“Porremo fine all’intesa che Mosca viola da anni”. Con queste parole il Presidente americano Donald Trump ha annunciato, lo scorso 20 Ottobre, la volontà di voler ritirare gli Stati Uniti dal Trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty), lo storico accordo firmato nel 1987 a Washington dall’allora Presidente Ronald Reagan e dal leader sovietico Michail Gorbachev.
L’intesa raggiunta tra le due superpotenze poneva fine alla corsa agli armamenti sul continente europeo, chiudendo la “Crisi degli Euromissili”, aperta a inizio decennio dalla decisone sovietica di modernizzare il proprio arsenale missilistico ormai antiquato e dalla conseguente reazione dell’Alleanza Atlantica di dislocare i nuovi missili Cruise e Pershing-2 contrastando così gli SS-20 sovietici di recente costruzione. L’accordo infine firmato a Washington nel 1987 poneva fine alle tensioni che gravavano sull’Europa, prevendendo l’eliminazione e distruzione da ambo le parti dei vettori a gittata intermedia (500 – 5500 Km) prevedendo un sistema di ispezioni reciproche e ponendo le basi per il successivo dialogo sulla diminuzione progressiva degli arsenali strategici.
Considerato come un capostipite della politica di disarmo internazionale, il Trattato INF non è mai stato messo ufficialmente in discussione sebbene nell’ultimo decennio, in più occasioni, le due Parti si fossero vicendevolmente accusate di violarne le disposizioni.
In particolar modo, a destare preoccupazione alla Casa Bianca è stata la politica di modernizzazione delle forze missilistiche russe, avviata dal 2007, che ha portato nel 2014 ad una prima fase di test e al successivo dispiegamento di nuovi vettori basati a terra. Le armi contestate appartengono ad una nuova generazione di missili formalmente non rientranti nelle categorie bandite dal trattato INF, quali il Missile Balistico Intercontinentale (ICBM) RS-26 “Rubezh” (apparentemente congelato durante quest’anno) e il vettore R-500 (SSC-8 nella nomenclatura NATO) imbarcabile su sistemi missilistici Iskander. I due nuovi vettori hanno sollevato le proteste dell’Amministrazione Obama in quanto i primi, pur essendo formalmente ICBM, sono stati testati su distanze inferiori ai 5500 Km, lasciando presagire un possibile uso a livello di teatro, mentre i secondi, ufficialmente dislocati come batterie difensive con una gittata non superiore ai 500 Km, risultano essere in grado di lanciare missili Cruise, quali gli R-500, con gittata massima gittata molto superiore ai 500 km, violando così le disposizioni del Trattato. Le proteste americane sono state ribadite nel dicembre 2017, quando l’intelligence statunitense ha riscontrato l’avvenuto dispiegamento degli SSC-8 in alcune basi in territorio russo minacciando non solo nuove sanzioni ma anche la denuncia stessa del Trattato INF.
Figura. Un SS-20, tra i vettori proibiti dal Trattato INF

Parallelamente, Mosca ha lamentato la denuncia statunitense del trattato ABM e la dislocazione in Europa dei nuovi sistemi di difesa missilistica nell’ambito del “NATO missile defence system”, un sistema integrato volto all’intercettazione e abbattimento di eventuali vettori di paesi ostili indirizzati verso l’Europa. A sollevare le proteste di Mosca è stato, in particolare, il posizionamento nel 2016 dei sistemi di lancio Mk-41 fondamentali per rendere pienamente efficace lo scudo missilistico. A causa di tali sistemi Mosca non si sentirebbe più sicura in quanto la sua capacità di rappresaglia non è garantita e avrebbe iniziato una nuova corsa missilistica. Di conseguenza, la Russia ha più volte minacciato non solo l’uscita dal Trattato INF ma anche dal Trattato New START, firmato nell’Aprile 2010 dal Presidente americano Barack Obama e l’omologo russo Dmitrij Medvedev.
