I notiziari ci informano ogni giorno di come la pandemia di Covid-19 stia creando ripercussioni in varie misure ad ogni nazione del globo. Il virus non ha risparmiato nemmeno i Paesi dell’Asia Centrale, nonostante i numeri di contagiati e morti delineino un bilancio più clemente rispetto a quello dei Paesi occidentali. L’esplosione dell’emergenza sanitaria costringe anche i Paesi meno colpiti ad adottare misure speciali per limitare il dilagare della pandemia.
Nonostante Tagikistan e Turkmenistan abbiano dichiarato di non aver registrato casi ufficiali di Coronavirus Covid-19, i due Paesi, ma similmente anche Kazakhstan, Kirghizistan e Uzbekistan, non hanno potuto e non potranno evitare di subire gli effetti delle misure antivirus. Prime tra tutte la sospensione di certe attività economiche e l’interruzione del traffico di merci transfrontaliere. Le deboli economie delle ex Repubbliche Sovietiche dell’Asia Centrale dovranno affidarsi alla cooperazione regionale per sopravvivere alla congiuntura dell’emergenza virus e allo storico crollo dei prezzi del petrolio, che rischiano di dare forma ad una tempesta perfetta per l’intera regione.
Il settore energetico rappresenta un vettore fondamentale per la maggior parte delle economie della regione. I governi dei Paesi centroasiatici e caspici necessitano di pianificazione e stabilità del settore, poiché da esso dipende molto della loro attività economica. Per esempio, il Kazakhstan nei mesi scorsi aveva elaborato una previsione sul bilancio statale basata su stime di prezzi del petrolio non distanti dai 55 dollari a barile. La riduzione a meno di 20 dollari a barile rappresenta un problema non indifferente per il governo di Astana/Nur-Sultan. Problema che potrebbe manifestarsi già nel breve termine, poiché le risorse destinate al “Fondo Nazionale”, il fondo sovrano finanziato con i proventi della vendita delle risorse energetiche, dovrebbero essere utilizzate per supportare la popolazione nell’affrontare l’emergenza virus. Mancando gli introiti, mancherà una parte cospicua delle risorse utili per far fronte alle difficoltà che i prossimi mesi inevitabilmente porteranno.
Il Turkmenistan, per il quale gli introiti provenienti dalla vendita di gas naturale all’estero costituiscono una percentuale significativa del bilancio statale (circa il 70-80%), sarà costretto ad affrontare una crisi monetaria consistente se non verranno trovate alternative, in quanto le minori riserve di moneta estera indebolirebbero le possibilità di importare beni di sussistenza nel Paese, che si vedrebbe costretto a considerare manovre dall’alto potenziale inflazionistico. Il prezzo del gas naturale è legato a quello del petrolio e l’imprevedibilità del mercato mondiale degli idrocarburi non suggerisce tempi facili per il Turkmenistan, che deve far fronte ad un contesto in cui l’offerta di gas è in fase di crescita a livello mondiale (si noti la maggiore produzione di gas naturale liquefatto prevista). La Cina paga meno di $200 per mille metri cubi e, nel 2018, il Turkmenistan ha esportato qui la quasi totalità di gas naturale. Inoltre, la Russia, un secondo mercato importante, paga il gas turkmeno ad un prezzo anche inferiore rispetto alla Cina, poco più di $100 per mille metri cubi.
