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TematicheCina e Indo-PacificoElevato debito pubblico e rallentamento economico attanagliano la “nuova"...

Elevato debito pubblico e rallentamento economico attanagliano la “nuova” Cina di Xi e non solo.

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L’esplosione di un nemico invisibile e imprevedibile come il virusCovid-19 ha ridefinito in poco più di un mese i confini della geopolitica. La Cina di Xi, che faceva della Belt and Road la rappresentazione concreta di una acquisita superiorità economica e finanziaria, sembra solo un ricordo sbiadito.

Alla volontà di sfidare l’unipolarismo americano su basi primariamente economiche e, poi, militari si è sostituita la necessità di combattere i retaggi maoisti di una organizzazione politica eccessivamente verticistica, poco democratica oltreché opaca. Le vicende di Li Wenliang, uno dei primi medici ad avere dato l’allarme sulla diffusione del coronavirus, lo dimostrano. Il preservare una apparenza di superiorità e sicurezza ha reso evidente una profonda fragilità istituzionale ed economica.

La Cina e lo spettro del “debito pubblico”.

Dall’avvio (1978) della politica della “porta aperta” di Deng Xiaoping (per mezzo della riforma delle ”quattro modernizzazioni”), la Cina in poco più di tre decenni, è riuscita a sorpassare il Giappone e a divenire il secondo Paese, dopo gli Stati Uniti, in termini di PIL. Ma, al contempo, aprendosi, seppur in chiave autarchica, al sistema economico internazionale, ne ha acquisito vizi e virtù. L’intensificarsi dell’interscambio e i correlativi flussi monetari tra le due sponde dell’Atlantico hanno gradualmente esteso sino all’Estremo Oriente cattive prassi dell’ingegneria finanziaria occidentale. In particolare, la consuetudine delle lobbies finanziare di creare prodotti di investimento complessi e oscuri, risultanti da un mix di derivati collegati ad articolate operazioni di credito. Non a caso, i primi profili di insostenibilità del sistema finanziario cinese hanno iniziato a delinearsi a partire dalla crisi americana del 2008. Una crisi capace di raffreddare l’economia e di contagiare le banche di Pechino, proprio perché detentrici di crediti deteriorati, derivati tossici e titoli di debito americano. Una bolla speculativa, a tutti gli effetti, che ha messo in discussione il mercato finanziario cinese e fatto perdere credibilità e prestigio al governo, determinando una diminuzione di crescita del PIL. La reazione del Presidente Xi Jinping è stata immediata: per realizzare il progetto di governo economico globale a guida cinese, è apparso necessario risollevare i mercati finanziari (con interventi diretti della Banca Centrale), rafforzando il controllo sulle Borse e sui Mercati Valutari per limitare la volatilità e sradicare le forme dannose di speculazione. Il tutto per mezzo di un programma di investimenti, crescente negli anni, da una base di spesa di circa il 12% del PIL. Un programma di investimenti che, però, ha anche comportato un massiccio aumento del debito pubblico. Infatti, se al termine del 2008 il debito lordo cinese ammontava intorno al 170-180% del PIL, oggi, si ritiene ammonti intorno al 317% del PIL.

Lo sviluppo della shadow banking.

L’attiva partecipazione cinese alla competizione economica internazionale ha avuto spinta e sostegno dallo sviluppo interno del sistema finanziario. Gli istituti bancari e finanziari hanno, infatti, offerto quantità illimitate di capitali in prestito rispetto alle riserve e alle provviste effettivamente detenute. Al contempo, le politiche di privatizzazione del settore bancario, richieste dalla WTO, hanno costituito la leva per il predominio delle banche private e di quelle a partecipazione estera. In questo modo, la tecnica della securitization o cartolarizzazione, di matrice americana, è giunta sino a Pechino, diventando prassi consolidata di gestione del rischio di credito. Prassi giustificata dalla necessità degli istituti di incentivare la propensione interna al consumo (tradizionalmente molto debole) e di far fronte alle difficoltà delle imprese private di accesso al credito; oltre che dalla necessità di assorbire un elevato numero di crediti deteriorati o non esigibili (circa 1,4 trilioni di dollari di Npl) che affliggono il sistema economico cinese. Esigenze che hanno trovato soddisfacimento in un sistema finanziario ombra (shadow banking), capace di affermarsi nonostante il persistente controllo pubblico. Un’alta percentuale di contratti di credito più o meno deteriorati sono, così, stati trasformati (cartolarizzati) in titoli finanziari commerciabili e acquistati, spesso, dagli stessi risparmiatori cinesi. Tutto ciò ha ingenerato un aumento spasmodico di debito privato, tra consumatori e imprese, e un lato dark del sistema finanziario.

