organizzata da mesi assieme ad un tour operator locale: collaborazione necessaria soprattutto per l’ottenimento dei permessi per gli spostamenti interni. Il fine del viaggio è studiare una realtà politica e territoriale di estremo interesse, con una storia fatta di forti legami con l’Italia, in cui le città e i paesaggi sono stati molto caratterizzati dalla presenza degli italiani nel corso del tempo e dove pure, come si cercherà di illustrare meglio dopo, il vincolo con il nostro paese è considerato ancora rilevante nella vita della popolazione.
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Il Regime
In Eritrea, uno tra i dieci paesi più poveri al mondo secondo lo Human Development Index, non c’è stato rinnovo politico, la stampa è controllata dal regime che vige dall’anno dell’indipendenza (1993) e che non permette alternative partitiche. In realtà, vivendo dieci giorni nel paese, il governo – pur non rivelandosi mai apertamente e lasciando anche spazi di libertà – si fa sentire soprattutto nella farraginosa macchina burocratica, attenta ad ogni passo degli stranieri, che sono – di fatto – monitorati nei loro movimenti. Per qualsivoglia spostamento in altre città, nelle poche strade presenti vi sono infatti posti di blocco appositi: se si hanno i permessi, si può procedere, altrimenti no. I controlli si ripetono ad ogni uscita dalle città e non riguardano soltanto i turisti: le “orecchie” del regime di Isaias Afewerki arrivano ovunque, sebbene non si facciano vedere. Per dirla tutta, le città sono estremamente tranquille e il tenore di vita non pare eccessivamente disagiato, soprattutto ad Asmara. Oltretutto, da viaggiatori, non si sono mai corsi rischi: la sicurezza è pressoché ovunque assicurato e lo stile di vita eritreo ci è parso assai socievole e tranquillo.
Il presidente Afewerki è stato a capo della lotta armata d’indipendenza contro l’Etiopia, nella contesa durata trent’anni per la libertà del paese, dall’inizio degli anni Sessanta al 1991, quando venne proclamata l’indipendenza, sancita poi dal referendum dell’aprile del 1993. Durante la nostra permanenza ad Asmara, uomini del governo ci spiegano le tappe fondamentali della lotta indipendentistica, che ha visto porzioni importanti della popolazione partecipare attivamente, non solo dalla patria ma anche dall’estero, dove l’attività di pressione fu assai importante: tra i luoghi simbolo della resistenza, c’è stata senza dubbio Bologna, centro per studenti ed emigrati che si erano raccolti ed organizzati per supportare la lotta di liberazione.
Il presidente, al potere dal 1993 – ci viene spiegato in un istituto universitario costruito dai cinesi – ha passato un periodo proprio in Cina, dove si è formato politicamente e militarmente alla fine degli anni Sessanta, dopo gli studi, acquisendo le competenze e le relazioni politiche che applica ora ricoprendo la massima carica istituzionale. È proprio con i cinesi che il paese intrattiene, di fatto, uno dei pochi rapporti diplomatici e commerciali internazionali, dopo una chiusura graduale ma inesorabile – iniziata già pochi anni dopo l’indipendenza – verso il mondo esterno, in quella che alcuni eritrei descrivono come una sorta di sindrome d’accerchiamento per il timore di intromissioni estere. Intromissioni che il governo avversa non permettendo l’introduzione di tecnologie e dei normali avanzamenti: nel campo della formazione accademica, ad esempio, una riforma ha declassato le università a meri college, e non sono presenti università formalmente dette, avendo mantenuto istituti dove viene svolta soltanto attività didattica e dove quella di ricerca è ridotta al minimo. Il sabato pomeriggio della nostra visita, gli studenti sono nei cortili a giocare, mentre già si intravedono le prime crepe della struttura, che non ha nemmeno dieci anni e dove, sui tombini, compaiono scritte in tigrino e in cinese.
