L’assassinio di Abe Shinzō ha scioccato il Giappone e l’intera comunità internazionale. Abe è stato il premier più longevo alla guida del paese negli ultimi sessant’anni e, per certi versi, anche il più significativo, forse assieme a Yoshida Shigeru che fu primo ministro nell’immediato dopoguerra. Per comprendere l’eredita che l’ormai defunto ex premier lascia sulla politica giapponese, abbiamo intervistato Marco Zappa, ricercatore presso il Dipartimento di studi dell’Asia e dell’Africa mediterranea dell’Università Ca Foscari di Venezia ed esperto di politica estera giapponese.
Dott. Zappa, anzitutto grazie per la disponibilità. Quali sono i traguardi e i fallimenti più significativi della politica giapponese sotto Abe Shinzō?
Fare un bilancio degli otto anni di governo di Abe, o meglio nove se consideriamo anche il primo mandato di un anno tra il 2006 e il 2007, è estremamente complesso perché ci sono molte iniziative che Abe e la sua maggioranza hanno portato avanti. Partirei da un’analisi dei principali risultati in campo internazionale. Abe era un politico di stampo conservatore, nazionalista. Aveva un’agenda, tramandata quasi di padre in figlio: è, infatti, riuscito a modernizzare un’agenda che risale ai primi anni 50 e che era stata ideata dal nonno Kishi Nobusuke, Primo Ministro tra il 1957 e il 1960. In materia di sicurezza e militare, Abe è riuscito ad accentuare l’autonomia del Giappone rispetto alla sua Alleanza con gli Stati Uniti, rendendo il paese, anche a livello retorico e discorsivo, un soggetto proattivo e protagonista sullo scenario internazionale, pur senza prescindere dall’alleanza che di fatto si è rafforzata. Abe ha avanzato varie riforme a partire dalla reinterpretazione nel 2014 dell’Articolo 9 della Costituzione volta a legittimare la presenza delle forze di autodifesa sul territorio giapponese ed il loro esercizio dell’autodifesa collettiva. Questa reinterpretazione è stata avanzata nell’ottica di una maggiore collaborazione con le forze statunitensi che agiscono negli scenari del Pacifico, e che potrebbero intervenire nel caso si verificasse una quarta crisi nello Stretto di Formosa. In questo senso, Abe ha reinterpretato la Costituzione con un decreto esecutivo. A ciò è seguita l’approvazione in Parlamento di un pacchetto di leggi di sicurezza che hanno ampliato le prerogative delle forze di autodifesa giapponesi, garantendo uno step ulteriore rispetto alle riforme che erano già state portati avanti a partire dai primi anni 90, tra cui le leggi per il Peacekeeping. Queste consentivano l’invio delle forze di autodifesa all’estero in missioni a guida ONU per mantenere la pace e fornire osservatori elettorali, come ad esempio avvenne in Cambogia e a Timor Est. È stato fatto un passo ulteriore anche rispetto alle leggi speciali dei primi anni 2000, quando il Giappone si schierò a fianco degli Stati Uniti nella lotta al terrorismo internazionale e sotto il governo Koizumi, mentore di Abe, approvò delle leggi speciali Antiterrorismo che permisero l’invio di membri delle forze di autodifesa giapponesi in funzione di supporto in Afghanistan e Iraq, così come la partecipazione delle forze di autodifesa marittima in missioni antipirateria e in quelle per contrastare il rifornimento di armi a organizzazioni terroriste. Pertanto, il Giappone oggi ha delle forze di autodifesa molto più indipendenti rispetto a due decenni fa. Questo è il risultato principale che il governo Abe ha ottenuto.
A livello istituzionale, questa riforma è stata portata avanti accentrando gran parte delle decisioni in materia di sicurezza e di politica estera nell’ufficio del Primo Ministro, che è Capo dell’Esecutivo ma anche Capo del Consiglio di Sicurezza, un organo fondato su modello americano e voluto fortemente dallo stesso Abe Shinzō. A livello di politica estera, possiamo giudicare positivamente l’attivismo di Abe sugli scenari internazionali. Ciò si evince dall’eco che la sua uccisione ha scaturito nel panorama mediatico internazionale. Abe è stato fra i leader giapponesi forse più riconosciuti all’estero, non solo per la sua partecipazione a un numero elevato di vertici internazionali, ma anche per la sua tendenza a etichettare delle politiche, come ad esempio la Abenomics. Questa è una politica economica espansiva che è stata presa a modello anche in Europa, e dagli Stati Uniti, per aumentare il flusso di liquidità nelle economie nazionali ed evitare il rischio di deflazione.
