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NotizieDestino multi-nodale?

Destino multi-nodale?

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La domanda che ci si è posti sul destino unipolare delle relazioni internazionali ci costringe ad un’attenta analisi del sistema, degli attori che calcano tale scena e delle relazioni che intercorrono tra loro. Dalla facile ed evidente dicotomia sussistente nella seconda metà del XX secolo sembra si sia passati ad una situazione di altrettanto elementare e palese unipolarismo. 

Forse, però, questa visione già a distanza di pochi anni sembra essersi rivelata ottimistica, o quantomeno semplicistica, non tenendo conto di alcuni fattori strutturali e dei cambiamenti di medio e lungo periodo che si sarebbero manifestati di lì a poco. Ad oggi infatti la fazione degli unipolaristi sembra essersi ridotta, annoverando tra le sue fila soprattutto coloro che considerano la forza militare come cartina di tornasole dell’effettiva potenza di un paese, indicando a giusto merito gli Stati Uniti come tutori dell’ordine mondiale dall’alto della loro supremazia tecnologica e militare, in specie convenzionale, e portatori del know how strategico che ha visto una breve e positiva risoluzione dei maggiori conflitti simmetrici in cui sono stati coinvolti nel recente passato. Ciò non è altrettanto vero se si tengono in considerazione i conflitti di natura asimmetrica, che spesso si sono rivelati pantani strategici, diplomatici e d’immagine per gli USA, da cui sono usciti con fatica, e sempre con gli “stivali” sporchi di fango. Ad oggi una visione univoca sul metodo interpretativo del sistema internazionale non sembra sussistere. Uno degli approcci più dinamici ed interessanti è però quello della network analysis, utilizzata per comprendere le connessioni del sistema internazionale. Per capire bene questo metodo, è bene osservare il percorso che ci ha portato dal mondo bipolare, al multipolarismo contemporaneo, o quantomeno ad una varietà di approcci interpretativi.

Al termine della seconda guerra mondiale ci si rese lentamente conto che l’alleanza di guerra in funzione anti tedesca tra Stati Uniti e Unione Sovietica non si sarebbe potuta trasformare in un’intesa di pace. I rapporti tra le due maggiori potenze vincitrici diventarono subito tesi, attestandosi su una “coesistenza competitiva” che vide contrapposte per mezzo secolo due potenze, ma ancor di più due weltanschauung, due sistemi politici, ideologici ed economici differenti ed incompatibili. Nel giro di un decennio, dalla metà degli anni ’50 in poi, tale conflitto si radicalizzò e si espanse, assumendo dimensioni planetarie. Talmente evidente la sproporzione tra queste due realtà ed il resto del mondo, che le due superpotenze, appunto, monopolizzarono lo scenario internazionale, obbligando di fatto gli altri attori a prendere una posizione a favore di una delle due fazioni. Nonostante la creazione dello schieramento dei “non-allineati”, spesso definizione più nominale che sostanziale, si definì un effettivo bipolarismo, simmetrico ed inclusivo, tenuto sempre vivo dalla competitività economica, militare, tecnologica ed ideologica. Il sistema bipolare, lungi dall’essere in uno statico equilibrio, era il risultato di continui disequilibri e altrettanto continue rincorse finalizzate a bilanciare nuovamente la situazione.

Necessaria e prevedibile conclusione si sarebbe avuta con l’implosione di uno dei due attori, incapace di sostenere l’ennesimo gradino dell’escalation competitiva, o con l’esplosione del conflitto, probabilmente nucleare. Fortunatamente la storia scelse la via più incruenta per affermare le proprie ragioni: l’Unione Sovietica si dissolse, collassando su sé stessa, lasciando il podio libero per un solo vincitore. Da questo momento si possono trovare le prime definizioni di “sistema unipolare”, quando con gli anni ’90 si apre una stagione di entusiasmo economico per tutto l’occidente, sospinto dagli Stati Uniti, unica vera super potenza mondiale. Dall’alto della supremazia tecnologica civile e soprattutto militare, gli USA potevano ergersi a tutori della sicurezza mondiale, ad esportatori di libertà e democrazia, slogan vincenti nella loro guerra fredda dell’informazione. Il modello occidentale/capitalista funziona, attrae, vince sui mercati e sui campi di battaglia.