L’annunciato rallentamento.

Elevati livelli di debito privato e ricorso eccessivo, da un lato, al credito al consumo e, dall’altro, a forme assicurative sanitarie hanno spinto al ribasso la crescita economica cinese già nel corso del quarto trimestre del 2019. Una contrazione economica ulteriormente peggiorata dalla forte riduzione delle esportazioni, influenzata dalla guerra commerciale con gli Usa e dalle inattese pressioni inflazionistiche interne. Pressioni inflazionistiche che sono state prodotte da un eccesso di politiche di sostegno alla domanda, per mezzo di tagli ai tassi di interesse, di agevolazioni fiscali e sussidi. In altri termini, si è dato vita ad un mercato finanziariamente egemonizzato, perciò saturo e incapace di crescere.

L’emergenza sanitaria Covid-19.

L’attuale emergenza sanitaria sta assorbendo, inevitabilmente, cospicui cespiti dalle spese correnti della bilancia dei pagamenti di Pechino, con perdite nell’ordine tra l’1% e il 3% del PIL. Se a ciò si aggiunge il blocco della produzione nella Silicon Valley Cinese dell’Hubei e il rallentamento della domanda globale di prodotti cinesi si rende quanto mai evidente l’insostenibilità del debito (sia privato che pubblico). Infatti, per alleggerire la pressione sui mutuatari, consumatori e imprese, la Banca popolare cinese ha ridotto ulteriormente il tasso di interesse e ha suggerito nuovi sussidi per gli acquisti. Una scelta avvalorata dalle principali istituzioni finanziarie internazionali. In presenza di stallo economico, infatti, la politica monetaria globale si orienta verso l’iniezione indiretta di liquidità mediante operazioni sul tasso d’interesse. Sennonché, autorevoli economisti si interrogano se non sia un arma spuntata in quanto capace di causare un’inevitabile trappola di liquidità, in cui le nuove risorse vengono assorbite interamente a titolo di risparmio e accantonamenti di riserve. Un rischio suscettibile di prodursi proprio in periodi di recessione economica come quella che ora vive la Cina, ove ordini, produzione, occupazione, consegne e scorte legate al settore manifatturiero e tecnologico presentano valori pari a quelli del 2008 (dati Ufficio nazionale di statistica cinese).

Ne deriva che l’impatto economico del coronavirus ha reso ineludibile, all’establishment cinese, un dilemma: procedere impavidamente lungo la via della crescita economica ad ogni costo o rallentare a tutela di una maggiore coesione sociale interna. Un rallentamento che permetterebbe di agire sulle criticità di natura strutturale alla base del progressivo rallentamento dell’economia. Criticità rilevabili in un eccesso del debito, nell’oscurità del sistema finanziario e in politiche monetarie accomodanti. Tre elementi, questi ultimi, valutati approfonditamente come i principali fattori della crisi economico-finanziaria americana del 2008. È naturale, allora, domandarsi se in Cina non si stiano creando i germi di una nuova crisi economica mondiale? L’alba di una nuova crisi accelerata dall’emergenza sanitaria?

Crisi economica cinese e mercato globale.

L’inevitabile rallentamento dell’ economia cinese non può che riversarsi a livello globale. La frammentazione dei processi produttivi su scala mondiale, la transnazionalità delle operazioni finanziarie e la natura reciprocamente condizionante delle transazioni commerciali impediscono di contenere i profili negativi di una crisi in Estremo Oriente. Lo dimostrano i dati macroeconomici: l’OCSE, infatti, ha ridotto le previsioni di crescita mondiale, portandola a 1,5% rispetto al 2,9% precedente. A tali previsioni ha fatto eco la stima di crescita comunicata dalla Banca Mondiale: per il 2020, vi si legge, la Cina potrebbe crescere del solo 2,3% (rispetto al 6,1% del 2019). Ciò costituirebbe una vera e propria battuta di arrestato per i progetti di egemonia economica mondiale di Xi. Cosa accadrà e come la situazione economica mondiale possa evolvere, sembra, però, non dipendere interamente dalla resilienza di Pechino e dalla capacità del presidente Xi di rilanciare una “nuova” Cina. Lo stallo economico e commerciale riguarda l’Inter globo. E potrebbe non bastare una mera trazione cinese del mercato. Molto più probabilmente sarebbe necessario un coordinamento delle politiche continentali. Ma a chi attribuire la direzione della governance commerciale, in un fase in cui anche la WTO è in crisi?

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