Le università sono semi-vuote, poi, perché il governo locale considera prioritario il rafforzamento del servizio militare, che per i giovani – uomini e donne – è obbligatorio e quasi pressoché illimitato. La scuola superiore termina a diciassette anni, e l’ultimo anno già si viene reclutati se non si hanno punteggi alti (in tal caso, è possibile scegliere l’università). Ai membri dell’esercito viene garantita una paga minima, per le più diverse mansioni (non solo militari stricto sensu) che li portano lontani da casa anche per molti anni. Soltanto per un mese, durante l’anno, è consentito tornare a casa.
La paga media nel paese, ci dicono, ammonta a circa 300 nakfa mensili (il nome della moneta locale deriva dalla città-simbolo della rivoluzione eritrea, sacca di maggior resistenza). Facendo un rapido calcolo, considerato che vige un cambio ufficiale di circa 1€/20nakfa, sembra impossibile come i bar possano essere sempre molto affollati, se una bottiglia d’acqua arriva a costare 25 nakfa e cenare in un ristorante non meno di 200. In realtà, vi è un cambio “clandestino” di 1€/65 nakfa, alimentato soprattutto dalle rimesse provenienti dall’estero, che permetterebbe uno stile di vita quasi normale. Ma questo è uno dei “coni d’ombra” del regime, che pur di mantenere il cambio simile a quello etiopico, in una competizione impossibile, lascia che si sviluppi un così ampio mercato sotterraneo di moneta locale.
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Città d’Eritrea
Il Museo storico di Massawa raccoglie gli oggetti più rappresentativi della cultura e della
storia eritrea, tutti tesi a mostrare il carattere unico, distinto da quello etiopico, di quella realtà, nel tentativo di corroborare lo spirito nazionalistico. Gli ultimi padiglioni sono dedicati agli anni dell’ottenimento dell’indipendenza: sono esposte le armi della rivoluzione, celebrati gli eroi nazionali e, allo stesso modo, le donne che ebbero un ruolo assolutamente paritario rispetto agli uomini negli anni della lotta. Qui, dove non si può fotografare, si stagliano un paio di carte militari che mostrano la strategia adottata nel febbraio del ’91 per la presa di Massawa, porto chiave d’accesso al paese, per la sua definitiva liberazione. Proprio nella città di mare, costruita dagli italiani a cavallo tra i due secoli scorsi, fu infatti combattuta una delle battaglie più sanguinose della lotta indipendentistica, che portò alla vittoria finale e che, però, cambiò in modo definitivo il volto della città medesima.
L’architettura italiana, mista ad elementi d’arabismo, è immediatamente riconoscibile, anche nella struttura dei portici che accompagnano quasi tutti i palazzi lungo il vecchio porto. Questa città era chiamata la “perla del Mar Rosso” e, visitandola, non è difficile immaginarlo. Soprattutto, è facile poter pensare a quella che un tempo, anche a detta degli abitanti del luogo, era la frenetica attività che animava la vita della città, come ogni centro portuale: tra marinai provenienti da tutto il mondo, traffici da gestire, luoghi di straordinaria bellezza e locali per il divertimento degli stessi marinai, oggi ci si può solo proiettare mentalmente verso la Massawa di inizio anni Novanta o di anni addietro, ormai passata.Oggi si presenta ai nostri occhi come un centro spettrale, una sorta di set cinematografico apocalittico. Non vi è quasi più attività portuale, la bella piazza centrale, con l’edificio di quella che un tempo fu la Banca d’Italia, totalmente distrutta e resa non operativa. Inattivi sono anche la maggior parte degli altri edifici, che compongono un quadro inquietante e al tempo stesso di un fascino senza pari. Fascino che deriva anche dalla popolazione locale, che qui, come nell’altopiano che ospita Asmara, si dimostra aperta, ospitale, elegante e legata a uno stile di vita che sembra quello che caratterizzò la nostra Italia almeno mezzo secolo fa. Nelle strade di Massawa, i segni dei combattimenti sono presenti dappertutto: le case hanno fori di proiettili, le macerie delle distruzioni sono ancora ammassate, dopo più di vent’anni, in mezzo alle strade, che sono buie e poco trafficate. Come ad Asmara, spesso la corrente elettrica viene meno e la carenza d’igiene minima è evidente pressoché ovunque. Per il caldo – a fine novembre le temperature medie erano di circa 30°C – la gente è costretta a dormire all’aperto, sul cortile della propria casa, e le brande vengono lasciate lì, appoggiate verticalmente al muro, anche di giorno.