Ne è la prova evidente il successo del saggio di Francis Fukuyama, la “Fine della storia” del 1992, nella cui visione unidirezionale e progressista della storia, il capitalismo e la democrazia liberale si pongono come acme dello sviluppo umano. L’ottimismo unipolare si riflette anche nelle strategie di politica estera degli Stati Uniti, che riescono finalmente ad acquistare lo status, tanto agognato dai tempi del colonialismo in poi, di “City upon a hill”, a cui tutti rivolgono lo sguardo, e che può osservare tutti dall’alto della propria collina. Le strategie si rivolgono al futuro, forti della sicurezza che non ci potranno essere peer competitors nel breve periodo. I cambiamenti degli anni ’90, e le sfide che ne conseguono, ed ancor di più nel nuovo millennio, fanno vacillare la sicura visione unipolare, tant’è che lo stesso Fukuyama scrive un nuovo saggio, nel 1999, dal titolo emblematico “La grande distruzione”, in cui analizza la crisi del modello occidentale, in specie dal punto di vista del relativismo morale e della disgregazione dell’ordine sociale. Ad oggi questa crisi è ancor più evidente, dal momento che sta venendo meno anche uno dei fattori più importanti della supremazia occidentale, ossia l’economia. I vuoti politici, economici e strategici lasciati dagli Stati Uniti e dall’Occidente, vengono via via riempiti da nuovi attori, i mattoni su cui si costruirà il futuro del mondo, i cosiddetti “BRICS”, sospinti da una continua e sostenuta crescita economica e demografica. Ulteriori elementi di difficoltà nell’analisi sono inseriti da quello che alcuni hanno definito come il declino dello Stato.

Lo Stato nazionale, nella sua espressione moderna, sta perdendo sempre più potere e legittimità, in favore di organizzazioni sovrastatali, spesso a carattere economico e non politico, o addirittura in favore di attori privati con finalità disparate. Emblematico è il fatto che gli Stati abbiano perso legittimità e potere effettivo nell’uso della violenza, ambito in cui hanno sempre detenuto un vero e proprio monopolio, in favore di enti privati o di organizzazioni sovrastatali o parastatali. Alla luce di queste modificazioni strutturali, si è ancora alla ricerca di un modello interpretativo universalmente valido del sistema internazionale. Vi è chi a tutt’oggi vede il mondo come unipolare, basando coerentemente le proprie affermazioni sulla superiorità culturale e degli armamenti convenzionali degli Stati Uniti e sul loro investimento nella Difesa. Altra corrente di pensiero definisce un contesto multipolare, tenendo conto dell’emergere di nuovi attori statali, rilevanti dal punto di vista culturale, economico e militare.

Vi è ancora chi prevede un nuovo bipolarismo, presupponendo una nuova divisione diadica con i soli due poli attrattivi ora rappresentati da USA e Cina, unico peer competitor nel breve periodo. In ultimo c’è chi risolve la questione parlando di un’impossibilità sostanziale di definire un qualsiasi tipo di interpretazione unitaria di un contesto internazionale anarchico e caotico. L’approccio di network, coerentemente con i cambiamenti strutturali del sistema internazionale, si presenta con un metodo dinamico e che tenga conto delle differenze quantitative e qualitative tra gli attori. A mio avviso un modello basato sulla polarità dovrebbe essere ripensato: la polarità infatti presuppone un rapporto di complementarità e di reciproca dipendenza di due elementi diametralmente contrapposti. Questa lettura era coerente con il sistema internazionale che ha contraddistinto la seconda metà del XX secolo, in cui sussisteva un’interazione primaria tra i due poli, quello statunitense e quello sovietico, che esercitavano sull’altro una forza pari e contraria. Ad oggi gli attori del sistema sembrano mancare dell’attrazione “magnetica” ideologica e culturale che possa polarizzare il mondo e la stessa natura binaria della polarità sembra non essere coerente sia con un approccio unipolare che con uno multipolare. Infine nell’interpretazione contemporanea la caratteristica di polarità viene attribuita solamente agli Stati: il modello multipolare, per quanto sia coerente con la molteplicità degli attori, è fondamentalmente un modello multistatale. Lo Stato però sta perdendo il suo ruolo centrale, e molti attori di natura diversa stanno influenzando il sistema delle relazioni internazionali.

