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TematicheCina e Indo-PacificoElezioni ad Hong Kong: fallimento o successo?

Elezioni ad Hong Kong: fallimento o successo?

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Il 19 dicembre scorso si sono tenute ad Hong Kong le elezioni per il rinnovo del Parlamento locale ovvero il Legislative Council (più brevemente “LegCo”). Nonostante gli sforzi compiuti dal governo locale per indurre i cittadini a votare, soltanto il 30% degli aventi diritto ha partecipato alla tornata elettorale, segnando il record negativo di affluenza nella storia di Hong Kong (si consideri che nelle precedenti elezioni del 2016 l’affluenza era stata del 60%).

Quali sono le ragioni di questo scarsa affluenza e come deve essere interpretato il risultato? La domanda e la conseguente risposta ha bisogno di essere contestualizzata.

Il sistema politico di Hong Kong

Innanzitutto, è necessario comprendere il funzionamento del sistema politico della Regione Amministrativa Speciale di Hong Kong, che è disciplinato nella Basic Law

La Basic Law è una legge promulgata da Pechino il 4 aprile 1990 ed entrata in vigore il primo luglio 1997 con il ritorno di Hong Kong alla Cina al termine del dominio britannico. La Basic Law può essere definita una sorta di mini costituzione in quanto contiene sia previsioni a garanzia e tutela di alcuni diritti (es: proprietà privata, eleggere ed essere letti, a non essere privati della libertà arbitrariamente, ecc…) e libertà (d’opinione, stampa, riunione, religione, sciopero ecc..), sia disciplina le sue principali istituzioni ed il loro funzionamento oltre a definire i rapporti tra Hong Kong e il governo centrale di Pechino.

È importante evidenziare che la Basic Law non è una legge approvata ed emanata dalle istituzioni di Hong Kong, ma dal National People’s Congress (il Parlamento cinese) che ha anche il potere di modificarla (art. 159).

A capo del governo di Hong Kong c’è il Chief Executive (attualmente Carrie Lam) che è coadiuvato da un Executive Council. Il Chief Executive è scelto da un organo chiamato Election Committee (attualmente composto da 1.200 persone scelte dai rappresentati di vari settori che rappresentano circa il 6% dell’elettorato) e nominato dal Central People’s Government a Pechino. Nel 2021 il peso politico e le competenze dell’Election Committee sono state aumentate, infatti, questo ha ora il potere di scegliere 40 dei 90 membri del LegCo.

Il potere legislativo è nelle mani del Legislative Council, le cui elezioni si tengono ogni 4 anni. Fino al 2021, il LegCo era composto da 70 membri di cui:

– 35 eletti, diremmo, a suffragio universale;

– 30 eletti, per semplificare, da gruppi che fanno capo a settori industriali, bancari, finanziari, medico, del commercio ecc… (solitamente ritenuti pro Pechino) – comunemente denominati functional constituencies;

– 5 provengono, invece, dai district councils (in totale 18, uno per ogni distretto di Hong Kong, con funzioni meramente consultive e con qualche potere di spesa limitato progetti culturali o riguardanti l’ambiente; inoltre, una parte di questi consiglieri distrettuali siede anche nell’Election Committee).

Il sistema politico descritto è ispirato al cd. principio del “un paese due sistemi”, in forza del quale al governo nazionale compete primariamente la difesa (circa 5.000 truppe sono dislocate ad Hong Kong) e la politica estera. Come detto, però, il National People’s Congress ha il potere di modificare la Basic Law e lo Standing Committee del National People’s Congress è l’interprete di ultima istanza della Basic Law. Ricordiamo, anche, che il Chief Executive deve essere ufficialmente nominato dal governo di Pechino.

A chiusura di questo quadro riassuntivo, occorre segnalare che la Basic Law è destinata a rimanere in vigore fino al 2047. Dopo tale termine, non è chiaro quale sarà il futuro del sistema politico di Hong Kong.

La riforma elettorale del marzo 2021

Le elezioni del LegCo avrebbero dovuto tenersi nel 2020, tuttavia, ufficialmente a causa della pandemia sono state rinviate al dicembre del 2021. Nel frattempo, l’11 marzo 2021, Pechino ha approvato una serie di modifiche legislative (patriots governing Hong Kong resolution) volte a modificare la composizione del LegCo e introducendo una procedura di controllo dei candidati.  

A seguito di tale intervento legislativo, i candidati sono sottoposti a delle verifiche ad opera di uno screening o vetting committee incaricato di assicurarsi che nessun candidato possa costituire una minaccia alla sicurezza nazionale. Nelle elezioni appena passate solo ad un candidato è stato impedito di partecipare, Lau Tsz-chun, in quanto essendo un dipendente pubblico non poteva correre alle elezioni.

Le modifiche al LegCo sono state importanti in quanto hanno, da un lato aumentato il numero dei seggi e dall’altro alterato la loro ripartizione tra i vari gruppi elettorali. I seggi sono passati da 70 a 90 e sono così ripartiti:

– 20 a suffragio universale (prima erano 35);

– 40 scelti dall’Election Committee (solitamente pro-Pechino);

-30 eletti sempre dai gruppi che fanno capo ad alcuni settori.