Quanto è avvenuto negli ultimi giorni quindi segna solo l’ultimo atto in un crescendo di accuse reciproche che negli ultimi anni ha portato a temere una nuova corsa agli armamenti che per i più sembrava confinata ai libri di storia. La scelta dell’Amministrazione Trump non deve però sorprendere se letta alla luce di una progressiva ridiscussione degli obblighi internazionali degli Stati Uniti che sembrano oggi essere più insofferenti ai limiti posti da trattati multilaterali giudicati svantaggiosi se paragonati alla libertà di azione di cui godono possibili competitor. In particolar modo è da sottolineare come nella dichiarazione con cui il Presidente Trump affermava di voler ritirare gli USA dall’accordo INF, egli si sia soffermato sulla necessità di ridiscutere gli obblighi derivanti dal trattato e, soprattutto, di inserire tra le parti coinvolte anche la Repubblica Popolare Cinese. Come affermato da Stratfor, proprio la crescita della capacità militari cinesi in Estremo Oriente è oggi la principale preoccupazione della Casa Bianca tanto che lo U.S. Army prevedeva il possibile dislocamento di forze missilistiche terrestri in grado di colpire postazioni e unità navali cinesi nelle acque turbolente del Mar Cinese Meridionale e Orientale. La fuoriuscita dal Trattato lascerebbe gli Stati Uniti liberi di perseguire tale obiettivo potendo armare con nuovi vettori le principali basi nel Pacifico Occidentale, prime tra tutte Okinawa e Guam.
Le reazioni alle dichiarazioni di Donald Trump manifestano però tutta la preoccupazione di una comunità internazionale che teme per una nuova corsa agli armenti nel caso in cui il ritiro statunitense si concretizzasse e non si giungesse a nessuna ulteriore intesa. Direttamente coinvolta nella decisione dell’Amministrazione americana, Mosca ha giudicato le dichiarazioni di Trump come un vero e proprio “tentativo di ricatto” sostenendo di essere pronta ad attuare tutte le misure necessarie per reagire alla decisione statunitense. Malgrado la retorica, è opportuno sottolineare come il ritiro americano possa essere funzionale agli interessi russi, concedendo al Cremlino maggiori margini di manovra nel processo di modernizzazione del proprio arsenale. La possibilità di sviluppare e dispiegare tali nuovi armamenti consentirebbe alla Russia di procedere più speditamente nell’aggiornamento delle proprie capacità offensive grazie ai minori costi che gli armamenti di teatro richiederebbero rispetto agli ICBM e alla luce delle forti costrizioni cui è sottoposta l’economia russa.
Diversamente dalla Russia che pur temendo una nuova corsa agli armamenti potrebbe eventualmente trarre vantaggio da un’eventuale rinegoziazione del Trattato INF, l’Unione Europea, per voce dell’Alto Rappresentante Federica Mogherini, ha riaffermato la centralità dell’accordo per la sicurezza europea richiamando gli Stati Uniti e la Russia a valutare attentamente le possibili conseguenze di un’eventuale abolizione del trattato per la stabilità del Vecchio Continente.
Analogamente, il Ministero degli Esteri cinese, per mezzo di un proprio portavoce, ha affermato la propria contrarietà all’abolizione del Trattato, considerato come una pietra angolare della sicurezza internazionale ma ha taciuto sulla possibilità di avviare trattative a tre in tal senso rivendicando la dimensione bilaterale dell’accordo e le possibili conseguenze multilaterali che un’eventuale sua eliminazione avrebbe.
Data la complessità della situazione e i bruschi cambi di rotta cui l’Amministrazione Trump ci ha abituato, immaginare una soluzione a breve termine della controversia è estremamente difficile. Come annunciato lo scorso 24 Ottobre, una prima indicazione della direzione che assumerà il dialogo sugli armamenti nucleari sarà data dall’incontro che si terrà a Parigi il prossimo 11 Novembre: in tale occasione, Donald Trump e Vladimir Putin avranno modo di confrontarsi sulla questione nell’ambito di un incontro multilaterale per la commemorazione dei 100 anni della conclusione della Prima Guerra Mondiale. La volontà americana di far pressione su Russia e Cina, giudicati i due principali sfidanti all’ordine internazionale americano nella National Security Strategy dell’Amministrazione Trump, è quanto mai evidente e la leva del Trattato INF è sicuramente uno strumento per forzare i due paesi a dialogare su diverse basi con Washington.