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Donald Trump, l’UE e la Repubblica Popolare Cinese: intervista a Mauro Gilli – Seconda Parte

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Quest’articolo costituisce la seconda parte di un’intervista più ampia, la cui parte iniziale è disponibile qui

Dopo aver affrontato le questioni più inerenti alla competizione tecnico-militare tra la Repubblica Popolare Cinese e gli Stati Uniti, nell’intervista a Mauro Gilli ci siamo soffermati sulle dinamiche politiche che contraddistinguono tale complesso rapporto mettendo in luce i possibili effetti dell’avvento alla Casa Bianca di Donald Trump e le diverse prospettive con cui l’Unione Europea e Washington guardano al gigante asiatico.

L.R.: Vorrei ora uscire dall’ambito tecnico-militare per affrontare da un punto di vista politico generale l’intero settore dell’Asia-Pacifico. Vorrei chiederti come il cambiamento della postura americana verso la Repubblica Popolare Cinese, avvenuto con l’avvento dell’Amministrazione Trump, possa influenzare lo sviluppo tecnologico cinese dato che, in passato, la Cina ha goduto di un contesto regionale sostanzialmente pacifico in cui, malgrado alcune frizioni o momenti di tensione con alcuni paesi vicini, nessuna potenza ha mai preso una posizione apertamente ostile verso Pechino. Vorrei quindi chiederti se la politica più assertiva verso la Cina dell’Amministrazione Trump possa influenzare e in che direzione lo sviluppo delle capacità militari cinesi.

M.G.:  Prima di rispondere è opportuno ricordare come sia difficile avere una risposta precisa e “full spectrum” su questo tema, ma è possibile riscontrare due trend diversi in questo campo. Il primo è un percorso indipendente dall’elezione di Donald Trump, ovvero la poderosa crescita economica e militare della Cina. Questa è una dinamica ormai pluridecennale, con le riforme del 1978 si sono iniziati ad osservare tassi di crescita sempre più sostenuti, dal 1991 questa crescita è stata accelerata ulteriormente e con l’apertura al WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, nel 2004 abbiamo avuto, letteralmente, l’esplosione economica cinese con tassi di crescita mediamente intorno al 10%.

Questa crescita così forte del PIL, pari a circa il 1000% dal 1991 a oggi, ha permesso alla Cina di investire una quantità enorme di risorse nella difesa, consentendole di fare progressi significativi nella ricerca militare. Il secondo trend riscontrabile è invece più strettamente legato a Donald Trump. Trump, anche per il personaggio mediatico che ha costruito intorno a sé, non ha peli sulla lingua quindi ha detto in modo esplicito cose condivise solo parzialmente dalla comunità di difesa americana, mentre su altre ha preso una posizione apertamente conflittuale con Pechino.

L’effetto più immediato di questa postura potrebbe essere quello di portare la Cina ad aumentare ulteriormente la spesa per la difesa o a focalizzarsi in settori strategici a livello economico e/o militare proprio alla luce delle posizioni di Trump. Ciò nonostante, non vedrei un “effetto Trump” sulle scelte strategiche cinesi, indubbiamente Donald Trump può aver accentuato o accelerato determinate decisioni o investimenti cinesi in determinati campi, ma non al punto di condizionare la visione strategica cinese. Per spiegare meglio questa posizione guarderei a quella che viene definita “China’s peaceful rise”, ovvero la campagna di relazioni pubbliche cinese che la Cina ha sostenuto alla metà degli anni 2000, in concomitanza dell’ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio.

Secondo tale retorica, la Cina intendeva presentarsi come una Potenza in ascesa ma interessata ad una crescita pacifica e non all’acquisizione territoriale o ad ambizioni egemoniche, respingendo così l’accostamento alla Germania guglielmina con la quale era spesso associata. Tale campagna era, se non condivisa, quanto meno non osteggiata all’interno delle Amministrazioni statunitensi o del mondo accademico americano. Questa visione è cambiata a partire dal 2012/2014, quando la Cina ha iniziato a costruire alcuni atolli artificiali o conquistare quelli naturali nel Mar Cinese Meridionale e a portare avanti attacchi cibernetici sempre più efficaci e frequenti, usando la Huawei come strumento di politica estera e spionaggio industriale, manifestando così un insieme di atteggiamenti che difficilmente possono essere associati ad un paese pacifico.