A seguito di tale modifica, il 22% dei seggi risulta eletto a suffragio universale e i critici di tale riforma hanno sostenuto che, unitamente all’introduzione del meccanismo di controllo sulle candidature, le chance che si formi un LegCo pro-democrazia o comunque ostile a Pechino si sono ridotte.

Quali le ragioni della riforma?

Come detto, il rinvio delle elezioni del LegCo, originariamente programmate per il 2020, è stato giustificato dalla pandemia. Alcuni osservatori hanno, invece, sostenuto che le ragioni siano altre. Quale che sia la verità, la pandemia non spiega la necessità della riforma. Un passo indietro nel tempo, probabilmente, permette di avere un quadro migliore del contesto.

Nel corso del 2019 due importanti eventi accadono ad Hong Kong: lo scoppio di proteste contro Pechino (innescate da una controversia legge sulle estradizioni) e la vittoria dei gruppi pro-democrazia nelle elezioni dei district councils.

Il 30 giugno 2020, Pechino (ovvero National People’s Congress) ha approvato la legge sulla sicurezza di Hong Kong. L’intervento di Pechino ha, invero, colmato una lacuna legislativa in quanto non esisteva una disciplina specifica in materia sebbene in base all’art. 23 della Basic Law fosse espressamente previsto che tale legge avrebbe dovuto essere attuata. L’intervento di Pechino, inoltre, gode di una formale veste di legittimità in quanto, sebbene l’art. 18 della Basic Law preveda che le leggi cinesi non abbiano efficacia ad Hong Kong, il medesimo articolo stabilisce anche è fatta eccezione per quelle elencate nell’Allegato III alla Basic Law, elenco che può essere modificato dal National People’s Congress Standing Committee. In forza di tale legge, vengono istituiti i reati di secessione, sovversione, terrorismo e collusione con forze straniere. All’interno di tali figure delittuose, vengono ricomprese anche le condotte di danneggiamento di trasporti pubblici e incoraggiamento a boicottare le elezioni. Molto controverso, in quanto mina l’autonomia del potere giudiziario, è il potere conferito al Chief Executive di nominare i giudici deputati a decidere sui procedimenti riguardanti pericoli e violazioni alla sicurezza nazionale. Ancor più importante è il fatto che l’interpretazione della legge è rimessa a Pechino e non ad Hong Kong e tale legge, in caso di conflitto, prevale sulle leggi di Hong Kong.

Ciò che si può osservare è che se il 2019 è stato caratterizzato da proteste e vittorie elettorali pro-democrazia, ostili a Pechino, nel 2020 e 2021 sono state adottati degli interventi legislativi che posso considerarsi mirati a prevenire disordini e assicurare un LegCo più “patriottico”.

Osservazioni conclusive

Sono state, quindi, le elezioni dello scorso dicembre un successo? La risposta dipende dai punti di vista.

Non c’è dubbio che il governo di Hong Kong si sia sforzato di ottenere una buona affluenza alle urne e ciò è testimoniato dagli incentivi impiegati per agevolare e indurre gli elettori a votare, confidando, forse, che un’alta affluenza avrebbe in qualche modo legittimato le modifiche introdotte nel marzo precedente. Se tale era l’obiettivo, dunque, è difficile dire che le elezioni siano state un successo quanto piuttosto un fallimento: è stato toccato il record negativo di affluenza una cui lettura (più occidentale che cinese, ovviamente) potrebbe appunto essere quella di un messaggio di protesta della popolazione locale contro le riforme sopra descritte.

Sotto un diverso punto di vista, invece, le elezioni posso considerarsi un successo in quanto Pechino si è assicurata l’obiettivo ultimo che si era prefissato: ristabilire l’ordine ad Hong Kong preservando le sue istituzioni all’interno di quello che ritiene un framework di legittimità. Certo, si potrebbe obiettare che le istituzioni di Hong Kong hanno un grado di “democraticità” o quantomeno rappresentatività decisamente ridotto rispetto al passato e che gli interventi legislativi si muovono in senso contrario a quanto in qualche modo previsto e promesso nell’art. 45 della Basic Law ossia che il Chief Executive sia eletto per suffragio elettorale. 

Per concludere, è significativo che il giorno successivo alle elezioni sia stato pubblicato dal China’s State Council Information Office un documento intitolato “Hong Kong Democratic Progress Under the Framework of One Country, Two Systems” in cui viene, da una parte, ribadito il sostengo di Pechino al progetto democratico ad Hong Kong, e, dall’altra, in qualche modo giustificato il corso d’azione e le misure adottate nell’ultimo biennio dal governo nazionale. Il suffragio universale, si legge nel documento, deve considerarsi come un punto di arrivo nel progressivo sviluppo della democrazia ad Hong Kong, un obiettivo da raggiungere “in a gradual and orderly manner”. 

Democrazia, quindi, sì ma a gradi e (soprattutto) con ordine, come definito da Pechino.

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