L’approccio suggerito dalla network analysis è invece quello di un modello “multi-nodale”, definendo l’insieme di relazioni tra i vari “nodi” di una rete, connessi in modo variabile. Gli attori risultano infatti legati tra loro, più che da norme condivise e strutturalmente definite, da un complesso di relazioni sociali e da un calcolo di opportunità. Il concetto di network suggerisce infatti un’idea di complessità sociale che include da una parte relazioni formali ed istituzionalizzate, dall’altra meno visibili relazioni informali. Questo approccio permette di comprendere i cambiamenti di un contesto fluido ed ambiguo come quello in cui ci troviamo, considerando la rilevanza delle connessioni tra tutti gli attori, che siano Stati, o realtà sovrastatali, parastatali, organizzazioni transnazionali, o enti privati. Uno dei massimi teorizzatori del concetto di network è Manuel Castells, che lo definisce come “un insieme di nodi interconnessi”. I network, afferma, hanno intrinseca flessibilità e adattabilità, due elementi cruciali per la sopravvivenza e la prosperità in un ambiente di rapido cambiamento. Ancora più specificamente, quindi, l’approccio di network ci permette di avere un paradigma interpretativo del complesso sistema internazionale che sia generale, ossia riferibile a tutte le realtà analizzabili, dinamico, multilivello e logicamente coerente con se stesso. Questo metodo ci permette quindi di analizzare le relazioni che intercorrono tra i classici attori legittimi, ossia gli Stati, ma anche tra i nuovi interpreti che si stanno presentando sulla scena internazionale e che acquistano sempre più rilevanza ed indipendenza. Il terreno perso dagli Stati sul campo della legittimità e della potenza di fatto, ha lasciato loro spazi aperti disponibili.

Sono emersi gli attori che hanno saputo adattarsi meglio al contesto mutevole, come le reti terroristiche, le organizzazioni non governative o intergovernative, le private security firms, le multinazionali economiche o i cosiddetti “complessi politici emergenti” teorizzati da Duffiled. La forza di questi interpreti risiede nella loro capacità di adattamento, nel superare il vincolante legame con il territorio, nella duttilità organizzativa che spesso risulta in altrettante organizzazioni reticolari, non piramidali, ma capillari. Gli Stati hanno rivelato grandi difficoltà a relazionarsi con questi attori; quando tali relazioni sono diventate conflittuali si è palesata l’inefficacia del conflitto convenzionale, della forza del diritto internazionale e del soft power. Ma sempre più spesso, coerentemente con i cambiamenti avvenuti, sembrano adattarsi ad un contesto multinodale, ripensando il loro rapporto strategico con il territorio ed icollegamenti che li connettono con gli altri nodi/attori del sistema. Esemplare è l’analisi del mutamento delle alleanze strategiche: coerentemente con l’idea di coalition of the willing che ha preso sempre più il posto delle alleanze strutturate all’interno di consessi ben definiti a livello sovranazionale, è ormai la missione che determina la coalizione, e non viceversa.

Se gli Stati si dimostreranno – e si stanno dimostrando – duttili, necessariamente il loro orientamento strategico sarà verso le reti e lo spazio ageografico. Ciò presuppone la volontà di recuperare la loro primazia e di adattarsi al mutamento, cercando di bloccare il processo di aumento della porosità dei loro confini economici, del diritto, del potere, del monopolio della violenza legittima. Un approccio di network permetterebbe così di esaminare in modo dinamico le relazioni tra i variegati attori del attuale sistema internazionale multilivello, senza rimanere disarmato di fronte alla sua complessità e alla sua velocità di cambiamento. È un modello che ha le potenzialità per affrontare le sfide che si presentano e per mettere insieme gli elementi di cambiamento, riferendosi sia ai fattori strutturali del sistema internazionale che al comportamento dei suoi attori.

 

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