Ci sono stati però anche dei limiti all’impulso riformista di Abe. In particolar modo, l’Abenomics non ha avuto i risultati voluti, ovvero non si è tramutata in un periodo di ritorno alla crescita sostenuta dell’economia giapponese, che ancora oggi vive un periodo di recessione. Lo Yen continua, infatti, a svalutarsi. Questa svalutazione non è, in realtà, necessariamente negativa se pensiamo che una moneta più debole può sostenere l’export, su cui l’economia giapponese dipende molto. A prescindere da questo, tuttavia, l’Abenomics è stata accusata di aver favorito i grandi gruppi industriali, di aver penalizzato le piccole e medie imprese, e di aver incentivato la precarizzazione del lavoro, sostenendo gli interessi dei grandi gruppi e del grande capitale. La liberalizzazione ulteriore dei posti di lavoro porta oggi il paese ad avere una manodopera fondamentalmente costituita per il 40% da lavoratori precari. Per i lavoratori giapponesi, ci sono quindi sempre meno garanzie, a differenza invece di qualche decennio fa quando il paese era considerato il paradiso della classe media, dove chiunque poteva ottenere, appena uscito dall’università, un posto a tempo indeterminato. Sugli 8 anni di governo, dal 2012 al 2020, pesano anche la cattiva gestione del rinvio delle Olimpiadi, poi passato come testimone al successore di Abe, Suga Yoshihide, e la debacle delle Abenomask, le mascherine di Abe spedite alle famiglie giapponesi ma che erano spesso inutilizzabili in quanto in tessuto o addirittura con muffe al loro interno, e che, quindi, divennero un meme sui social. Se quindi, da un punto di vista della politica estera, il governo Abe ha sicuramente rilanciato il Giappone sugli scenari internazionali, questo ha però avuto numerosi limiti in ambito domestico.
Va aggiunto poi che, a livello internazionale, nonostante la retorica spesso nazionalista nei confronti dei vicini asiatici, sotto Abe si è trovato un equilibrio veramente molto precario con la Corea del Sud, un equilibrio che è stato rimesso in discussione con l’arrivo dell’ormai ex Presidente Moon Jae-in. Più significativo è stato invece il periodo di distensione con la Repubblica Popolare Cinese, anche questo fondamentalmente abbandonato con l’inizio della pandemia, a fronte delle crescenti incursioni cinesi nello spazio aereo e marittimo attorno alle contese isole Senkaku.
Abe è, infine, stato molto astuto nel gestire periodi di crisi e nell’utilizzare le crisi per legittimare ulteriormente la sua permanenza al governo. Qui troviamo un collegamento tra il fronte esterno e quello interno. Ne è un esempio l’emergenza nazionale del 2017 relativa ai lanci missilistici della Corea del Nord che, nei mesi successivi, si è tradotta nell’implementazione di sistemi di allarme a livello nazionale, e nel consolidamento del fronte interno, garantendo ad Abe di rimanere al potere, quale simbolo di continuità per la gestione di un momento di crisi, fondamentalmente creato dallo stesso governo.
Quale sarà l’impatto della scomparsa di Abe sulla politica del paese?
Questo è uno scenario più difficile da prevedere. Fino al momento della sua uccisione, Abe era a capo della fazione di maggioranza all’interno del Partito liberaldemocratico (PLD). Il partito di maggioranza, il PLD, è oggi al governo in Giappone con una coalizione formata anche da un partito di ispirazione Buddista legato al movimento laico-religioso della Sōka Gakkai, il Kōmeitō. Il PLD è popolato da diverse anime. Abe era il rappresentante di spicco della fazione più conservatrice e più legata ad ambienti dell’estrema destra giapponese, con cui Abe stesso ha flirtato durante gli anni di governo. Ad esempio, Abe visitò nel 2013 il tempio Yasukuni, sostenne una campagna di repressione contro le voci critiche all’interno di importanti giornali nazionali quali l’Asahi Shimbun, e cercò di esercitare un controllo maggiore sulla NHK, la tv pubblica giapponese. All’interno del PLD, ci sono altre fazioni più liberali. Per esempio, c’è anche una fazione pro-cinese che spinge per la normalizzazione dei rapporti tra i due paesi favorendo l’interscambio soprattutto a livello economico, finanziario e imprenditoriale.
