In questo articolo si tenta di ripercorrere la morsa energetica che dal 2021 assottiglia i portafogli di imprese e cittadini italiani ed europei, parabola ampia della quale la guerra in Ucraina non è che la parte finale. Il 24 febbraio 2022 è stata una giornata spartiacque nella storia del continente europeo. Dopo alcune settimane di avvertimenti e allarmi da oltreoceano, quella notte il presidente russo Vladimir Putin ha ordinato l’inizio dell’operazione speciale volta alla “denazificazione” dell’Ucraina.
Da quel giorno l’Ucraina ha iniziato a subire attacchi via terra, via aria e via mare. Città sono state asserragliate e rase al suolo, spesso senza garantire ai civili delle vie di fuga in linea con il diritto internazionale. Intere aree produttive sono state completamente distrutte, il numero di migranti in fuga dalla guerra viene contato ormai nell’ordine dei milioni di persone.
Ciò che la guerra nasconde
A questo l’occidente ha risposto in maniera inaspettatamente unita, in particolare l’Unione europea. L’Ucraina è stata inondata di armi e denaro, di rifornimenti e sostegno pubblico e diplomatico. Le durissime sanzioni economiche, sebbene non si voglia far trapelare dalla Piazza Rossa, stanno pian piano erodendo il già debole sistema economico dell’Orso, sono prevedibilmente armi a doppio taglio. Questo in un’Europa dove la produzione interna di idrocarburi (petrolio e gas naturale) rispetto al consumo è pressoché inesistente. Il mondo euroatlantico ha fatto, e continua a fare, blocco granitico nella condanna dell’aggressione, pagandone le spese in bolletta. Ma anche il granito col tempo si scheggia.
Il blocco europeo viene infiltrato dalla partita energetica che da mesi sta mettendo in ginocchio imprese, cittadini e posizioni degli Stati. Italia e Germania, ad esempio, dipendenti dal gas russo per il 50% del proprio fabbisogno all’alba del 2022, si sono ritrovate tra l’incudine di un’Europa orientale impaurita dall’espansionismo russo, decisa a fermarlo con ogni mezzo possibile, e il martello di un’opinione pubblica interna spaccata in due, con a capo due governi l’uno tecnico, l’altro da poco insediato.
Ma la punta di questo iceberg, rappresentato dalla crisi energetica risultante dal conflitto in Ucraina, si era già timidamente palesata negli scorsi due anni, con l’avvento della crisi pandemica.
La punta (e l’iceberg)
La crisi di inflazione energetica, iniziata ufficialmente nel 2021, è stata poi alimentata dall’invasione russa in territorio ucraino che ne ha ingigantito la portata, creando una lunga coda di problemi ad essa collegati. Dal 2020, con il crollo dei consumi dovuti alla pandemia da Coronavirus che ha tenuto il mondo sospeso nel nulla per quadrimestri interi, i problemi connessi all’approvvigionamento di energia avevano contribuito a creare un ambiente economico inedito. Con le persone confinate nelle rispettive abitazioni il petrolio crollò al minimo storico, un tonfo del 305% del Wti. In pratica era possibile essere pagati per comprarlo (-37,63 $/barile): lo spazio di stoccaggio era finito, l’offerta galoppava, e il mondo era saturo di petrolio estratto. Il gas aveva seguito lo stesso andamento al ribasso per tutto il 2020, ma è nel 2021 che si iniziò a prefigurare la fiammata. La carenza di materie prime (carbone e gas in testa), unite alla scarsa dinamicità delle supply chain, spazzate via dalla crisi pandemica, mostravano tutte le carenze di un sistema troppo rigido negli approvvigionamenti e nella distribuzione di beni alla base delle catene produttive mondiali. Questo, legato all’invisibile ma sempre presente interconnessione delle varie filiere produttive nel sistema globale (l’incremento del prezzo del gas significa incremento del prezzo dei fertilizzanti, che si traduce a sua volta in incremento del prezzo del cibo), ha portato a una crisi inflativa generalizzata. A completare il quadro ci ha pensato un’impostazione economico-finanziaria carente di valvole di sfogo e poco preparata a combinazioni economiche sfavorevolmente variegate, sfoggiando esempi plastici come quello britannico, dove la congiuntura energetica di fine 2021 si mescolò alla situazione contingente del post-Brexit (carenza di manodopera), con la crisi dei trasporti come corollario. Risultato: scaffali vuoti, fiammata dei prezzi, pressione sui consumatori, malcontento generale.