Qui, come nel resto dell’Eritrea, si rimane colpiti dalla simpatia dei ragazzi e dei più piccoli, sempre sorridenti, nonostante abbiano poco più che stracci indosso e nulla con cui giocare. Solitamente, vedendo occidentali come noi, i bambini si fanno attorno per chiedere due o al massimo tre cose: principalmente penne o soldi e, talvolta, dolci, sempre senza eccessive insistenze. Soprattutto nei villaggi dell’interno, quando l’“accerchiamento” è considerato eccessivo, l’anziano del paese scaccia malamente i ragazzini, per mantenere quel senso di dignità che gli è stato insegnato e che – nonostante l’estrema povertà – vuole orgogliosamente mantenere e trasmettere.
Asmara è una città quasi interamente edificata dagli italiani. Lì, nel pur “blando” colonialismo italiano, i nostri ingegneri costruirono le infrastrutture viarie, idrauliche, i palazzi governativi e le strutture abitative, quelle legate allo svago e al divertimento (caffè, cinema, teatro etc.), che permangono tuttora nella capitale, sebbene l’assenza di manutenzione stia contribuendo al declino oggi evidente. Nonostante ciò, pare essere proiettati in una realtà di inizio secolo scorso, con le pubblicità italiane dell’epoca rimaste appese alle pareti dei bar, che rendono il volto di questa città ancor più interessante. Le condizioni di pulizia delle strade sono incredibilmente soddisfacenti, anche grazie al divieto governativo di utilizzare la plastica, relegata solo alle bottiglie dell’acqua: la capitale, al contrario delle altre realtà urbane, sembra vivere quella condizione “borghese” di cui gli insegnanti d’italiano del posto ci hanno parlato. Gli anziani, nei bar e nelle strade, si cimentano nel loro italiano, raccontando dell’ottimo ricordo che i nostri connazionali hanno lasciato lì e di ciò che di buono – in diversi ambiti, da quello ingegneristico a quello culinario – il colonialismo italiano seppe lasciare. La situazione sociale, sembra essere del tutto tranquilla e non si ha mai la percezione di pericolo o di minaccia, come può esservi in altri contesti africani. Nei giorni di permanenza, l’accoglienza e la ospitalità degli eritrei sono sempre state straordinarie, fuori dal comune.
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Rapporti internazionali
Il legame con l’Italia è rimasto solido nel corso del tempo, incrinato solo negli ultimi mesi dalla stagnazione della tragedia dell’affondamento del barcone il 3 ottobre scorso. Questa vicenda ha caratteri che vanno chiariti quanto prima, soprattutto nelle sedi istituzionali e diplomatiche, poiché tra le centinaia di morti del barcone, molti sarebbero proprio eritrei. Il governo di Asmara ha dapprima sminuito il numero, non volendo mostrare crepe al suo interno, per poi chiedere la restituzione delle salme dal governo italiano, che ha inizialmente “preso tempo” sulla questione. Alle insistenze del governo eritreo, il ministero della Difesa italiano ha risposto affidando la competenza delle salme alla Croce Rossa internazionale, organismo che – in quanto sovrannazionale – è maggiormente esente da criticità diplomatiche. I corpi, al momento, sono però ancora in Italia e ciò rappresenta elemento di attrito da dover necessariamente dirimere in tempi rapidi, nonostante la stretta competenza non sia più italiana. A tale situazione, spiacevole per un verso ma di legittimo reclamo per l’altro, si aggiunge la circostanza di complessa soluzione dell’impossibilità di riconoscimento delle salme da parte dei famigliari: quasi nessuno degli eritrei si prende infatti tale responsabilità, perché sarebbero essi stessi costretti a pagare le conseguenze della fuga del proprio famigliare, scontando le severe pene previste dalla legge.