È da ricordare in questo ambito la vicenda di Shane Todd, un ingegnere americano trovato impiccato in circostanze mai chiarite nella sua stanza d’albergo a Singapore. Il ricercatore lavorava ad una tecnologia chiave per lo sviluppo dei radar per conto della Ime, un istituto di ricerca governativo, e molto probabilmente è stato ucciso poiché temeva che ciò che stava sviluppando potesse nuocere alla sicurezza statunitense in virtù dei sospetti sulle fonti di finanziamento dell’ente, dietro il quale vi era verosimilmente la Huawei.

Da allora la visione della Cina come un paese emergente con ambizioni pacifiche non è più largamente condivisa come era stato nel decennio precedente. Trump si è quindi inserito, nel 2016, quando questo cambiamento di prospettiva verso la Cina si stava manifestando in pieno.

L.R.: Su quali dossier è invece più visibile l’impatto della nuova Amministrazione?

M.G.: Paradossalmente, se si volesse vedere davvero un “effetto Trump” si potrebbe riscontrare in quegli ambiti che sono meno importanti, ad esempio Iran e Corea del Nord. Sicuramente i due dossier restano prioritari ma, a meno che le leadership dei due paesi non impazziscano tutto d’un punto, è molto difficile pensare che le ambizioni nucleari dei due paesi si trasformino almeno nel breve-medio periodo in qualcosa di potenzialmente catastrofico.

Su questi due campi, Donald Trump ha avuto, riprendendo un’opinione ampiamente condivisa, un effetto decisamente deleterio, cancellando l’accordo con l’Iran, che i paesi europei stanno tentando faticosamente di tenere in piedi e accelerando questo “gioco nordcoreano”, che andava avanti da molti anni e che la Corea del Nord ha capito che poteva portare avanti a proprio vantaggio. La Corea del Nord usa ormai da più di vent’anni il proprio programma nucleare per avere aiuti economici e Trump, con il suo modo molto estroverso di esprimersi, ha fatto il gioco della leadership nordcoreana.

L.R.: Rimanendo sul tema delle percezioni riguardo l’ascesa cinese, recentemente l’UE ha definito la Repubblica Popolare un “rivale sistemico”, un epiteto forse più morbido rispetto a quello di “rivale strategico” che ha impiegato l’Amministrazione Trump, e nelle ultime settimane, in occasione della visita di Xi Jinping a Roma, è nuovamente riemerso il dibattito sulla posizione che l’Unione Europea dovrebbe tenere verso la Cina. Vorrei chiederti quindi se esiste un diverso approccio, una diversa visione, della Cina tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea.

M.G.: Ancora una volta è estremamente complicato rispondere ma nel prossimo futuro sicuramente vedremo le posizioni di questi due attori divergere. Pur non volendo e non potendo fare analogie storiche con il periodo della Guerra Fredda, già nel confronto con l’Unione Sovietica erano emerse delle differenti vedute tra Europa e Stati Uniti, con la prima che sosteneva una linea spesso più morbida rispetto a quella statunitense o di alcune Amministrazioni statunitensi. Per questo l’Europa potrebbe avere una posizione più flessibile. Ad esempio, sulle grandi iniziative economiche e commerciali, come le Nuove Vie della Seta, l’Europa o alcuni paesi europei potrebbero essere più aperti di quanto l’Amministrazione americana vorrebbe.

Un ulteriore elemento è quello degli scambi commerciali: riprendendo il discorso fatto inizialmente, oggi il capitale umano gioca un ruolo fondamentale e se aziende europee estremamente avanzate in determinati settori iniziassero a permettere non solo la vendita di determinati beni ma anche il trasferimento di tecnologia alla Cina, sul modello dell’esempio della cooperazione tra Francia e India visto prima, con accordi di training e formazione di personale cinese, da questo la Cina potrebbe trarre un vantaggio importante.

In questa dinamica, i paesi europei avrebbero un esclusivo vantaggio poiché venderebbero servizi o prodotti ad elevato valore aggiunto, mentre per il governo americano questo tipo di scambi commerciali costituirebbero una minaccia poiché potrebbero facilitare la crescita economica e/o militare cinese. Quindi potremmo vedere assolutamente una divergenza tra le posizioni americane ed europee sulla Cina, dove queste ultime potrebbero riflettere un insieme di fattori, tra cui l’impatto degli interessi commerciali nazionali su quella che dovrebbe essere una comune politica estera europea verso la Cina e i diversi tassi di crescita economica che potrebbero spingere i paesi a più bassa crescita ad accettare investimenti cinesi.

 

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