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Destini divergenti: il lago (quasi) scomparso tra Kazakhstan e Uzbekistan

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L’acqua è “l’oro liquido” dell’Asia Centrale e la tragica storia del Lago di Aral ne è la prova. L’Aral era il quarto lago salato più grande del mondo, ma le politiche di sfruttamento messe in atto dall’URSS lo hanno prosciugato, lasciando al suo posto un letto deserto. È stato un disastro di enorme portata: non solo ambientale, ma anche economico e umano. Solo di recente, all’inizio del XXI secolo, sono state attuate delle politiche per cambiare il destino del Lago scomparso, o, almeno, di parte di esso.  Sessant’anni dopo quello che è stato definito “uno dei più gravi disastri ambientali”, qualcosa sembra cambiare: l’area nord del lago, sotto la giurisdizione del Kazakhstan, sta tornando in vita. Lo stesso non si può dire per la sponda opposta del bacino, quella uzbeka, che è ancora un letto di polvere e relitti di pescherecci.

Come si spiegano i due “destini divergenti” del Lago di Aral? L’Uzbekistan – fortemente impoverito dalle politiche economiche dell’URSS – non è stato in grado di rinunciare alla produzione di cotone, che costituisce la sua principale fonte di reddito, ma che richiede una grande quantità di acqua. Il Kazakhstan, dall’altra parte, già prima della caduta del muro di Berlino, ha posto come priorità la soluzione del pressante problema ambientale costituito dal lago prosciugato. Cosa è successo allora, e cosa sta accadendo ora?

Un disastro (soprattutto) politico 

Il lago Aral, che fino agli anni ’50 era uno dei bacini salati più grandi al mondo, è stato vittima di un enorme disastro ambientale e politico. Il drenaggio di questo gigante bacino è stato un effetto collaterale delle politiche economiche e ambientali messe in atto dall’Unione Sovietica nei confronti dei suoi stati membri. Il fine del regime comunista era quello di rendere irrigabili le grandi steppe Euroasiatiche – chiamate černozëm, cioè terre nere – e di favorire la crescita dell’intera area sovietica, mantenendo allo stesso tempo la relazione di dipendenza tra centro e periferia dell’Unione. In particolare, la domanda di cotone da parte della Russia ha fatto sì che molte aree arabili dell’Asia Centrale si super-specializzassero nella produzione della suddetta fibra, che richiede grandi quantità di acqua. Questo fenomeno ha preso il nome di “dittatura della monocoltura”, e ha favorito la creazione di quel legame di dipendenza a lungo termine – economica ma anche politica – voluto dall’URSS. 

Proprio per trasformare le steppe limitrofe in fertili colture, i due principali affluenti del Mare d’Aral, l’Amu Darya e il Syr Darya, sono stati deviati negli anni ’50, sotto il regime di Nikita Krusciov. I fiumi costituivano da soli i quattro quinti dell’approvvigionamento idrico dell’Aral. Non solo: metà dell’acqua dirottata in questo modo, veniva persa durante il tragitto a causa delle infrastrutture, costruite sommariamente e velocemente. In soli trent’anni, molte parti del lago si sono trasformate così in vere e proprie zone desertiche. 

Il prosciugamento del bacino ha avuto diverse conseguenze disastrose, prima di tutte la distruzione e il dislocamento delle comunità di pescatori che vivevano sulle sponde del lago. Non solo le acque si stavano ritirando, ma erano anche inquinate da fertilizzanti e pesticidi – utilizzati per aumentare la produttività e la fertilità dei campi di cotone – che uccidevano rapidamente la fauna. Solo in seguito è stato scoperto che alcuni di questi prodotti, come i DDT e il Toxaphene, hanno effetti cancerogeni e mutageni. 

Tutto ciò che rimaneva del grande lago era una sabbia estremamente salata e inquinata che, trasportata dal vento, raggiungeva le città e i paesi limitrofi causando tempeste di un pulviscolo letale. Questa polvere si posava ovunque, anche sui campi di cotone, che dovevano essere irrigati ancora di più per non soccombere, mettendo in moto un circolo vizioso sempre più dannoso. 

