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NotizieDiritti: le nuove proposte globali

Diritti: le nuove proposte globali

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Se pensiamo al XIX secolo, le strutture che reggevano le impalcature sociali, politiche ed economiche cambiavano una volta ogni novanta anni. Dagli anni ‘90 del XX secondo, invece, i grandi cambiamenti in grado di modificare le vite dei popoli avvengono una volta ogni tre o cinque anni.
Il rinnovamento dei problemi e della conoscenza che serve per risolverli diventa sempre più veloce e al momento non sembriamo scorgere un arresto all’orizzonte. Chi crede di essersi addormentato e risvegliato nello stesso mondo di prima compie un errore enorme frutto di un ragionamento di autoconvincimento (per guardare al mondo con più semplicità e irrazionalità possibile) ma anche autolesionista, poiché il mondo post-covid è tutt’altro pianeta.

I modelli sociali e relazionali sono mutati, l’uso della tecnologia è diverso, così come l’istruzione e il lavoro. Quando accadono sconvolgimenti di questa portata non vi è settore della vita che non venga quanto meno sfiorato e, logicamente, sta avvenendo anche questa volta. Quando l’impatto di un evento è così massiccio dal punto di vista sociale (oltre che sanitario, ammesso che la dimensione sociale venga realmente dopo di quella medica) cambia anche una cosa di cui, forse, dibattiamo poco: i diritti. Forti sconvolgimenti portano a grosse fratture sociali e civili e la politica mondiale, oggi, si trova a dover fronteggiare anche quelle oltre tutti gli altri problemi di ordine più prettamente economico.

Il covid-19 ha aperto la porta ad un nuovo enorme punto interrogativo: quali sono oggi i diritti? Cosa significa oggi “pari opportunità”?
Molti scienziati sociali affermano che le disuguaglianze che le società si trovano a fronteggiare in questa nuova fase sono sempre le stesse, e che al massimo si sono allargate maggiormente. Questa affermazione non è per niente errata se pensiamo all’inasprimento delle diversità di opportunità tra donne e uomini. Ben 740 milioni di donne nel mondo trovano impiego nell’economia informale, e quindi sono messe molto più a rischio da un blocco o un rallentamento dell’attività. Le donne dai 25 ai 34 anni occupate in settori informali hanno il 25% di possibilità in più di vivere in condizioni di povertà estrema rispetto agli uomini per via del Covid ed è chiaro che quando si parla di economia informale si parla di paesi in via di sviluppo. In alcuni paesi africani, asiatici e sudamericani la situazione è drammatica da questo punto di vista: la stragrande maggioranza dell’occupazione femminile – il 70% – lavora con poche protezioni contro il licenziamento, senza congedi per malattia retribuiti e un accesso limitato alla protezione sociale. Già il virus Ebola in Africa aveva dimostrato come le quarantene possano ridurre in modo significativo le attività economiche e di sostentamento delle donne, aumentando i tassi di povertà e aggravando tra le tante cose anche l’insicurezza alimentare. Le economie avanzate non se la passano meglio e, infatti, il primo round di licenziamenti “da Covid-19” è stato particolarmente acuto nel settore dei servizi tra cui vendita al dettaglio, ospitalità e turismo, dove le donne sono ben rappresentate (sono il 55,8 per cento a livello globale). Quasi il 60% dei posti di lavoro persi negli Stati Uniti, fino a metà marzo, erano occupati da donne, mentre nel Regno Unito i settori chiusi a causa delle misure di distanziamento sociale occupavano il 17% di tutte le lavoratrici e il 13% di tutti i lavoratori di sesso maschile. In Spagna, il 90% delle donne e il 64% degli uomini lavorano nel settore dei servizi, dove la disoccupazione è aumentata più rapidamente.
Possiamo dire lo stesso delle disuguaglianze territoriali, quelle tra periferie e centro. E a tal proposito c’è un dato che più di ogni altro ci costringe a un netto ripensamento dello stare in comunità, ed è quello del Bronx di New York, quartiere della Grande Mela con il più alto tasso di asma (poiché più colpito dal grande inquinamento cittadino) e diventato, per questa ragione di partenza, anche il primo quartiere newyorkese per morti di Coronavirus. Questo per tornare sulla questione di quale dimensione tra quella sanitaria e sociale venga prima e quale ponga le basi per l’altra. Quindi certamente le disuguaglianze legate al genere e all’accesso ai servizi sanitari (quelle classiche, per fare un esercizio di riduzione e legate fortemente ai dogmi culturali e all’economia) sono aumentate e la situazione va obbligatoriamente monitorata con estrema attenzione.