Abe era una personalità di spicco non inserita in posizioni esecutive, che però era in grado di orientare importanti decisioni quali la scelta della leadership, la nomina di un nuovo governo, e la nomina di posizioni ministeriali o dei sottosegretari. Ad esempio, la nomina di Kishida, che è un candidato proveniente dalla fazione più riformista e liberale del PLD, è stata concertata anche con la fazione di Abe. Elementi della fazione dell’ex premier avrebbero, infatti, votato Kishida per la Presidenza del PLD, e quindi per il ruolo di capo dell’esecutivo. Kishida e Abe erano estremamente legati fin dagli anni in cui entrambi militavano nel movimento giovanile del partito e avevano un rapporto di amore e odio, soprattutto dopo che Kishida uscì dall’esecutivo Abe nel 2017. Tra l’altro, Kishida è stato tra i più longevi Ministri degli Esteri nella storia del Giappone post-bellico e, quindi, con Abe ha costruito la parte fondamentale della sua carriera politica. Sarà interessante vedere come Kishida riuscirà ad affrancarsi dalla lunga ombra del suo mentore, una figura ingombrante negli equilibri del partito. È chiaro che la fazione di Abe, essendo la più rappresentata all’interno del PLD, continuerà ad avere un peso notevole, al di là della mancanza di una figura di riferimento come quella dell’ex premier. A sostituirlo sarò probabilmente un suo collaboratore più stretto. Mi viene in mente Takaichi Sanae che è stata candidata alle presidenziali del PLD, in realtà come indipendente, ma che è fortemente legata all’area conservatrice e ultranazionalista del partito.
Il destino del governo Kishida è invece un po’ tutto da vedere. Si parlava già di un’accelerazione sulle riforme lasciate in sospeso da Abe, in particolare il suo sogno mancato, cioè riformare l’Articolo 9 della Costituzione, articolo che già nel 2014 è stato reinterpretato introducendo l’esercizio dell’autodifesa collettiva. Va ricordato che, dal 1947 ad oggi, non vi è mai stata una riforma costituzionale in Giappone. Il processo per portarla a termine è piuttosto lungo. La maggioranza in Parlamento è l’ultimo dei problemi, perché con le elezioni della Camera Alta, almeno per i prossimi tre anni, Kishida ha la maggioranza dei 2/3 nelle due camere, e avrebbe quindi i numeri per avanzare l’ipotesi di riforma costituzionale nell’ambito della Dieta. Più complesso è invece ottenere il supporto degli elettori nel referendum necessario per approvare qualsiasi revisione, un passaggio che scoraggerà probabilmente il percorso di riforma costituzionale, come già sotto Abe. In realtà, ci sono diversi modi per aggirare il dettato dell’Articolo 9 che vieta al Giappone di avere un esercito a pieno titolo e con cui il paese rinuncia di fatto alla guerra. Ad esempio, il governo potrebbe fare ricorso a decisioni esecutive, nuove interpretazioni, pacchetti di leggi aggiuntivi. Un’ulteriore ipotesi potrebbe essere aggiungere una sorta di articolo che riconosca la presenza delle forze armate, ma anche in questo caso si tratta comunque di modificare il testo della Costituzione. Questa era un’ipotesi su cui lo stesso Abe pareva essere al lavoro prima di lasciare il governo nel 2020, ma che non ha ancora portato a nessuna evoluzione: la bozza di modifica è in mano al PLD e non è ancora stata trasformata in una proposta effettiva presentata alle camere.
Kishida si è impegnato a perseguire il programma politico ereditato da Abe. Ci sarà continuità o pensi che l’attuale premier possa ora avere una maggiore libertà di manovra nel perseguire una politica estera ed economica che vada a deviare dalla traiettoria impostata da Abe?
Direi di no. Kishida è stato al governo con Abe per più di 5 anni, ha condivido con lui alcune decisioni di politica estera, e ha contribuito a questo ricercato protagonismo sugli scenari internazionali. Va sottolineato che l’attivismo giapponese è una risposta al declino relativo di Tokyo nella regione dell’Asia-Pacifico nel contesto non solo dell’emergere della Repubblica Popolare Cinese, ma anche dell’avanzamento della Corea del Sud a livello economico e tecnologico, e della crescita delle potenze intermedie, il Sudest Asiatico e l’area ASEAN. Alla luce di questa posizione di declino relativo, il Giappone di Abe cercò di riproporsi come potenza sugli scenari internazionali. Non dimentichiamo però che stiamo parlando della terza economia del mondo, un paese che, quindi, ha sicuramente una voce in capitolo nell’ordine internazionale attuale e che mantiene un ruolo centrale negli organismi multilaterali e nelle istituzioni internazionali, tra cui le Nazioni Unite, la Banca Mondiale, e la Banca per lo Sviluppo Asiatico, che è un’istituzione finanziaria fondamentale per lo sviluppo infrastrutturale soprattutto della regione Asia-Pacifico.
