La politica dei targeted killings attraverso l’uso dei droni ha avuto inizio in Yemen, Afghanistan, Pakistan e Somalia dopo l’11 settembre 2001. Sul sito web drones.pitchinteractive.com, una mappa interattiva mostra per ogni anno, a partire dal 2004, il numero di attacchi e le persone colpite in Pakistan, dividendole tra bambini, civili, terroristi e “altri”.
Sotto quest’ultima categoria si fa rientrare ogni persona di sesso maschile in età militare sospettata di terrorismo. Secondo il rapporto, i droni hanno colpito circa 3213 persone in Pakistan di cui meno del 2% erano i reali obiettivi. In media, per ogni target andato a buon segno, perdono la vita 28 civili. Poiché il governo americano non ha mai divulgato le informazioni sugli attacchi, i dati sulle vittime sono stati raccolti da reporter del Bureau of Investigative Journalism, un’organizzazione americana no-profit di giornalisti indipendenti. I reporter hanno pubblicato testimonianze di civili colpiti da un drone durante feste di matrimonio, famiglie colpite mentre percorrevano una strada in auto e intere comunità che vivono quotidianamente con la paura di un attacco dal cielo.
Sebbene a partire dall’anno 2013 si registri una notevole diminuzione dei lanci, è nei primi tre anni della presidenza Obama che l’uso dei droni ha subito un notevole incremento.
I targeted killings possono essere definiti operazioni volte ad eliminare un particolare individuo, non in custodia delle autorità statali e considerato seriamente pericoloso in ragione delle sue attività terroristiche. La motivazione primaria dell’uso dei droni risiede nell’assenza del rischio di perdere soldati sul campo. L’attacco infatti avviene semplicemente premendo un pulsante all’interno di una base militare presente sul territorio o su zone limitrofe. Secondo parte della dottrina, tra cui Louis René Beres, J. Paust e John Rollins e legali del Dipartimento di Stato americano, Harold Koh e John B. Bellinger III, l’eliminazione fisica viene preferita alla cattura perché al momento dell’arresto del terrorista, l’azione criminale potrebbe essere stata già consumata o essere in fase di preparazione.
Queste operazioni possono essere eseguite quindi anche in un arco temporale in cui la vittima non è concretamente impegnata in attività ostili, se un paese ritiene che i tempi necessari per catturare, arrestare e sottoporre a processo l’individuo sospetto siano troppo lunghi per riuscire a bloccarne l’attività criminale.
Gli Stati Uniti hanno legittimato l’uso dei droni affermando che dopo l’11 settembre, il paese è in stato di guerra con Al-Qaeda, i talebani e le associazioni a loro collegate. Secondo Harold Koh, poichè Al-Qaeda si configura come un attore non-statale, l’uso della forza contro i suoi membri prevede inevitabilmente operazioni militari in territori di altri Stati. La campagna anti-americana di Al-Qaeda si configura dunque come un atto di guerra e questo giustifica l’applicabilità del diritto dei conflitti armati secondo il quale è legale l’omicidio di forze militari nemiche ben identificabili, ovvero combattenti legittimi o civili che prendono parte alle ostilità.
In tempo di pace invece si applica il diritto internazionale dei diritti umani che proibisce ogni azione di omicidio mirato condotto da uno Stato verso qualsiasi individuo a meno che l’uso della forza non rispetti i principi di necessità, proporzionalità e immediatezza del pericolo. Nei targeted killing i parametri che maggiormente vengono violati sono l’immediatezza e la necessità delle eliminazioni rispetto alla minaccia posta dato che nel momento in cui esse vengono condotte, le vittime non sono concretamente impegnate in attività idonee a creare un imminente pericolo.
Nella sentenza Hamdan v. Rumsfeld del 2009 la Corte Suprema americana ha stabilito che il conflitto tra gli USA e Al-Qaeda rientra nella categoria dei conflitti armati non internazionali. Poiché la maggior parte delle azioni di targeted killings viene eseguita fuori dai confini nazionali, la possibilità di inquadrarle in un conflitto non internazionale comporta il superamento dell’accezione tradizionale che si dà a questo tipo di conflitti; ovvero localizzati all’interno di un territorio statale tra forze governative e ribelli. Viene meno dunque il concetto classico di campo di battaglia delimitato in confini definiti. Poiché le cellule terroristiche sono presenti in tutto il mondo, il conflitto è mobile e segue i terroristi. La war on terror però non rappresenta di per sé, almeno dal punto di vista giuridico, una nuova tipologia di guerra.
In un conflitto armato, gli attacchi contro i civili sono classificabili come crimini di guerra: l’art. 8 dello Statuto della Corte penale Internazionale vieta di lanciare deliberatamente attacchi nella consapevolezza che gli stessi possano causare perdite di vite umane, lesioni alla popolazione civile o danni a proprietà di civili. È vietato inoltre attaccare o bombardare con qualsiasi mezzo, città, villaggi, abitazioni o costruzioni che non costituiscano obiettivi militari. Se si accetta dunque l’esistenza di un conflitto armato tra Al-Qaeda e gli Stati Uniti, secondo il diritto internazionale umanitario, gli attacchi con i droni che hanno provocato la morte di civili, anche non volontariamente, sono qualificabili come crimini di guerra. L’incompatibilità della guerra dei droni con il regime dei diritti umani è stata denunciata da dallo Special Rapporteur on the promotion and protection of human rights and fundamental freedoms while countering terrorism Ben Emmerson nel 2013 e nel 2014.
Anche Amnesty International denunciando l’assenza di trasparenza da parte dell’amministrazione Obama sulle operazioni, teme che vi siano state esecuzioni extragiudiziali in violazione del diritto alla vita e al giusto processo. Come affermato nel 2010 dal Relatore Speciale del Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU Philip Alston, nel Report on extrajudicial, summary or arbitrary executions, fuori da un contesto bellico e in assenza di un attacco armato imminente, un’azione di targeted killing, allo stato della normativa internazionale attuale, appare illegale.