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TematicheItalia ed EuropaElezioni e politica estera, un tema tabù?

Elezioni e politica estera, un tema tabù?

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A poco più di un mese dalle elezioni del 24-25 febbraio, è possibile intravedere i possibili scenari di politica interna che si andranno profilando. I capitoli dei programmi elettorali dedicati a fiscalità, sanità, spesa pubblica e mercato del lavoro prendono forma, seppur con formule programmatiche non sempre facili da decifrare oggi e da verificare un domani. Per quanto riguarda la politica estera, invece, regna – manco a dirlo – un atteggiamento piuttosto diplomatico.  

In passato in campagna elettorale le compagini avversarie non lesinavano attacchi all’operato internazionale del governo precedente, accusandolo a vario titolo di essere stato “negativo e squalificante per l’Italia”. Con ricorrenza bipartisan, i contendenti elettorali annunciavano la revisione dell’atteggiamento nei confronti di Stati Uniti, Israele ed Iran, giudicato generalmente troppo ambiguo (da una parte o dall’altra). Lo sfidante di turno proclamava grandi cambiamenti delle nostre posizioni sul piano internazionale: si preannunciavano spesso la revisione della missione Unifil in Libano e il riposizionamento urgente di fronte alla scomparsa del tradizionale asse franco-tedesco. Si stigmatizzava poi il governo di turno per covare un pindarico interesse in un’Europa polo alternativo agli Usa. Altri richiamavano la necessità di presentarsi come un partner forte e credibile, non suddito di Washington ma suo leale alleato. La rinnovata centralità del Mediterraneo per le sorti degli Stati periferici dell’Eurozona veniva da più parti ricordata come causa ed insieme effetto del riproporsi delle condizioni strategiche affinché l’Italia tornasse protagonista a livello internazionale.

Questa volta, complice forse l’appendice tecnica di questa legislatura, i contendenti elettorali hanno preferito contenere gli attacchi all’operato internazionale del tandem Monti-Terzi, rinunciando con stile a speculazioni elettorali sulle pagine più controverse della più recente politica estera italiana, caso Marò su tutti. Il tradizionale scarso interesse verso l’approfondimento tecnico delle principali questioni di politica estera in periodo elettorale si fa dunque ancora più sparuto, dal momento che anche le occasioni di analisi date dal confronto di slogan elettorali sul tema vengono a mancare. Non è certo solo colpa del sistema politico, la tradizionale allergia della diplomazia al sistema mediatico che mal si coniuga con il riserbo tradizionale di contatti e negoziati oggi è solo in parte messa in discussione dall’utilizzo delle piattaforme social, come blog e twitter, da parte delle feluche più ardite. Inoltre media e giornalisti sono più sensibili ai temi interni che a quelli internazionali e spesso leggono i secondi in funzione dei primi. Come evidenzia l’Istituto Affari Internazionali in un recente policy brief, è più facile che agli stessi corrispondenti esteri sia richiesta la “mediatizzazione dell’effimero”, piuttosto che l’approfondimento sullo stato delle relazioni fra paesi e sui suoi maggiori attori. In mancanza dunque di grandi dichiarazioni e promesse elettorali, possiamo comunque ipotizzare alcuni scenari in base al futuro vincitore.

Pierluigi Bersani, candidato del Centro-Sinistra, da capo dell’opposizione in questi ultimi anni ha partecipato a moltissimi viaggi istituzionali, non ultimo quello in Libia dopo aver passato il traguardo delle primarie di partito. Le dichiarazioni di Bersani si sono limitate ad un generico richiamo alla necessità di una politica estera comune e coesa per i 27(quasi 28) paesi dell’UE, cogliendo l’occasione per riprendere però il leitmotiv di una presenza italiana forte nel Mediterraneo. La campagna elettorale della coalizione cui appartiene il premier in pectore potrebbe però assumere toni più marcatamente filoeuropei come risposta all’euroscetticismo dalle cui sirene il centrodestra è parso spesso tentato. Il centro-sinistra italiano ha tradizionalmente espresso una vicinanza ai cugini poco virtuosi spagnoli, portoghesi e greci, avallando l’idea di un potenziale asse del Sud a guida franco-italiana, grazie alle affinità politiche del Pd e dei suoi alleati con l’esecutivo transalpino e l’inquilino dell’Eliseo. Certo, il centro-sinistra ha anche difeso con fermezza e realismo gli interessi delle grandi aziende italiane impegnate in Medio Oriente e nel Corno d’Africa. Resta da vedere, in funzione dei risultati elettorali delle singole anime della coalizione, quale ruolo potrebbe avere un eventuale rinnovato impulso alla cooperazione allo sviluppo, che ha subito negli ultimi anni ingenti tagli sia in termini di risorse che in termini di autonomia decisionale.