Per il gas si era venuta a creare una situazione volatile, dovuta a un autunno (2020) – inverno (2021) particolarmente rigidi che hanno contribuito al rialzo dei prezzi, con conseguente ricorso agli stock e un calo nel riempimento dei siti in Europa (che a fine gennaio 2021 era del 51,5% contro il 71,1% del 2020).
Ma è nel pieno del 2021 che iniziò il rally dei prezzi del gas che ci porta velocemente ai giorni nostri. Ripresa dei consumi (in rapporto con il 2020), dovuta all’allentamento delle restrizioni, una primavera particolarmente fredda ad intaccare i volumi destinati al riempimento degli stock e la contrazione dell’offerta nel mondo hanno portato l’Europa a un livello di riempimento degli stoccaggi attestato al 37%: il più basso dai livelli pre-pandemia. La contingenza (sic) ha voluto che proprio nell’estate 2021 siano state dirottate parte delle forniture GNL destinate all’Europa verso le coste asiatiche, dove i prezzi si sono mantenuti sempre più alti; il prezzo generale delle commodity energetiche sia risalito, con la decisione dell’OpecPlus di non far seguire alla produzione di petrolio l’aumento dei consumi registrato rispetto ai livelli pandemici. Stando al comunicato stampa di ARERA del 30 dicembre 2021, nonostante gli interventi del governo per mitigare la pressione su famiglie e imprese, una famiglia tipo (consumi medi di energia elettrica di 2.700 kWh all’anno a una potenza impegnata di 3 kW, e 1.400 metri cubi annui di gas), si attestavano sul +55% per la componente elettrica, e del 41.8% per quella del gas.
Rubinetto ucraino
La guerra scatenata dalla Russia ha alimentato la crisi di inflazione energetica il cui acuirsi è ormai al centro dei provvedimenti governativi di mezza Europa, oltre che nelle sanzioni economiche euro-atlantiche. La volatilità risultante dal conflitto e dal ricrearsi di due blocchi contrapposti si traduce in un aumento dei prezzi giudicato da molti analisti – tra i quali il ministro della transizione ecologica Cingolani – come una forzatura dei mercati.
Di fatto, non si sono registrati cali importanti negli approvvigionamenti di gas e petrolio per volere della Russia – essendo una fonte di guadagno dell’ordine di 1 miliardo di euro al giorno – che, a mezzo Gazprom, ha finora rispettato gli obblighi contrattuali di transito (110 milioni di metri cubi al giorno) via Ucraina. Questo a differenza degli avvenimenti che hanno seguito la firma per mano di Putin del decreto del 31 marzo che, unilateralmente, sceglieva il rublo come unica valuta accettata per le forniture. Al rifiuto delle autorità polacche (PGNiG) e bulgare, il 27 aprile, la Russia ha tagliato le forniture (gasdotto Yamal).
Lo scossone all’Europa è stato dunque utile a rilanciare la riflessione sull’autonomia energetica, considerando che gli stock europei in previsione dell’autunno-inverno 2022-2023 sono pieni per poco più del 30%.
Questa era la situazione al 10 maggio.
È novità che l’autorità amministrativa del sistema di trasmissione di gas dell’Ucraina (Gas Transmission System Of Ukraine) ha deciso di sospendere il flusso di gas proveniente dalla Russia via gasdotto Sokhranivka invocando “cause di forza maggiore”. Queste, previste nel contratto di fornitura e transito, sarebbero collegate all’occupazione russa, in particolare al transito e al ritiro di risorse senza il placet dell’autorità. Negli ultimi due mesi di occupazione dello stabilimento il GTSOU sostiene di aver più volte sollecitato Gazprom, fornitore, manifestando le perplessità sulle operazioni condotte nel citato stabilimento, nella regione di Luhansk.
Il punto di transito di Sokhranivka resta fondamentale per l’approvvigionamento di metano per Italia, Austria, Romania, Ungheria e Slovacchia. Sebbene il trasporto da Luhansk potrà essere deviato verso altri gasdotti, la notizia ha subito fatto infiammare i mercati, nei quali il gas ha chiuso in rialzo del 5,35%, oltre ad aver infiammato gli animi di mezza Europa.
È infatti aperto il tavolo di trattative sul prossimo pacchetto di sanzioni Ue verso la Russia che ha già trovato nell’Ungheria di Orbán un difficile scoglio da superare: il premier chiede compensazioni per aderire all’embargo di gas e petrolio provenienti dall’est. L’ulteriore stretta posizione che le notizie da Luhansk potrebbero ancor di più trincerare.
Enea Belardinelli
Geopolitica.info