Gli esperti credono che il disastro del Mare d’Aral abbia causato più di 100 000 sfollati – i pescatori locali costretti ad abbandonare tutto e fuggire dal litorale con le loro famiglie – e 5 milioni di malati. Infatti, i problemi di salute e le malattie registrati – tra cui tifo, epatite A e tubercolosi – sono stati e sono ancora una delle conseguenze più catastrofiche della distruzione dell’Aral. 

Due destini opposti: il lago d’Aral tra Kazakhstan e Uzbekistan 

All’inizio del XXI secolo, qualcosa è iniziato a cambiare sulla sponda kazakha del lago. Infatti, le acque dell’Aral hanno iniziato a crescere, diluendo la salinità e i componenti chimici presenti nelle sue sabbie. 

Il Kazakhstan, fin dalla sua indipendenza nel 1991, si è impegnato in un piano di salvataggio da 85 milioni di dollari, supportato dalla World Bank. Con questi fondi è stata costruita tra il 2001 e il 2005 la diga Kok-Aral, che divide il lago in due, sfruttando l’altitudine della parte nord. La diga è lunga 12 km e blocca il flusso dell’acqua verso la parte più bassa del bacino, quella Uzbeka. Il litorale Kazakho sta recuperando la sua vita sociale ed economica: l’industria della pesca è rinata, quintuplicando la produzione, e i villaggi sulla costa si stanno ripopolando. 

Sulla riva sud dell’Aral, quella del landlocked Uzbekistan, la situazione è drasticamente diversa. Infatti, quella parte del bacino, che prima si estendeva fino alla città portuale di Mo’ynoq è ancora per la maggior parte secca. 

Anche qui sono stati proposti dei piani di salvataggio simili a quelli che hanno avuto successo nello stato limitrofo, ma non sono stati accolti né implementati allo stesso modo. Gli ostacoli sono di natura politica ed economica. L’Uzbekistan, infatti, era il maggiore esportatore di cotone dell’URSS, e, dopo il 1991, ha mantenuto un ruolo prominente in questa industria. Attualmente, è il quinto produttore ed esportatore di cotone al mondo, vendendo la fibra a paesi come gli Stati Uniti, l’India, il Brasile e l’Australia. Il paese centroasiatico, come molti suoi vicini, produce e trasporta anche gas e petrolio, ma questo mercato costituisce solo una minima parte del suo PIL. 

Infine, dopo la caduta del muro di Berlino, in Uzbekistan è salito al potere Islom Karimov, che ha governato fino alla sua morte nel 2016. Il suo governo non è stato in grado, o non ha voluto, rinunciare alla remunerativa industria del cotone per riabilitare il lago morente e per diversificare l’economia del paese. Ciò avrebbe comportato un grande tasso di disoccupazione e una crescente, anche se temporanea, povertà. A causa di queste politiche poco lungimiranti, nel 2015 l’area sud si è totalmente prosciugata, lasciando solo un piccolo residuo di acqua salatissima e inquinata, nel mezzo del bacino desertificato. 

Ostacoli presenti e futuri

I fondali asciutti dell’Uzbekistan sono di recente diventati una fonte di reddito per le compagnie che producono gas naturale. Questa soluzione, tuttavia, non è un piano sostenibile né risolve i problemi più gravi che il deserto dell’Aral comporta. Infatti, anche a causa del cambiamento climatico, tempeste e acquazzoni si abbattono con più frequenza sulla regione in questione e spostano la sabbia, carica di sedimenti chimici nell’area, fino al vicino Turkmenistan, causando malattie e problemi respiratori. 

Allo stesso modo, il successo delle politiche Kazakhe non è privo di rischi a lunga scadenza, se non verrà incorporato in un più esteso progetto di cooperazione ambientale. La domanda d’acqua – l’oro liquido del XXI secolo – sta crescendo esponenzialmente in Asia Centrale, mentre la disponibilità della stessa resta bassa. Per scongiurare futuri conflitti nell’area, è necessaria una forte cooperazione nella gestione transfrontaliera delle risorse d’acqua. 

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