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Gli Emirati in visita in Siria: verso la normalizzazione delle relazioni tra mondo arabo e regime di Assad?

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Lo scorso 9 novembre, una delegazione degli Emirati Arabi Uniti (EAU) guidata dal Ministro degli Esteri Sheikh Abdallah bin Zayed al-Nahyan ha incontrato il Presidente siriano Bashar al-Assad a Damasco. Questa visita è rilevante innanzitutto perché il Ministro bin Zayed è il funzionario emiratino di rango più elevato a recarsi in Siria dall’inizio del conflitto nel 2011, rappresentando l’intenzione del mondo arabo a normalizzare gradualmente le proprie relazioni con Damasco. Inoltre, si tratta di una mossa, per quanto non sorprendente, in parte rischiosa da parte di un alleato USA come gli EAU. Washington, infatti, continua a sostenere la linea dura non solo contro il regime di Assad, ma anche contro chiunque lo appoggi.

Le relazioni siriano-emiratine e gli incontri di novembre

Gli Emirati hanno tenuto un atteggiamento in qualche modo ambiguo verso la Siria negli ultimi dieci anni. Ufficialmente, hanno sostenuto l’opposizione al regime in linea con le proprie alleanze internazionali e concentrando le proprie risorse più nel conflitto in Yemen che su quello siriano a partire dal 2015. Tuttavia, a differenza degli altri membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo come l’Arabia Saudita o il Qatar, gli EAU hanno mantenuto legami evidenti con il regime siriano. Per esempio, l’ambasciata siriana ad Abu Dhabi è rimasta operativa, nel Paese hanno trovato riparo diversi membri della famiglia presidenziale, e cittadini siriani legati al regime hanno continuato relazioni di affari con compagnie e businessmen emiratini. Non è quindi una sorpresa che nel 2018 siano stati proprio gli EAU, insieme al Bahrain, a riaprire la propria ambasciata in Siria, una mossa con l’intenzione (come vedremo, condivisa da altri Stati arabi) di contrastare l’azione turca e iraniana.

È in questo contesto che è avvenuta la visita ufficiale del Ministro degli Esteri emiratino a Damasco. Durante l’incontro sono state trattate le relazioni bilaterali tra Siria ed EAU e la cooperazione in aree strategiche per gli investimenti.  L’agenzia di stampa governativa siriana SANA ha riportato l’incontro ponendo l’accento sugli interessi comuni e i rapporti “fraterni” tra i due Paesi e lodando la posizione “obiettiva e corretta” degli EAU verso Damasco. La delegazione emiratina ha parallelamente espresso attraverso l’agenzia statale WAM il proprio appoggio alla sicurezza, stabilità e unità della Siria, alla conclusione del conflitto e alla popolazione. Questa visione è stata poi ribadita ad Abu Dhabi durante l’incontro tra il Ministro bin Zayed e l’Inviato speciale per la Siria dell’ONU Geir Pedersen, riguardante gli sforzi internazionali per la soluzione della crisi siriana. Sono inoltre seguiti altri meeting bilaterali tra funzionari emiratini e siriani, a Dubai e Abu Dhabi, per approfondire la cooperazione prospettata tra i due Paesi, specialmente in ambiti come il commercio, i trasporti e il turismo.

Il significato regionale del riavvicinamento Siria-EAU

Dal 2011 la Siria di Assad è completamente emarginata dal resto del mondo arabo e da tutti gli alleati euro-americani, venendo invece fortemente sostenuta da Russia e Iran, senza i quali il regime non sarebbe sopravvissuto fino ad oggi. Ora però, gli EAU non sono l’unico Paese arabo a puntare alla normalizzazione delle relazioni con la Siria. Negli ultimi due mesi, per esempio, la Giordania ha ristabilito i contatti per la prima volta dopo dieci anni e ha riaperto un punto di confine con il Paese, e il Ministro degli Esteri egiziano ha incontrato la controparte siriana – l’incontro di grado più alto dall’inizio della guerra.

Questo atteggiamento deriva dalla presa di consapevolezza che il regime di Assad ha praticamente vinto la guerra, se mai si potesse parlare davvero di vincitori nel contesto siriano. Per quanto la situazione militare sia instabile (e quella umanitaria resti gravissima), e con alcune eccezioni come la zona di Idlib a nordovest, il regime ha ripreso un minimo di controllo su gran parte del Paese. Accettare la situazione dal punto di vista dei diversi Paesi arabi è solo una questione di tempo, per cui agire con tempismo eviterebbe solo di consegnare la Siria all’Iran e permetterebbe di avanzare i propri interessi. Per questo Abu Dhabi ha anche avanzato una richiesta di riammissione della Siria nella Lega Araba, una questione che probabilmente verrà discussa nel prossimo summit dell’organizzazione che si terrà in Algeria a marzo.

L’ostacolo americano

Alla normalizzazione delle relazioni con la Siria si oppongono fermamente gli Stati Uniti. Nonostante l’incontro del 9 novembre non sia stato volutamente pubblicizzato molto, Washington si è fatta sentire: il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price ha comunicato la preoccupazione americana per l’incontro e “il segnale che manda”, ribadendo la validità delle sanzioni. Sono queste ultime a porre un ostacolo per i Paesi arabi alleati americani che vogliono ristabilire relazioni con Damasco: misure restrittive si applicano infatti secondo il Caesar act del 2020 non solo al regime stesso, ma anche a chiunque lo sostenga, pena il congelamento dei beni. A questo riguardo, gli EAU erano già stati ammoniti dal Presidente Trump.
La motivazione che gli USA portano a sostegno della propria opposizione è la brutalità del regime di Assad e le atrocità commesse verso la popolazione civile nel corso della guerra, come l’utilizzo di armi chimiche e l’intralcio degli aiuti umanitari – questione in realtà affrontata non solo dagli Stati Uniti ma da tutti gli attori che si stanno riapprocciando alla Siria, compresi i membri della Lega araba. Al tempo stesso, le scelte di politica estera dei diversi Paesi non rappresentano meramente una scelta tra idealismo (denuncia dei crimini di guerra) oppure realismo (accettazione dello status quo). Derivano invece da considerazioni strategiche legate a questioni di realpolitik, ma anche di immagine. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, è indubbio che il pronostico per cui dopo le proteste nel 2011 Assad si sarebbe fatto da parte si sia rivelato fallace: nonostante il crescente disimpegno dal conflitto però, la posizione USA verso il regime ha comunque continuato a basarsi su questo assunto per un decennio, così a lungo da non poter cambiare improvvisamente rotta senza perdere alleati e credibilità. Cedere ad Assad significa infatti anzitutto cedere alla Russia e soprattutto all’Iran, e una Siria “iraniana” metterebbe a rischio la stabilità di Israele. Washington continua quindi ad appellarsi a una soluzione politica a guida ONU, le cui iniziative per il processo di pace sono da tempo in stallo. L’opinione americana è impossibile da ignorare per chiunque, alleato o no, voglia avere a che fare con la Siria. Sicuramente ha il potenziale di scoraggiare (e addirittura pregiudicare) tentativi di riavvicinamento: resta da vedere se potrà fermare l’ingranaggio, già in moto, che sta riportando politicamente ed economicamente la Siria nel mondo arabo.

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