Del profilo internazionale del premier uscente Mario Monti si è discusso in abbondanza. La sua credibilità internazionale ad oggi è inversamente proporzionale all’originalità delle sue posizioni. Di certo l’originalità in politica estera è raramente un merito, ma in fase elettorale può dare qualche brivido. I richiami presenti anche nell’Agenda Monti alla salvaguardia dell’asse atlantico e alla costruzione di un’Europa più simile a quella immaginata da De Gasperi nella sua proposta di art. 38 per la CED (dicembre 1951) paiono argomenti piuttosto usurati. Nel contempo però l’apertura ad una ricerca di una visione comune con l’Europa scandinava in una logica di “scambio culturale” può rivelarsi interessante, per lo meno sulla carta. Resta da capire quanto il sostegno offertogli da ampli settori dell’establishment europeo, ed anche, seppur in modo controverso, dal esponenti di spicco del Partito Popolare Europeo, possa giovare alla “salita in politica” dell’attuale primo ministro, considerato che le istituzioni europee non godono attualmente di grande stima nel nostro Paese. 

Infine la coalizione PDL – Lega Nord guidata da Berlusconi ha fino ad oggi trattato pochissimo l’argomento. Berlusconi ha condotto in passato una politica estera intensa, esponendosi in prima persona con personaggi ambigui come Putin e Gheddafi e sostenendo progetti ambiziosi per le imprese italiane. Il suo modus operandi ha suscitato molte critiche, ma anche molti emuli.

Date alcune recenti dichiarazioni del fondatore del PDL, è più che probabile che in caso di vittoria elettorale il pallino della politica estera del nostro paese sarà affidato ad un premier meno vulcanico e più amichevole con la stampa estera – potente alleato nei tavoli negoziali come sostiene lo studioso Eytan Gilboa –, di cui però ad oggi non è facile indovinare il nome. In ogni caso, a parte alcuni interessanti spunti provenienti dal neo-leader della Lega Nord Maroni sull’Europa delle Regioni e sul suo ruolo come leva anti-crisi, non si riscontrano altre significative dichiarazioni in discontinuità con il tradizionale posizionamento italiano in Europa e nel mondo. Il ritorno in campo del Cavaliere, però, è stato accompagnato da un richiamo dal sapore cripto nazionalista all’acquiescenza montiana rispetto ai desiderata tedeschi, che coincidono, nell’immaginario collettivo, con quelle misure di austerità che, dopo aver stritolato le altre economie dell’Europa mediterranea, rischiano oggi di frenare la ripresa di quella italiana. A ciò si aggiunga che nel Pdl, maggior partito della coalizione, potrebbero prevalere i “falchi”, quei candidati che, mossi in primis dalla volontà di cavalcare il malcontento popolare, intendono addossare in toto al “nemico esterno” le cause scatenanti della recessione. 

Ci sarà un confronto televisivo tra i candidati in cui le tematiche di politica internazionale possano far pendere l’ago della bilancia da una parte o dall’altra? Difficilmente la politica estera cambia la dinamica di un turno elettorale, a meno che non sia in gioco la sicurezza nazionale o l’onore del Paese.

In conclusione è significativo che il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, incontrando a metà dicembre al Quirinale il corpo diplomatico per i consueti auguri di fine anno, abbia ricordato: “Nel naturale succedersi dei parlamenti e dei governi, gli assi portanti delle nostre relazioni internazionali non cambiano, come non cambia il rispetto degli impegni presi. Lo dimostrano tre generazioni di storia repubblicana”.

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