Credo sia difficile immaginare una discontinuità con quelle che sono tendenze storiche piuttosto definite: la graduale autonomia del Giappone a livello di sicurezza, diplomazia, gestione e protezione del proprio territorio e interessi con le forze di autodifesa, e, allo stesso tempo, il rafforzamento, sulla base di questa rinnovata autonomia, dell’asse con gli Stati Uniti. È difficile pensare che lo stesso Kishida, o il suo successore nel caso in cui dovesse cadere il governo (una prospettiva improbabile nel breve termine), si staccherà da queste due direttrici. È improbabile, soprattutto proprio adesso che al vertice della Casa Bianca c’è Joe Biden. Le cose potrebbero cambiare con un ritorno di Trump alla Casa Bianca. Trump era stato piuttosto critico degli alleati e aveva spiazzato la diplomazia giapponese. Ritornando all’eredità di Abe, questi era intervenuto attivamente per avvicinarsi a Trump e socializzarlo all’interno dei vertici e dei consessi internazionali. Si trattava di una sorta di diplomazia gestita a livello quasi privato tra i due leader e che consisteva in regali reciproci e partite di golf. Con un cambio alla Casa Bianca, le cose potrebbero farsi naturalmente più incerte. Per il momento, il Giappone è all-in nell’alleanza di sicurezza con gli Stati Uniti, che è stata rinnovata più e più volte nella storia a partire dal 1951, quando si firmò il primo trattato di sicurezza bilaterale.
In questo momento, Tokyo è schierata a fianco del blocco occidentale (Stati Uniti e Unione Europea) nelle sanzioni alla Russia, che sono di fatto quelle più severe che il Giappone ha applicato negli ultimi trent’anni contro un paese soggetto a tensioni internazionali. Va ricordato che Giappone e Russia hanno un confine molto stretto di mare, poco più di 13 km, e che i due paesi sono tuttora formalmente in guerra. Il fatto che il Giappone si sia schierato con l’occidente dall’inizio dell’escalation militare in Ucraina non deve sorprenderci. D’altra parte, non deve stupirci perché la Russia sembra avere un’asse strategico con Pechino. La Cina è considerata una minaccia a livello strategico e una fonte di preoccupazione per i vertici della difesa e della diplomazia giapponesi. A Tokyo, preoccupa l’assertività cinese nel Mar Cinese Meridionale, da cui passano le rotte commerciali che hanno come terminale gli stessi porti giapponesi, e l’assertivitò intorno alle isole Senkaku/Diaoyu, isole al centro di una disputa di fatto simbolica che riguarda un aspetto molto importante delle relazioni internazionali in Asia orientale, ovvero la questione della sovranità e dell’integrità territoriale. Preoccupa anche il fatto che la Cina possa rispondere con contese commerciali nel caso in cui il paese effettui scelte politiche che vadano contro gli interessi cinesi. Questo già successe quando Tokyo decise di nazionalizzare le isole Senkaku/Diaoyu. In quel frangente, la Cina rispose bloccando l’esportazione verso il Giappone di una serie di componenti, e in particolare di terre rare che servono al settore dell’automotive giapponese, settore tecnologico e manifatturiero tuttora caratterizzante l’economia di Tokyo.
È quindi sempre più difficile scindere gli aspetti politici da quelli economici. Questo sarà forse il vero banco di prova di Kishida e dei suoi successori: disaccoppiare in nome della sicurezza regionale economie così integrate come quella cinese e quella giapponese. Gli Stati Uniti sono ancora intenzionati a mantenere una preponderanza da un punto di vista della sicurezza e militare negli scenari dell’Asia-pacifico. Hanno una flotta di stanza nell’area, a partire dallo stesso Giappone che ospita un numero notevole di basi navali. Il rischio che ormai si sente ripetere sempre di più, e che è in fase di creazione soprattutto a livello retorico e narrativo, è quello che ci sia un nuovo confronto potenziale nello Stretto di Formosa. Alla luce di queste tensioni militari, lo stesso Giappone potrebbe essere chiamato a intervenire a fianco degli USA con le sue forze di autodifesa. È chiaro che l’ipotesi dell’invasione cinese di Taiwan è al momento ancora molto lontana e, come dicevo, è in fase di costruzione a livello retorico e di narrazioni. Non si può, tuttavia, escludere al 100%. In questo senso, il governo giapponese, a fronte anche dei fatti in Ucraina, ha detto che sosterrà una risposta statunitense, nel caso dovesse esserci una provocazione e attacco da parte cinese a Taiwan. Basandoci sulle dichiarazioni pubbliche del governo Kishida, possiamo quindi affermare che, nel caso in cui dovessero esplodere tensioni nella regione, il Giappone sarà probabilmente a fianco degli Stati Uniti e non a fianco della Repubblica Popolare Cinese.