Una delle alternative che il Turkmenistan potrebbe adottare è la costruzione del gasdotto Trans-caspico (Trans-Caspian Pipeline, TCP), un progetto che negli ultimi anni ha attirato tanto interesse quanta opposizione politica. Si tratta di un’idea nata nella metà degli anni Novanta e poi ripresa negli anni Duemila allo scopo di aprire la via verso l’Europa occidentale al gas turkmeno. Il gasdotto dovrebbe partire da Turkmenbasy, in Turkmenistan, e arrivare a Baku, in Azerbaijan, per poi confluire nel Corridoio Meridionale del gas (Southern Gas Corridor, SGC), già realizzata e prossima al completamento – entro la fine del 2020 si prevede l’entrata in funzione del TAP, Trans-Adriatic pipeline, tratto finale dell’SGC che termina in Puglia. La strategia di diversificazione UE guadagnerebbe dalla realizzazione di tale progetto, ma vari aspetti rendono difficile la sua realizzazione. Innanzitutto, nel breve periodo le risorse economiche dei Paesi coinvolti saranno convogliate verso attività atte ad arginare la prevista forte recessione causata dal blocco degli ultimi mesi. Se la realizzazione dovesse comunque rientrare nell’elenco dei progetti ritenuti strategici, incontrerebbe l’opposizione della Russia, la quale ha più volte manifestato contrarietà al TCP. Inoltre, nell’agosto 2018, fu firmata la Convenzione sullo Stato Legale del Mar Caspio, nella quale veniva demarcata la linea delle acque territoriali dei Paesi rivieraschi (25 miglia marine dalla costa) e nella quale veniva stabilito che l’utilizzo del fondale del bacino fosse affidato a decisioni prese tramite accordi bilaterali. Questo significa che lo sfruttamento delle risorse del Mar Caspio è soggetto alle dispute tra i cinque Stati che si affacciano sulle sue acque, Azerbaijan, Russia, Turkmenistan, Iran e Kazakhstan. A complicare la faccenda c’è il fatto che l’autorizzazione a posizionare eventuali gasdotti deve essere rilasciata all’unanimità dai cinque Paesi. Difficilmente la Russia cederà e farà di tutto per evitare di favorire l’aumento di potere negoziale dei Paesi UE in ambito energetico, visto le maggiori possibilità di differenziare i canali di approvvigionamento che l’apporto di gas turkmeno darebbe loro.
La Cina, più importante mercato di sbocco del gas turkmeno, potrebbe avere interessi ad avanzare la sua partecipazione ad un progetto di tale portata, in ottica di una “via della seta dell’energia”. Tuttavia, le previsioni indicano una domanda di gas naturale in crescita per Pechino nei prossimi anni: deviare uno dei flussi su cui il Paese può contare oggi, cioè il CACP (Central Asia-China Pipeline), sarebbe una mossa azzardata.
Le prospettive per il Turkmenistan di trovare un’alternativa più redditizia per l’export del gas naturale rimangono dunque remote, o comunque confinate a periodi troppo lunghi per essere considerate utili ad affrontare le conseguenze del coronavirus.
Per quanto riguarda l’Azerbaijan, il fatto di aver aumentato gli investimenti per la produzione ed esportazione di gas naturale negli ultimi anni potrebbe smorzare il colpo inferto dal brusco calo del prezzo del petrolio, risorsa che rappresenta il prodotto maggiormente esportato da Baku. Come detto in precedenza, però, il calo del prezzo del greggio influisce su quello del gas naturale. Inoltre, la sostanziale diminuzione della domanda di risorse energetiche in generale in Europa non ha avuto sicuramente effetti positivi sull’economia del Paese. Tuttavia, è bene ribadire che il tratto finale del Southern Gas Corridor è previsto entrare in funzione entro la fine del 2020. Perciò per l’Azerbaijan, attore fondamentale dell’ensemble coinvolto nel progetto del Corridoio Meridionale, la ripresa delle attività industriali, il rilassamento delle misure restrittive anti-coronavirus, così come il ritorno di temperature invernali alla fine dell’anno potranno significare una boccata d’ossigeno dopo i difficili mesi di inizio 2020. Baku punta sull’aumento di domanda di gas naturale da parte dei Paesi UE. I prossimi mesi ci diranno quanto la ripresa economica europea influirà sui vicini produttori di risorse naturali.
I Paesi rivieraschi del Mar Caspio non sono stati risparmiati dalla pandemia, così come i loro settori energetici. Le conseguenze degli scorsi mesi di confinamento avranno sicuramente effetti sulle politiche di questi Paesi e ognuno di essi dovrà fronteggiare sfide per le quali un esito positivo è tutt’altro che scontato.
Gianmarco Donolato,
Geopolitica.info