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Elezioni nel Regno Unito, tra l’indipendenza scozzese e le sconfitte laburiste

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Se ci fossero stati dubbi sulle divisioni presenti all’interno del Regno Unito, i risultati della giornata elettorale di giovedì 6 maggio li hanno spazzati via. La popolazione del paese è andata al voto per decidere la composizione del parlamento scozzese (Holyrood) e di quello gallese (Senedd Cymru), ma anche di 143 consigli comunali oltre che di un seggio alla Camera dei Comuni derivante dal collegio di Hartlepool.

Una tornata elettorale di estrema importanza, considerata la posta in palio in tutto il Regno e le decine di milioni di elettori coinvolti, e non a caso è stata soprannominata Super Thursday. Un test importante per le velleità indipendentiste della Scozia, per il consenso dei conservatori di Boris Johnson dopo la gestione della pandemia e per le aspirazioni dei laburisti di Keir Starmer.

La vittoria degli indipendentisti in Scozia

Lo Scottish National Party della premier Nicola Sturgeon ha ottenuto 64 seggi, uno in meno di quelli necessari per avere la maggioranza assoluta di Holyrood, che in totale conta 129 membri. Un risultato in linea con le aspettative della vigilia, che ha visto anche un aumento del partito conservatore, che ha conquistato 31 seggi contro i 22 dei laburisti. Ma a poter essere decisivi nella formazione di una maggioranza, e quindi nella richiesta di un nuovo referendum per l’uscita dal Regno Unito, sono gli otto rappresentanti dei Verdi. Anche loro, infatti, sono favorevoli all’indipendenza e insieme allo Snp formerebbero la più grande maggioranza di sempre nel Parlamento scozzese propensa a staccarsi da Londra. A completare la composizione di Holyrood sono i 4 seggi guadagnati dai liberal democratici. Chi, invece, ne è rimasto fuori è l’ex leader dello Snp Alex Salmond, con la sua neonata formazione Alba, radicalmente indipendentista.

Sturgeon, forte del risultato del suo partito che si è confermato largamente primo nel paese, si è subito rivolta a Downing Street, sottolineando le proprie intenzioni: “non c’è alcuna giustificazione democratica per Boris Johnson o per chiunque altro cercasse di bloccare il diritto del popolo scozzese a scegliere il proprio futuro”. Indire un nuovo referendum è l’obiettivo principale per la leader, ma deve essere approvato da Londra che difficilmente lo farà, come già ribadito a più riprese volte. Dato per certo o molto probabile il rifiuto del governo centrale, è possibile che si dovrà passare per la Corte Suprema. In realtà questo forte successo elettorale non è indicativo di una volontà generale di indipendenza nel paese. I recenti sondaggi, infatti, mostrano come ci sia una sostanziale parità in Scozia tra gli unionisti e i secessionisti, con quest’ultimi che sembrano aver perso quello slancio di qualche anno fa. Per questo anche nel caso in cui venisse svolto un nuovo referendum, il suo risultato non sarebbe scontato. Anzi.

BoJo, a risultati acquisiti, si è giocato la carta dell’unità del Regno e della sua utilità, specialmente nella lotta contro il virus, e ha chiamato la leader scozzese per congratularsi dopo averle spedito una lettera invitandola a un summit con gli omologhi gallesi e nordirlandesi. 

I feudi laburisti: da Londra al Galles

E proprio le elezioni del Senedd Cymru hanno confermato la forza dei laburisti nella nazione del drago rosso. Il premier Mark Drakeford è stato confermato e il partito ha vinto 30 seggi sui 60 totali. Al secondo posto i conservatori con 16 mentre gli indipendentisti del Plaid Cymru si sono fermati a 13; l’ultimo seggio disponibile se lo sono aggiudicati i liberal democratici. Il Galles, quindi, si conferma essere storicamente la nazione più legata a Londra (non solo per la vicinanza geografica), anche se qualche mese fa lo stesso Drakeford aveva spiegato come il Regno Unito per come lo si conosce sia finito e che bisognerebbe creare al suo posto un’associazione su base volontaria da parte delle nazioni. Una cosa che a Londra non è piaciuta.