Il tragitto che i giovani eritrei compiono per arrivare sulle nostre coste passa attraverso il Sudan, unico degli Stati confinanti con il quale il paese intrattiene relazioni normali, per arrivare infine in Libia, dove nella maggior parte dei casi gli emigranti vengono arrestati e liberati solo dopo uno o due anni. Spesso vivono condizioni di disagio estremo, svolgendo i più svariati lavori per poter racimolare soldi necessari alle tappe successive e, in molti casi, le donne subiscono violenze sessuali. Chi ci racconta di queste storie, in un albergo di Massawa, da sostenitore del governo si chiede come si possa e emigrare da un paese che – sebbene in condizioni di povertà diffusa – garantisce comunque ai giovani una vita tranquilla e in cui le esigenze minimali sono assicurate, per affrontare i pericoli di un viaggio così rischioso, senza alcuna certezza d’arrivo o di occupazione futura, nel migliore dei casi. La stessa persona, alle nostre domande su tale questione, risponde che l’unica ragione a spingere i giovani a emigrare è l’abbaglio occidentale che passa attraverso internet e la televisione: in sostanza, una febbre di ricchezza e benessere che non può essere garantito nel paese africano.
Su quest’argomento, ci si confronta con chi sostiene che la vita nelle città eritree è tranquilla e fattibile – come, in effetti, agli occhi di uno straniero sembra – e chi invece ritiene che non vi siano le condizioni per costruire un futuro: un paese senza economia, senza possibilità di progettazione del proprio avvenire in modo indipendente, con confini assai ristretti e chiuso in se stesso. L’Eritrea, però, a esser sinceri, sembra avere entrambe queste facce, senza che prevalga l’una o l’altra. Anzi, avendo raccolto prima notizie quale regime totalmente oscurantista, qui si ha la percezione certo di una presenza forte governativa, ma dove la vita scorre serenamente e dignitosamente.
Certo è che, come sentiamo da più voci, non esiste sanità pubblica in Eritrea. Per le cure, i più fortunati vengono trasferiti in Sudan, altrimenti ci si affida alle opere di cooperazione internazionale. Tra queste, una delle più intense e proficue è proprio quella italiana. Un’équipe di pediatri cardiochirurghi dell’Università di Pisa, ad esempio, con il supporto dell’Ambasciata italiana ad Asmara (attivo e impressionante è l’impegno del nostro Ambasciatore, Marcello Fondi), proprio nel periodo di nostra permanenza ha operato per quattro giorni consecutivi nell’Ospedale di Orotta, ottenendo risultati straordinari e tutti positivi, senza complicazioni per alcun bambino, in condizioni infrastrutturali a dir poco deficitarie: fonti vicine all’Ambasciata italiana raccontano che gli sbalzi della corrente elettrica e l’assenza di luce hanno costretto i chirurghi a continuare le operazioni a cuore aperto con lampade da fronte, portate dall’Italia. L’evento ha avuto una risonanza di notevole portata su tutti i media nazionali, comprese tv locali che hanno ripreso alcune delle operazioni, di quelli che sono stati definitivi a giusto titolo degli eroi civili e che, al di là delle difficoltà diplomatiche degli ultimi mesi, contribuiscono fattivamente alla cooperazione sanitaria tra i due paesi.
Tra le altre missioni che abbiamo potuto visitare con i nostri occhi, vi è quella portata avanti dai missionari di padre Protasio, dell’ordine dei Cappuccini, che nei pressi di Massawa, lontano dal centro della città, hanno costruito una struttura scolastica di primissimo livello, con mille studenti circa (la missione ha provveduto anche a un pari numero di biciclette per gli alunni), un centinaio di computer, 4 laboratori e 40 aule, tenute in condizioni straordinarie e che forniscono un servizio educativo – soprattutto nel campo alberghiero – essenziale alla vita e alla formazione dei giovani eritrei, che infatti mostrano un affetto immediato e un insperato entusiasmo per la vita scolastica e per gli stessi docenti. La percezione nostra è quella di una vera e propria cattedrale nel deserto – e i dintorni, in effetti, non possono definirsi molto diversamente. Un’altra struttura di rilievo è quella della scuola italiana che opera ad Asmara, dove insegnano circa cinquanta nostri connazionali, gestita dalla Ambasciata, e che rilascia un diploma italiano a tutti gli effetti. È per questo che molti decidono di studiare in questa scuola, per poter un giorno avvicinarsi all’Europa con maggior facilità. Gli insegnanti ci raccontano della smania di conoscenza e di apprendimento dei giovani eritrei, che in alcuni casi li ha portati a svolgere il proprio lavoro con rinnovati stimoli e dove, ci racconta una di essi, la propria figlia, diciassettenne, dopo due anni di vita lì, in classe con altri ragazzi eritrei, non vuole più andar via.