Esiste però un nuovo ordine di disuguaglianze, ciecamente sottovalutate, che si stanno increspando e che stanno decidendo chi vive civilmente e chi no, chi accede al mondo e chi ne resta escluso, e sono le disuguaglianze digitali e tecnologiche. Lo abbiamo accennato anche sopra, l’uso della tecnologia durante la pandemia è mutato e questo cambiamento si sta portando dietro diversi problemi che toccano la sfera dei diritti e dell’uguaglianza. Il tema posto non è dei nuovi ma è emerso più che mai questa volta con la presa di coscienza che nel mondo del Coronavirus la tecnologia può essere vitale.
L’improvvisa e forzata accelerazione della transizione digitale ha messo in luce l’abisso tra i connessi e i non connessi, proponendo uno scenario che necessita interventi mirati e repentini. Il divario digitale esiste, ed è il divario tra chi può accedere alle tecnologie e agli strumenti digitali e chi no, in modo parziale o totale. I dati Ocse sono chiari e ci raccontano una realtà estremamente diversa in base al luogo geografico che si occupa sulla terra: in Norvegia, Austria e Svizzera il 95% degli studenti ha un computer da utilizzare per attività di studio, mentre in Indonesia questa percentuale scende al 34%. Nei paesi in via di sviluppo, in generale, ampie fasce della popolazione non hanno accesso alle strumentazioni digitali e informatiche semplicemente e drammaticamente perché sono povere: per milioni di cittadini è impensabile acquistare un computer o un tablet.
Analizzando un paese sviluppato e ingrandendo la visuale, è facile notare che grandi divergenze esistono tra cittadini di contesti sociali ed economici differenti di quello stesso paese. Ad esempio, negli Stati Uniti esiste un gap importante tra coloro che provengono da ambienti privilegiati e svantaggiati: mentre tutti i minorenni provenienti da settori sociali elevati dispongono di un computer su cui studiare e connettersi, quasi il 25% di quelli che provengono da ambienti svantaggiati non ce l’hanno, e parliamo in questo caso della più importante democrazia al mondo. Questo è ciò che abbiamo potuto osservare anche in Italia, un paese occidentale (nel senso più abusato del termine) che però durante questi mesi di crisi pandemica ha visto diverse famiglie in estrema difficoltà nel far studiare i figli attraverso didattica a distanza e tanti altri in difficoltà col lavoro da remoto.
I diritti civili vanno ripensati e va ripensato il nostro approccio al digitale, e subito. Non si può più aspettare: garantire a una bambina o un bambino l’accesso ai servizi didattici digitali è oggi a tutti gli effetti un diritto civile fondamentale che impatta sulle pari opportunità e sull’uguaglianza di un paese e di una società e intervenire compositamente può sminare il campo da ulteriori tensioni sociali.

Perché l’abbiamo posta come una questione di politica internazionale?
All’inizio abbiamo parlato anche di “rinnovamento della conoscenza” per risolvere i problemi, questo rinnovamento non può fare altro che passare da soluzioni discusse globalmente poiché potremmo avere molte più opportunità di fare la differenza se la visione riesce ad essere la stessa (pur con differenti sensibilità) e a 360 gradi in uno spirito di necessaria (anche se talvolta non auspicata da qualcuno) concertazione internazionale così come accade per la pace, la sicurezza e il commercio. La questione dei diritti digitali non fa differenza e le direttive generiche devono essere più articolate e multilaterali anche per provare con forza a ridurre le enormi diversità che esistono tra i paesi del mondo che vivono un’iperdigitalizzazione e quelli che a fatica sopravvivono. La pandemia è servita anche a questo, a farci comprendere che chi va da solo sulle sfide di questo tempo rischia molto di più, ma se si costruisce, si include e si sintetizza onnicomprensivamente all’orizzonte potrebbero non esserci soltanto nuvole.

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