La capitale del paese è stata nuovamente al centro dell’eterna competizione tra i laburisti e i Tories. In campo sono scesi da una parte Sadiq Khan, sindaco uscente in carica dal 2016, e dall’altra Shaun Bailey, lo sfidante conservatore. Londra ha spesso votato in controtendenza rispetto al resto del paese negli ultimi tempi, come per esempio nel caso del referendum sulla Brexit dove era stata feudo del “remain”, rispetto alla marea del “leave” inglese. Anche in questo caso è andata così, con la vittoria del Labour e la riconferma di Khan come primo cittadino. Ma il risultato del partito di Keir Starmer è stato peggiore di quanto si aspettassero: Khan, infatti, ha avuto bisogno del ballottaggio, dettato dalle seconde preferenze espresse dagli elettori, per vincere con il 55,2% dei voti. Bailey si è fermato al 44,8%, andando anche oltre i risultati immaginati. Una sfida che ha avuto come temi principali quelle che sono le priorità per i londinesi e le prerogative del primo cittadino: la sicurezza, i trasporti, il lavoro e l’emergenza abitativa. 

E il Labour si è confermato anche nelle altre grandi città, come Liverpool e Manchester, ma in generale il suo bilancio è nettamente negativo, al limite della disfatta, visto che hanno tenuto 44 consigli, ma ne hanno persi otto e soprattutto segnano un totale di 1345 consiglieri, ben 326 in meno rispetto a prima. Non è un caso che sia già partita la caccia ai responsabili o, più brutalmente, ai capri espiatori, con il licenziamento di Angela Rayner, coordinatrice della campagna e presidente del partito. La cosa certa è che finora il moderato Starmer non è riuscito a rivitalizzare il partito dopo essere succeduto a Jeremy Corbyn. 

L’Inghilterra conservatrice

Già dai primi risultati delle urne usciti nella giornata di venerdì si è capito come sarebbe stata una tornata che avrebbe sorriso ai conservatori di Boris Johnson. Il seggio suppletivo di Hartlepool, una cittadina nel nord dell’Inghilterra, è stata conquistata dai Tories dopo 47 anni di laburismo. La candidata vincente Jill Mortimer ha battuto nettamente il rivale laburista Paul Williams, 52% contro il 28,7. Un’altra di quelle roccaforti del cosiddetto “Red Wall”, storicamente territori del partito Labour ma fondamentale nella vittoria di Johnson nel 2019, è quindi passata ai conservatori. 

Anche i consigli di Nuneaton & Bedworth, nelle Midlands, sono stati conquistati dai Tories, così come quello di Harlow, nell’Essex, e sono solo alcune delle vittorie del partito di Johnson in quel nord-est industriale del paese. Un altro caso emblematico è quello della contea di Durham, sempre nel nord-est, che il Labour controllava dal 1919, il cui consiglio è passato di mano. I conservatori hanno vinto in totale 63 consigli, segnando un +13 rispetto a prima delle elezioni. Un risultato che viene rimarcato anche dal numero dei consiglieri nominati, ovvero 2.345, con un aumento considerevole di 235 seggi. Un segnale di come la classe operaia si sia ancora schierata con i conservatori, voltando le spalle ai laburisti e dimostrando di avere apprezzato le scelte del premier sia nella gestione della pandemia che della Brexit. Una menzione la merita anche il partito dei Verdi, che ha ottenuto ottimi risultati in tutto il paese, con 151 consiglieri eletti e un aumento di ben 88 seggi.

Ma il Regno Unito conferma le sue peculiarità interne, con al nord la Scozia che preme per staccarsi da Londra e per rientrare nell’Unione europea. L’Inghilterra che conferma di essere la nazione dominante della Gran Bretagna, schierandosi con il governo e trainando la forza conservatrice, mentre il Galles rimane feudo laburista con poche aspirazioni nazionaliste. Senza dimenticarsi quella che è la regione più complicata e con la situazione più spinosa di tutte, ovvero l’Irlanda del Nord. Tanti diversi pezzi di un puzzle che Boris Johnson ha il compito di tenere insieme per continuare a rappresentare insieme il Regno. 

Luca Sebastiani
Geopolitica.info

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