Un altro religioso gestisce invece una biblioteca di Asmara, che raccoglie volumi riguardanti l’Africa da più di un secolo e che è la più fornita di tutta l’Eritrea. Per quanto concerne le biblioteche in lingua italiana, si tratta di quella maggiormente capiente di tutto il continente africano: qui, troviamo giovani a studiare di sabato pomeriggio e l’anziano sacerdote raccontarci con immutata vitalità dell’attività che svolge e dell’importanza che la cultura riveste nella crescita dei giovani asmariti.
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Conclusioni
Riuscire a definire se il regime di Afewerki comporti davvero la necessità dei giovani di scappare dal paese, o se – invece – si tratti di una spinta propulsiva fisiologica verso l’Occidente e la modernità che esso rappresenta, appare davvero impresa ardua e anche, se si vuole, presuntuosa. Perché la realtà politico-territoriale eritrea, con un governo militare con isolati casi di apertura verso l’esterno, con indici di povertà altissimi, sembra ancora molto lontana dagli avanzamenti che il resto del mondo, al di là delle crisi economiche, continua a vivere. Il regime, di fatto, pone dei limiti a qualsivoglia tipo di sviluppo – economico anzitutto, ma anche di tipo personale – troppo intento a proteggersi da possibili intrusioni esterne, che d’altro canto garantirebbero quel normale movimento verso il futuro, al momento pressoché assente.
Ma l’aria che si respira, è bene anche dirlo, seppure nella breve permanenza che ci ha visti protagonisti e andando oltre le considerazioni politiche e di efficienza dei servizi, è comunque quella di città e luoghi piuttosto tranquilli, dove la piccola criminalità è quasi totalmente mancante e dove è garantita una sostanziale serenità, rimarcata dalla pacatezza e ospitalità della popolazione locale.
Per quanto concerne, invece, le relazioni con l’Italia, sembra prioritario, necessario e richiesto da più parti un intervento risoluto e definitivo dei nostri organi governativi per la restituzione delle salme eritree. Anche perché forse – ed è anche un auspicio che nasce da tali riflessioni – la ricucitura totale dei rapporti con il nostro paese potrebbe essere il primo vero tassello per un’apertura eritrea al mondo occidentale. In questa direzione e a partire proprio dalle relazioni tra i due paesi, sembra essenziale il ruolo che la cultura, anche nelle complesse architetture diplomatiche, può svolgere nella risoluzione dei conflitti, a favore della cooperazione internazionale. Essa, infatti, parte anzitutto dalla conoscenza di se stessi, dei luoghi che si ha attorno e si volge quindi al passato, per arrivare a vedere – nel caso specifico – una relazione reciproca tra Eritrea e Italia, di convivenza costruttiva e di possibile supporto allo sviluppo del paese africano da parte italiana.
Un contributo che, lo abbiamo fattivamente visto, nasce anzitutto dalle opere umanitarie e di cooperazione sanitaria, ben sostenuta dagli istituti religiosi – molto presenti e di straordinaria efficienza – che offrono una speranza di reale formazione e sviluppo dei giovani eritrei. E poi, non secondariamente, dalla funzione che gli organi diplomatici italiani svolgono di continuo, nella promozione delle missioni di cui si è appena parlato e di quelle qui non menzionate, e che rappresenta quel tassello istituzionale indispensabile al mantenimento di buoni e proficui rapporti.
Nella speranza che l’Eritrea trovi presto – anche attraverso il contributo italiano – la strada per il proprio sviluppo, al fine di garantire un futuro degno, aperto e sicuro ai propri giovani.
* foto dell’autore